Come i giornali trattano la
criminalità/Intervista a Paolo Gambescia, direttore dell'"Unita"
Alessandro Anello, Anna Maria De Blasio,
Raffaella Fiochi, Marco Termine*
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Rispetto a quindici o ventanni fa, come è cambiato il modo di trattare la
cronaca nera, i fenomeni criminali sui quotidiani?
La cronaca nera è trattata sempre allo stesso modo: cronaca nera vuol dire delitti. Ma se
per cronaca nera intendiamo i fenomeni criminali, allora è diverso. Anzitutto perché
ventanni fa la grande criminalità era una scoperta per i mass-media. C'era il gusto
di capire che cosa fosse la camorra, che cosa fosse la mafia, non nella accezione
letteraria ma nella realtà, nei comportamenti quotidiani; quindi c'era voglia di capire
perché era tutto sconosciuto. Al massimo il lettore aveva visto "Il Padrino".
Oggi invece il pubblico è più insofferente. Si commuove di fronte al bambino bruciato
nell'acido oppure al raid in cui sono morte sette persone, ma poi non gliene frega più di
tanto, perché sa tutto, o pensa di sapere tutto. E i giornalisti si comportano di
conseguenza. Non indagano più, danno per scontato che comunque questa materia non
interessa più di tanto.
Ma le differenze che si sono rispetto al passato lei come le spiega? E la
società ad essere cambiata, sono i quotidiani oppure è proprio la criminalità?
Intanto bisogna distinguere, perché non esiste una sola criminalità. Esistono episodi
criminali, esistono organizzazioni criminali, esistono industrie criminali. Sono cose
completamente diverse. C'è il piccolo criminale e il delitto conseguente, il reato
conseguente. C'è l'organizzazione criminale rappresentata da un gruppo di persone che
organizzano il crimine secondo regole non individuali e con un fine collettivo, che è
quello di far denaro o piazzare della merce. Infine, c'è una criminalità più complessa,
che ha dimensioni sovranazionali, con traffici che vanno oltre la capacità, la voglia, il
desiderio, la possibilità di realizzare nell'immediato un utile, che si comporta come si
comporterebbe una qualsiasi multinazionale industriale, una grande impresa. Quindi, quando
si parla di criminalità non si può fare un discorso generico, bisogna distinguere quale
è la criminalità alla quale facciamo riferimento.
Queste distinzioni ci aiutano anche a capire come si è evoluta la criminalità nel
corso degli anni?
Negli ultimi dieci anni non è cambiato nulla. Rispetto a venti o trentanni fa,
invece, cè un grande cambiamento, conseguente soprattutto al fatto che la
criminalità ha assunto una dimensione sovranazionale. Guardate alla mafia, l'espressione
della criminalità organizzata più nota e che ha più capacità di adeguarsi ai
cambiamenti. I traffici internazionali della mafia esistevano pure ventanni fa, ma
allora il problema per i giornalisti era quello di raccontare come la mafia, ad esempio,
la mafia italo-americana, si rapportasse alle famiglie palermitane. Oggi il problema è
capire come quel tipo di organizzazione criminale in America si rapporta in una dimensione
mondiale. Quindi non basta capire qual è la filosofia che la lega alla famiglia madre.
Ancor più importante è il modo in cui sviluppa il suo mercato, quali sono le sue
possibilità. A nessuno verrebbe più in mente oggi, di mettersi a raccontare come è
fatta una famiglia mafiosa, perché è uninformazione scontata.
Tornando ai nostri giorni, quanto può influire sull'opinione pubblica, il peso che
i quotidiani danno ad alcune notizie di cronaca nera? Pensiamo in particolare a
quello che è successo a Milano.
Ritengo che quello non sia un fenomeno criminale. Stiamo parlando di un fenomeno che,
attraverso l'atto illegale, mette in evidenza un problema che è nella sensibilità
comune. Ad esempio: se a Roma c'è uno scippo, lo scippo non ha significato per la
cronaca. Ha significato se avviene ai danni di un'anziano o se avviene in un quartiere
particolarmente bersagliato dalla presenza della microcriminalità, perché diventa un
problema di analisi della presenza di fenomeni devianti sul territorio. Ad esempio la
microcriminalità che attacca anche i vecchi, oppure le condizioni di sicurezza di quel
territorio.
Quando io ho cominciato questo mestiere, 35 anni fa, a nessuno di noi veniva in mente di
andare a capire perché ci fosse stato uno scippo o ci fosse stato un furto in
appartamento; era un fenomeno di delinquenza comune punto e basta. Oggi, e questo è
sicuramente positivo, la prima domanda che ti fai è: dove è avvenuto?
