Caffe' Europa
Attualita'



Come i giornali trattano la criminalità/Intervista ad Antonio Polito, inviato da Londra di "Repubblica"

 

Isabella Angius, Ilaria Marchetti*

 

Articoli collegati
La paura cresce più del crimine
Cultura della legalità, sviluppo economico, sicurezza dei cittadini e funzionamento delle istituzioni. Dal circolo vizioso al circolo virtuoso
Come i giornali trattano la criminalità/Intervista a Alessandro Curzi, direttore di "Liberazione"
Come i giornali trattano la criminalità/Intervista ad Antonio Di Rosa, vicedirettore del "Corriere della Sera"
Come i giornali trattano la criminalità/Intervista a Paolo Gambescia, direttore dell'"Unita"
Come i giornali trattano la criminalità/Intervista ad Antonio Polito, inviato a Londra di "Repubblica"


 

Parliamo dei fatti criminali delle prime due settimane di quest'anno a Milano. Secondo lei i giornali hanno creato un ingiustificato allarmismo contro gli immigrati per ciò che riguarda la criminalità e la microcriminalità?

Non credo sia vero che i giornali si siano occupati in questi ultimi tempi di cronaca nera con una attenzione che non avevano avuto in passato. Se per cronaca nera vi riferite al singolo delitto, è un genere trattato da sempre, che fa tutt’uno con la storia del giornalismo popolare. Se invece vi riferite ai fenomeni sociali di criminalità diffusa, non credo sia tutto frutto del potere di agenda dei giornali. La verità è che un fenomeno veramente nuovo esiste: le statistiche possono accertare che il numero di episodi di cronaca nera non è radicalmente cambiato rispetto a 15-20 anni fa. Ma di certo è mutata la qualità dal delitto. Il delitto compiuto da un immigrato, magari clandestino, è un fatto socialmente nuovo. La difficoltà per un paese nasce quando si trova a dover convivere con sacche di criminalità endogena, per giunta non controllata. Questa è una novità e mi sembra normale che i giornali se ne occupino con grande rilevo.

 

Ma da come sono state presentate le notizie è sembrato che il nostro Paese si fosse trovato a dover fronteggiare il problema dell’immigrazione e della criminalità ad essa collegata per la prima volta.

E’ evidente che non è così. Indubbiamente l’Italia è un Paese che conosce da tempo quali sono le zone del territorio controllate da forme di criminalità organizzata: non deve sorprendere che in una zona della Campania la gente tolleri di più l’esistenza della camorra che non una banda di albanesi. Il problema è che esiste un livello di tollerabilità sociale dei fenomeni oltre il quale l’opinione pubblica percepisce il subire un’ingiustizia.

 

Ma paradossalmente sono meno tolleranti i cittadini di Milano che non quelli della Calabria. Basti pensare alle manifestazioni e agli slogan "tolleranza zero".

Ma "tolleranza zero" non è uno slogan riferito agli immigrati, almeno nelle sue origini: è un’idea di fronteggiare la criminalità non tollerando neanche la più piccola deroga alle regole. Cioè partire dal piccolo teppistello che rompe una finestra per restaurare un clima di convivenza sociale. Il fatto che le zone più ricche del Paese reagiscano con maggiore fastidio, è comprensibile perché è lì che il contrasto è più stridente.

 

Quindi non si può parlare di una vera e propria tendenza alla spettacolarizzazione: non è questo il caso in cui le notizie vengono eccessivamente gonfiate o distorte .

Io non dico che non ci siano distorsioni o esagerazioni, lungi da me! E’ ovvio che la stampa tende a scegliere la via più facile nel presentare i fatti. Ma i giornali comunque corrispondono a quello che avvertono che il loro pubblico sente e gradisce. Cioè il fenomeno di allarme sulla microcriminalità è un fenomeno reale e le enfatizzazioni dei giornali fondano comunque su un humus condiviso dalla popolazione. Non è seplicemente una mattana dei giornali che cercano solo di spettacolarizzare: certo la spettacolarizione c’è, ma poggia su un fenomeno esistente, quale è appunto l’allarme sociale. Voglio solo dire che se la tendenza alla spettacolarizzazione fosse campata in aria, cioè non corrispondente ad un allarme sociale reale, i giornali avrebbero già smesso, perché i lettori avrebbero segnalato il loro disappunto per questa linea.

 

Ci sono differenze nel modo di affrontare temi legati alla criminalità fra il giornalismo italiano e quello giornalismo inglese?

L’attenzione ai fenomeni sociali di criminalità e immigrazione clandestina in Inghilterra è altrettanto forte che in Italia. Infatti, seppure in maniera e misura diversa, anche l’Inghilterra è stata interessata da un’ondata di profughi clandestini recentemente. Qui la posizione della stampa è in maggioranza conservatrice, molto rigida su questi temi. I giornali popolari, compresi quelli di orientamento di sinistra, sono addirittura più sensibili di quelli italiani riguardo questa materia. Quindi la tendenza alla spettacolarizzazione c’è forse anche di più, perché e più ampia la stampa popolare.

 

Ma c’è anche un diverso rapporto con gli immigrati ?

