Mai più olio di serpente!
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La definizione è ‘Consiglio dei diritti genetici’; il suo lancio
è avvenuto durante il convegno nazionale ‘Biotecnologie e futuro
dell’umanità', tenutosi a Roma lo scorso 30 settembre. Sabina
Morandi è il direttore scientifico di questo nuovo organismo che
intende 'vederci scientifico' in tutti i meandri delle scoperte, delle
ricerche e delle legislazioni in merito alla genetica e alle
biotecnologie. Moltissime le adesioni illustri di scienziati e
umanisti: “E conoscendo bene quanto i ricercatori scientifici siano
diffidenti, anche per il fatto di essere spesso contestati - racconta
Sabina - la loro adesione appare insperata e incredibile. Forse si
sono sviluppate fra loro una sensibilità e una capacità di
autocritica superiori a quelle che esistono fra gli umanisti”.
Una laurea in filosofia della scienza e studi specializzati nel
settore delle biotecnologie, Sabina, 39 anni, è giornalista
scientifica free-lance. Collabora con ‘Zadig, giornalismo
scientifico’, un’agenzia di Milano che fornisce consulenza di
settore a vari giornali, e scrive su un’ampia serie di testate, da
‘Gioia’ a ‘Tempo medico’, da ‘Liberazione’ a ‘Le scienze’.
Ha appena firmato anche due libri, usciti entrambi in primavera. “Il
gene nel piatto” (Tecniche nuove), è stato redatto insieme a
Mariella Bussolati, giornalista di ‘Focus’: è un allegro trattato
che partendo dalle origini e quindi dall’agricoltura arriva ad
affrontare la grande questione del transgenico alimentare, con tutto l’apparato
della normativa internazionale. “Quasi come voi” (Derive e
approdi), è invece un romanzo in cui pensiero scientifico e
sentimenti si mescolano insieme.
Durante l’intervista Sabina Morandi usa spesso il “noi”, quasi a
specificare che è necessario impegnarsi collettivamente a cercare
chiarezza su argomenti che sono sulla bocca di tutti e che vengono
spesso trattati in modo approssimativo.
Qual è la funzione del Consiglio dei diritti genetici?
Noi ci basiamo su un assunto fondamentale: bisogna sottrarsi alla
contrapposizione fra scientisti e anti-scientisti. Premesso che non
abbiamo un’opposizione radicale o a priori alle
biotecnologie, noi pensiamo semplicemente che manchino i dati
scientifici, per cui accusiamo il biotech di mancare di
scientificità. Il problema sta nel fatto che i prodotti
biotecnologici che hanno invaso i mercati, e che vanno dal transgenico
alimentare ai test genetici, sono stati vagliati solo dalle case
produttrici. Per fare un esempio facile, il dossier scientifico di
ciascun alimento transgenico viene fornito dalla stessa casa che l’ha
prodotto, perché manca una istituzione indipendente e obiettiva che
fornisca una valutazione scientifica super partes. Ecco, noi
vogliamo riempire questo vuoto e ci proponiamo di riunire, di mettere
in contatto tra loro, di far accedere alla Rete tutti quei ricercatori
scientifici, molti e isolati, che hanno a cuore questa questione.

Che cosa comporta il suo ruolo di direttore scientifico?
Per cominciare mi occuperò dei contatti dei ricercatori e dell’articolazione
dei progetti. Non vi nascondo che è un piano molto ambizioso: creare
l’ennesima associazione non è difficile, il problema sta nel
renderla veramente operativa. Inoltre soprattutto i ricercatori sono
abituati a essere molto settoriali, anche perché la scienza e la
tecnologia sono arrivati a un livello tale di specializzazione che uno
che si occupa dei virus delle piante non comunica con un biologo
molecolare, per cui dovremo superare anche un problema di linguaggio.
E poi bisogna far parlare gli scienziati con gli umanisti, gli
umanisti laici con gli umanisti cattolici, e così via. Una torre di
Babele dove creare uno spazio di comunicazione
Un Consiglio così eterogeneo dove trova questo spazio comune?
Siamo persone con posizioni etico-filosofiche molto diverse: il
Consiglio ospita la visione del mondo estremamente laica di Mario
Capanna ma anche quella cattolica di Padre Bartolomeo Sorge, e ancora
l’ottica scientifica di Nelson Marmiroli, ordinario di Tecnologia
ricombinanti, o quella di Claudia Sorlini, ordinario di microbiologia
agraria. Lo spazio di comunicazione sta nell’essere d’accordo che
al di là delle grandi decisioni etiche, per prendere decisioni
politiche - l’autorizzazione di un tipo di mais, il finanziamento di
una particolare ricerca - sono necessari dei dati. Faccio un esempio
concreto: quest’estate si è discusso di cellule staminali
embrionali, un argomento che vede una grande contrapposizione tra
mondo cattolico e mondo laico - da una parte il grande tema dell’aborto
per i cattolici, dall’altra quello del mercato per i laici. Ebbene,
questo dibattito mancava totalmente di dati. Un parlamentare europeo
non può decidere sulla sacralità della vita, ma dovrebbe decidere
sulla base di dati e domande di competenza politica del tipo: ‘queste
ricerche sono fattibili?’; ‘è vero o no che si possono curare
alcune malattie con i trapianti delle cellule staminali embrionali?’;
‘quante persone si possono curare?’; ‘quanto costa?’; ‘fra
quanto tempo?’.
