Pomodori e paradossi
Odette Misa Sonia Hassan
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Da bambina ho letto dalla prima all’ultima riga il libro Cuore,
piangendo tutte le mie lacrime. Oggi che sono un po’ cresciuta vado
al cinema solo con amici collaudati, perché sono una di quelle che
appena entra in un cinema apre i rubinetti.
Così, quando vado al ristorante biologico, ho qualche senso di colpa.
Il cibo biologico costa un po’ di più, e non potrebbe mai saziare
il sud del mondo, quello appunto rappresentato dal ministro nigeriano
Hassan Adamu, che ha ammonito l’occidente su quanto e perché possa
essere diversa la visione che un africano ha di un alimento
geneticamente modificato da quella di un europeo o di un nord
americano (vedi articoli collegati).

E così anch’io, sempre attenta ai buoni sentimenti, ho pensato che
saziare il sud del mondo fosse il vero beneficio offerto dal progresso
biotecnologico.
Ma ho dovuto constatare che sono una bugiarda: non è solo questione
di buoni sentimenti, a me il cibo tecnologicamente modificato piace
molto più di quel che sia disposta ad ammettere.
Faccio un esempio. Quest’estate, ritornando a Roma da una breve
vacanza in campagna, ho avuto in regalo una busta di pomodori di
quelli genuini, colti lì per lì e coltivati senza alcun ausilio
tecnologico. Li ho messi distrattamente in frigo e quando li ho
ritirati fuori, dopo un paio di giorni, tagliarli per fare un’insalata
è stata una tortura. Erano tutti diversi, non sono riuscita a
trovarne due uguali. Avevano anche una consistenza diversa l’uno
dall’altro, e persino il sapore non era uniforme … ogni pomodoro
aveva il suo. Infine, meraviglia delle meraviglie, uno dei pomodori
era marcio: colto tre giorni prima e conservato nel mio modernissimo
frigorifero era riuscito ad andare a male.
Prima mi sono scoperta indispettita per il contrattempo, e subito dopo
sorpresa, perché per quanto mi sforzassi non riuscivo a ricordare
quando fosse stata l’ultima volta che avevo visto marcire un
pomodoro. Anche adesso, se faccio uno sforzo di memoria, continuo a
non ricordare. In quella circostanza, dopo aver pensato e riflettuto,
ho buttato i pomodori nella pattumiera, per estrarre dal frigo un
contenitore di polistirolo e pellicola con dei pomodorini comprati
quindici giorni prima: belli, tutti uguali, tutti sodi, con un sapore
uniforme e noto. Grande è stata la soddisfazione con la quale ho
preparato l’insalata.
Sembra che io non sia stata capace di utilizzare cinque minuti del mio
preziosissimo tempo per scegliere due pomodori, e che il mio
raffinatissimo gusto, che schernisce i sapori globalizzati delle
catene di hamburger, accetti solo il sapore omologato delle verdure
programmaticamente fresche. Mi chiedo, e chiedo a chi mi vuol
rispondere: siamo veramente pronti a rinunciare ai vantaggi dell’alimento
tecnologico, o il mito del genuino è solo uno stupido romanticismo?
Quanto potrebbe piacere anche a noi ricchi occidentali il riso
arricchito in ferro e vitamina A? E se quella di progettarlo per chi
ha fame fosse stata solo una scusa?
Ciò che sto per scrivere può sembrare non avere niente a che fare
con la precedente riflessione sugli organismi geneticamente
modificati. Invece c'entra, c'entra moltissimo. E' stato nel sud del
mondo che ho visto un bambino vendere pane alle quattro del mattino, e
per paura che non fosse igienico non l’ho comprato. Sicuramente non
era igienico, però forse al bambino avrebbe fatto comodo il mio
dollaro.
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