Sicuramente. Questo è un Paese che ha conosciuto una prima ondata migratoria dai Cararibi già 50anni fa. Quindi ha una storia più antica di ondate migartorie contrassegnata sì da fenomeni di reazioni razziste, ma anche da un processo di integrazione continuo e, secondo me, di successo. Si trattava però di un’immigrazione più controllata perché proveniva da colonie dell’ex-impero. Quindi era più gestita, non caotica, come quella che avviene in Italia.

 

Quindi il problema in Inghilterra viene affrontato in una maniera più avanzata?

Certo, e questo vale in parte anche per la Germania. Cioè il problema che qui si pone è come rapportarsi agli immigrati che già sono qui, ormai anche da due generazioni: dei britannici a tutti gli effetti. E’ come se si fossero già costituiti gli anticorpi del problema, perché la malattia è più antica.

 

Tornado al problema della presentazione delle notizie, in Italia questa tendenza è aumentata anche a causa del tipo di informazione che viene presentata dalla televisione. Anche in Inghilterra la tv ha fatto aumentare nei giornali questo amore per ciò che è morboso, la ricerca dell’effetto, laddove magari non c’è?

Non direi. In generale qui c’è una differenza nel rapporto tra i vari mass media in rapporto all’esperienza italiana. Ciò che certamente è più spettacolarizzato e aggressivo è particolarmente presente nella stampa scritta che non nella televisione. Anzi, questa è più compassata: la BBC in particolare, ma anche la altre TV private. E’ difficile che apra una questione centrale per il Paese: in genere è la stampa che lo fa e poi la televisione la riprende. La televisione inglese è molto meno spettacolare e spettacolarizzata rispetto a quella italiana.

 

Di certo in Italia manca un lavoro di approfondimento, di inchiesta, come invece avveniva una ventina d’anni fa. Non è solo una tendenza a caricare eccessivamente i toni, non trova?

Sicuramente uno dei veleni dell’informazione italiana è il modo in cui viene fatte l’informazione televisiva. In generale comunque la carta stampata è più articolata nella presentazione dei suoi argomenti : articolata nel senso stretto del termine, cioè presuppone un ragionamento. Anche se vengono utilizzate delle metafore e si caricano i toni, la carta stampata ha la possibilità di contestualizzare i fenomeni, fare un rapporto statistico tra i fenomeni criminali tra le diverse città.

 

Infatti Milano non risulta come la città più violenta d’Italia...

Sì, ma ciò non toglie che i milanesi hanno ragione a preoccuparsi se avvengono nove omicidi in nove giorni. Non è che poiché Milano è statisticamente meno violenta di altre città, allora non è giustificato l’allarme sociale. E i giornali hanno ragione a parlare di "far west", anche se è sempre opportuno contestualizzare il discorso, proporre un’analisi del problema.

 

Ed è proprio questo che manca…

Si, direi di sì.

 

Però indubbiamente c’è una subalternità alla televisione: i meccanismi produttivi tendono ad assomigliarsi.

Sì, d’altronde pensate al quotidiano "La Stampa", che ha mutuato due formule di comunicazione televisiva quali l’editoriale francobollo, di sole venti righe, che non permette l’approfondimento tipico dell’editoriale classico, e il giornalismo didascalia, il racconto di una storia non attraverso le parole, ma tramite immagini, grafici e fotografie brevemente commentate con piccole didascalie. E’ quindi ovvio che si tenda a spettacolarizzare, perché in poche righe bisogna esagerare.


Ma il ruolo dei media non dovrebbe essere anche quello di educare il pubblico ad approfondire, aiutarlo a capire le cause di fenomeni come l’immigrazione e la microcriminalità? O è un’atteggiamento un po’ paternalistico?

Sì, non condivido l’idea di un giornalismo educativo. Mi sembra un’idea oltretutto vecchia. Inoltre l’editoria è la produzione di un bene che deve andare sul mercato. Il successo sul mercato dipende sia dalla sua sintonia con i consumatori, sia dalla sua autorevolezza. Quindi è evidente che è nell’interesse dei giornali essere seri e rigorosi nella spiegazione dei fenomeni.


Articoli collegati
La paura cresce più del crimine
Cultura della legalità, sviluppo economico, sicurezza dei cittadini e funzionamento delle istituzioni. Dal circolo vizioso al circolo virtuoso
Come i giornali trattano la criminalità/Intervista a Alessandro Curzi, direttore di "Liberazione"
Come i giornali trattano la criminalità/Intervista ad Antonio Di Rosa, vicedirettore del "Corriere della Sera"
Come i giornali trattano la criminalità/Intervista a Paolo Gambescia, direttore dell'"Unita"
Come i giornali trattano la criminalità/Intervista ad Antonio Polito, inviato a Londra di "Repubblica"

 

*Studenti del corso Teoria e tecnica del giornalismo dell'Universita' Roma 3


homearchivio sezionearchivio
Copyright © Caffe' Europa 1999

Home | Rassegna italiana | Rassegna estera | Editoriale | Attualita' | Dossier |Reset Online |Libri |Cinema | Costume | Posta del cuore | Immagini | Nuovi media |Archivi | A domicilio | Scriveteci | Chi siamo