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Balcani/Storie di pace su un campo di calcio

 

Giancarlo Mola

 

 

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Un’ora di calcio, nella Belgrado devastata dalle bombe, tra la squadra locale del Partizan e i greci dell’Aek Atene. Un torneo negli Stati Uniti per i giovanissimi calciatori della nazionale jugoslava juniores. O l’abbraccio del cestista serbo Sasha Danilovic, della Kinder Bologna campione d’Italia e d’Europa, all’americano Davis del Pau, prima della partita decisiva dei quarti di finale dell’Eurolega di basket giocata giovedi’ 1 aprile in Francia.

Piccoli, in alcuni casi discutibili, gesti di pace in una primavera straziata dalla guerra. Cadono infatti l’uno dopo l’altro i ponti della Serbia, sotto i colpi dei missili della Nato. L’isolamento di Belgrado rispetto alla comunita’ internazionale diventa ogni giorno piu’ drammatico. L’unico ponte che resiste sembra essere quello dello sport. E gli atleti appaiono gli unici ambasciatori di pace accreditati da entrambe le parti. O almeno provano ad esserlo.

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Lo sono stati senz’altro i diciotto ragazzini poco piu’ che tredicenni della nazionale jugoslava juniores di calcio. Partiti da Belgrado il 26 marzo, a guerra appena iniziata, sono saliti su un aereo, destinazione Dallas, Texas. Dove hanno partecipato ad un torneo internazionale di calcio giovanile. C’era tensione, alla vigilia della cerimonia di apertura, nel campo sportivo della Lake Highland High School, domenica 28 marzo. Quando pero’ e’ sfilata la rappresentativa jugoslava, i diecimila dello stadio sono esplosi in una "standing ovation". "Su un campo di calcio non ci sono guerre", ha detto poi Billy Sanez, uno degli organizzatori del campionato. "E’ stato stupendo, si poteva sentire il cambiamento di atmosfera, si potevano vedere enormi sorrisi sulle loro facce. Mi sono commosso".

La gioia dei piccoli calciatori serbi e’ durata poco, pero’. Le notizie che in quei giorni arrivavano dai Balcani sono diventate sempre piu’ preoccupanti. Le bombe sono cadute a pochi passi dalle abitazioni di molti di loro, i contatti con i genitori si sono fatti sempre piu’ difficili. Alla fine i quattro accompagnatori hanno deciso che era arrivato il momento di ripartire. Verso Belgrado, verso la guerra. Per un viaggio triste e pericoloso che avrebbe portato i ragazzini in aereo da Dallas a Budapest e da qui, di mattina presto, prima dell’inizio dei bombardamenti, in pulmann fino alla capitale serba.

Le otto famiglie americane che hanno ospitato la squadra hanno cercato in ogni modo di far rimandare la partenza. "Rimanete fino alla fine della guerra", hanno detto. Ma le insistenze sono state inutili. L’aereo con a bordo i giovanissimi calciatori serbi ha lasciato la citta’ texana lunedi’ 5 aprile. Ora sono tornati a casa. E la loro gita negli States e’ ormai solo un bel ricordo, sbiadito dalla drammatica quotidianita’ della guerra.

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Il giorno successivo al ritorno in patria dei nazionali jugoslavi juniores, ancora una volta il calcio ha riavvicinato la Serbia al mondo occidentale. Mercoledi’ scorso infatti a Belgrado, nello stadio del glorioso Partizan, si e’ tornato a giocare. Nella capitale serba sono arrivati i greci dell’Aek di Atene, squadra di serie A, per disputare una partita amichevole. L’incasso della partita e’ stato devoluto a organizzazioni umanitarie serbe. "Abbiamo vinto molti titoli sul campo, questo e’ un titolo umanitario", ha commentato Dimitris Melissanidis, presidente del club greco e promotore del match. Che e’ durato un’ora ed e’ finito 1-1, tra gli abbracci e gli scambi di magliette dei giocatori delle due squadre.

Abbracci che pero’ hanno suscitato polemiche. La trasferta dei greci non e’ apparsa propriamente un gesto di pace. La Grecia fa infatti parte della Nato, ma i suoi abitanti sono di religione ortodossa. Come i serbi. E il governo di Atene, pur avendo fornito il supporto logistico ai caccia alleati, si e’ tirato indietro di fronte all’ipotesi di un intervento diretto nel conflitto nei Balcani. Sospetti probabilmente incoraggiati da uno striscione comparso sugli spalti. Che recitava: "Il popolo ortodosso lotta unito contro le bombe del diavolo". La chiesa greca, per di piu’, dall’inizio della crisi si e’ schierata apertamente contro l’azione della Nato e ha ripetutamente chiesto la sospensione degli attacchi aerei.

La questione resta aperta, quindi. Da una parte l’icona dello sport contro la guerra. Della violenza sublimata e nobilitata dei muscoli contro quella brutale e distruttrice delle armi. E degli sportivi come voce fuori dal coro. Dall’altra l’ombra della propaganda. Gli atleti serbi che giocano nei club europei di calcio, di basket o di pallavolo hanno i mezzi farsi sentire. Non altrettanto nitide arrivano le voci degli albanesi, marginali pure sui campi da gioco. La banda nera al braccio di Sinisa Mihailovic e dei suoi colleghi ricorda il lutto della sua gente o di tutte le vittime di questa guerra? La loro protesta e’ indirizzata contro i bombardamenti della Nato o anche contro la repressione nel Kosovo? E soprattutto, gli appelli degli sportivi al cessate il fuoco sono davvero invocazioni di pace, o piuttosto incitazioni al nazionalismo? Le domande vengono fuori facilmente. Le risposte, purtroppo, no.

 

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