Come si comportano i governi delle singole nazioni in merito al
biotech?
Sembra che i governi del mondo per quanto riguarda i prodotti
biotecnologici non vogliano assumersi il ruolo di garanti che hanno
invece nei confronti dei farmaci. E per noi, questo è abbastanza
grave.
Perché si comportano così?
Il motivo è che i governi non si fanno più carico della ricerca.
Di conseguenza la ricerca è diventata sempre più applicativa, nel
senso che si fa solo se c’è la possibilità di ricavarne il
brevetto di un prodotto, per cui la corsa al prodotto e alla sua
vendita è sempre più rapida. Tagliando i finanziamenti alla ricerca,
i governi li hanno contemporaneamente tagliati anche agli organismi di
controllo, e se non ci sono delle task force che possano controllare,
bisogna per forza fidarsi delle cartelle fornite dall’industria che
lancia sul mercato un determinato prodotto.
Il Consiglio si interesserà non solo di transgenica, ma di tutte le
frontiere della genetica: qual è il problema che bisogna affrontare
con più urgenza?
Proprio quello alimentare. I prodotti transgenici sono già sul
mercato, senza che siano state fatte delle complete valutazioni, tra
cui quelle di impatto ambientale, e quelle di impatto sanitario che
possono scaturire dalle ricerche che molti scienziati non solo
italiani stanno facendo sul mais e la soya transgenici - riguardo alle
allergie e alla resistenza agli antibiotici, ad esempio.
E oltre al trans-‘gene nel piatto’, c’è qualche altro
problema urgente?
Bisogna affrontare il discorso della diagnostica pre-natale. Come
spiegava in primavera il garante per la privacy, Stefano Rodotà, sono
già in commercio moltissimi test, regolarmente proposti alle
gestanti, la cui scientificità non è affatto dimostrata. Il Comitato
Biosicurezze e Biotecnologie ammette questa carenza, ma allo stesso
tempo afferma che il settore dei test pre-natali è in grande
espansione economica, per cui non è possibile frenarlo. Facendo un
parallelo, è come se andando in farmacia trovassimo di tutto, dall’olio
di serpente, quello che si vendeva ai tempi del Far West, alla polvere
di denti di coccodrillo, e la commissione responsabile del controllo
di questi ‘farmaci’ accettasse di lasciarli sul mercato, pur
ammettendo di non conoscere le conseguenze della loro assunzione.
Per evitare che circoli altro olio di serpente, quale sarà il
vostro primo impegno concreto?
Innanzitutto costituirci e costruire un centro di documentazione
anche telematico. Prima di avviare nuovi lavori e progetti, è
fondamentale raccogliere i molti che già sono in circolazione.
Vogliamo fornire un centro di documentazione aperto a tutti.
E’ facile trovare dati in Italia?
No, perché in Italia non esistono luoghi che raccolgano questo tipo
di informazioni. Chi fa il mio lavoro sa quanto è difficile anche
semplicemente trovare l’elenco dei campi transgenici del nostro
Paese, che sono riuscita a trovare su siti esteri, come quello del
Parlamento Europeo.
Dove si trovano in Italia i campi transgenici?
Un po’ dappertutto, anche se alcune regioni li hanno rifiutati.
I campi transgenici sono di due tipi: quelli gestiti da istituti
pubblici che fanno parte di una rete di campi sperimentali e fanno
capo al ministero delle Risorse agricole, che sono i meno preoccupanti
secondo me perché comunque gli istituti sanno gestire una
coltivazione definita ‘segregata’, cioè che non si mescoli con
quelle naturali. Si tratta di sei, sette regioni, fra cui le Marche,
la Toscana, il Lazio che ogni anno sono disponibili da sempre a
sperimentare nuove varietà. Il problema si è manifestato quando a un
certo punto sono arrivate le varietà transgeniche per cui alcune
regioni, ad esempio le Marche, hanno rifiutato di fornire i propri
campi. Poi ci sono i campi più preoccupanti, cioé quelli non
controllati. Non essendoci strutture di controllo, una qualunque
multinazionale, come Novartis o Monsanto, può andare da un privato
con una manciata di semi e chiedere che vengano piantati in cambio di
soldi. E non c’è nessuno che controlla. In Italia accade spesso
così.
Solo in Italia?
No. Le multinazionali adottano questo comportamento proprio dove non
ci sono controlli, soprattutto nei Paesi del Terzo Mondo. In Italia l’organizzazione
Vas, Verdi Ambienti e società, ha denunciato parecchie di queste
situazioni ma se ci fosse un registro nazionale chiaramente il
controllo sarebbe più facile.
Quale libro bisogna leggere per avere chiaro l’argomento “transgenico”?
Io consiglierei “Il secolo biotech” di Jeremy Rifkin, edito da
Baldini e Castoldi, nel 1998. E’ un libro scientificamente un po’
esagerato e allarmistico per cui va anche preso con cautela, ma ha il
merito di fare una panoramica generale e di mettere insieme tutti gli
aspetti del biotech, dall’alimentare al farmaceutico. Un librone che
a vedersi può fare paura, ma leggerlo dà anche un’idea per quanto
riguarda gli annessi sociali ed economici del biotech. Perché non c’è
solo la questione se mangiare il mais fa male o no, c’è anche
quella sulle ricadute economiche.
Puoi farci un esempio concreto che riguardi l’Italia?
Sempre per rimanere nell’ambito più conosciuto, quello del
transgenico alimentare, l’Italia funziona sul mercato internazionale
perché ha delle produzioni di qualità, ma ha un territorio
estremamente diversificato, perché, ad eccezione della Pianura
Padana, non ha grandi distese pianeggianti come gli USA. Questa
condizione geografica e geologica provoca degli assoluti svantaggi dal
punto di vista economico, perché le biotecnologie, il mais e la soya
transgenici, sono pensati per grandi coltivazioni in vaste pianure, e
per grandi produzioni non di qualità ma di quantità. Ogni politico
deve tenere conto anche di questo aspetto. Si tratta di una scelta di
macroeconomia e di economia agraria, abbastanza importante perché
quando un’azienda o una multinazionale progetta un alimento
transgenico, lo fa per i propri interessi. Secondo noi questo è anche
giusto - non siamo ideologicamente anti-mercato - ma abbiamo forse un’idea
ottocentesca per cui vogliamo anche che lo Stato, che qualcuno di
indipendente eserciti una funzione di controllo.
Esistono ordinamenti italiani in merito al problema?
Come al solito ci sono grandi ritardi nella attuazione delle
direttive europee, che tra l’altro sono sempre oggetto di
discussioni. Per esempio, pur contestata, è passata la direttiva sui
brevetti, e questo crea una gran confusione.
Quale direttiva europea ci gioverebbe conoscere?
Il problema delle normative sta proprio nel fatto di essere sempre
in discussione, e dunque di venire facilmente aggirate. Per esempio
una normativa del ’98 imponeva che gli alimenti transgenici
considerati ‘non equivalenti’ a quelli normali fossero vietati al
commercio in tutti gli Stati europei, a meno che non venissero
accompagnati da un’etichetta che indicasse la presenza di organismi
geneticamente modificati al loro interno. Quelli ‘equivalenti’
invece potevano entrare in commercio senza bisogno di etichetta.
Un problema di linguaggio, dunque.
Sì. Il problema dipende proprio dal concetto di ‘equivalenti’:
in che consiste l’equivalenza? Perché in verità se un alimento è
transgenico non è equivalente a uno naturale. Sulla storia dell’equivalenza
o meno, ogni Stato europeo sta facendo il finimondo e ci si gioca
moltissimo. L’Associazione Verdi Ambiente e Società da un anno
circa ha un contenzioso prima con il ministro della sanità Rosy Bindi,
adesso con l’attuale ministero, perché a causa dell'ambiguità fra
equivalenza e non equivalenza sono stati messi sul commercio in Italia
degli oli di colza, derivati appunti da ogm, che perfino per la
normativa europea del '98 sono considerati ‘non equivalenti’,
perché superano una determinata percentuale di ogm. Si entra insomma
in una questione di cavilli in cui ci si perde facilmente.
Ultima domanda apparentemente fuori tema: quale tipo di scienza
racconti in “Quasi come voi”?
“Quasi come voi” è la storia di una creatura che ha molte
analogie con Frankenstein, ma che alla fin fine, a differenza di quest’ultimo,
è anche contenta di essere viva. Il mio protagonista è nato da una
manipolazione genetica che serve a creare animali da xenotrapianto,
come adesso si sta facendo con i maiali, cioè animali nei quali sono
stati inseriti alcuni geni umani per diventare serbatoi di organi di
trapianto. La creatura del romanzo, oltre a raccontare se stessa,
racconta il suo rapporto con chi l’ha creata e la sua difficoltà di
essere “quasi come voi”, cioè come noi. Non è un romanzo del
tutto negativo nei confronti della scienza. Ho cercato di far vedere
molti aspetti della ricerca, di presentare tutte le questioni, di
raccontare sia le potenzialità enormi del progresso scientifico in
termini di libertà individuale, sia l’estremo grado di angoscia e
di solitudine che certe frontiere della scienza possono ingenerare.
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