Ai danni di chi? Perché? Ci sono stati altri episodi? E' una cosa normale? Questo fa fare
un salto nell'analisi, perché il fatto criminale non è più riferito solamente
all'effetto che provoca rispetto al singolo caso ma è inquadrato in una visione molto
più generale. In questo i giornali hanno fatto un salto, sicuramente. Sono i fatti, la
condizione che crea le premesse per questo salto di analisi.
Quindi un' influenza vera e propria non c'è?
Si, c'è. Perché questa analisi può prendere diverse direzioni. Facciamo l'esempio
di Milano, e facciamo l'esempio della criminalità come oggetto di preoccupazione della
collettività. Se voi guardate i dati generali, vi accorgerete che i reati sono diminuiti,
soprattutto quelli più gravi. Però l'allarme sociale, in alcune realtà è aumentato,
perché si è formata una miscela: quando tu identifichi in una certa situazione o in una
certa condizione sociale, le ragioni di quel fenomeno di devianza, ogni singolo episodio
di quel fenomeno viene ricondotto a quella logica. Se io dico che Milano è insicura
perché ci sono, come si diceva trentanni fa, i calabresi, ogni episodio
riconducibile a quell'analisi fa crescere la tensione. L'esperienza mi dice che 20 anni
fa, se un tabaccaio veniva ammazzato durante una rapina, rientrava nella logica della
sfida criminale. Se oggi a Milano un tabaccaio viene ammazzato durante una rapina, il
problema è chi è che lo ha ammazzato? I mass-media hanno una grandissima
responsabilità. L'analisi della situazione di Milano è assolutamente carente e per molti
versi fuorviante, perché in realtà non esiste un problema criminale a Milano, diverso da
quello di cinque anni fa. La memoria degli italiani è sempre corta. Quando c'era
Epaminonda a Milano, grande boss criminale, che univa la malavita pugliese con quella
milanese, con quella Svizzera e faceva i traffici e poi aveva rapporti con il potere
politico locale milanese, tutti dicevano che era una cosa straordinaria. Poi se ne sono
dimenticati e adesso invece il potere criminale starebbe nelle mani di 4 slavi e 5
magrebini. Francamente è impensabile che sia così. In Germania dove ci sono 5 volte gli
immigrati che ci sono in Italia, non pensano che quello sia un fenomeno straordinario.
Certo pensano a tamponarlo, a dare delle regole, ma non si pongono il problema di come
fare ad impedirlo. Si cerca di impedire sapendo che è fatale che i flussi ci siano. In
Francia questo problema è stato affrontato venti o venticinque anni fa. L'America è
diventata una società multirazziale alla fine del secolo scorso
Quali pensa che siano in Italia gli impedimenti per questo chiarimento. Ci troviamo
indietro rispetto ad altri paesi?
Siamo indietro da un punto di vista culturale, ma cè anche una strumentalizzazione
del problema in vista di piccoli calcoli politici. La sicurezza e l'insicurezza sono
valori primari in ogni società. Cavalcare la sicurezza o l'insicurezza, porta
immediatamente dei risultati in termini elettorali e di consenso, perché non c'è niente
che tocchi di più le persone, quanto la consapevolezza di poter essere vittima di
violenza indiscriminata.
Quindi la notizia di un tabaccaio ucciso a Milano, non sarebbe andata in prima
pagina 20 anni fa?
La frase del redattore capo era "forte in cronaca", che significa inserirla
bene nella cronaca cittadina ma rimaneva lì. Oggi invece diventa un titolo di apertura di
un giornale. Ci sono alcuni giornali che in questi giorni sono francamente ridicoli,
secondo me, perché qualsiasi episodio diventa l'espressione di un disagio. Ma ci sono
sempre stati. C'è sempre un diverso, qualcuno diverso da noi, qualcuno che ci minaccia, e
scaricare su quel qualcuno che ci minaccia, ci gratifica e ci fa sentire più sicuri.
Si può ipotizzare che l'attenzione dei quotidiani verso la criminalità a Milano, sia
dovuta alla mancanza di notizie rilevanti in questo momento? O forse è un'attenzione che
cerca risultati nelle vendite dei giornali?
I giornali vendono sempre di meno, partiamo da questo presupposto. Ci sarà pure un
motivo, se sempre più gente non li compra. Negli ultimi 6 mesi i quotidiani hanno perso
800.000 copie. Il motivo, secondo me, sta anche nel fatto che il lettore non è stupido.
Si cattura un giorno eccitando i livelli più bassi della sua emotività: una volta si
cattura con il sesso, una volta con la pietà, una volta con il pericolo, però poi il
lettore ragiona: il giorno dopo compra il quotidiano, ma il giorno dopo ancora non lo
compra più. I giornali trovano molto facile cavalcare l'emozionalità, perché questo fa
vendere. Il pericolo è che quando la tecnica dell'uso dell'emozionalità viene usata per
delle condizioni che sono ripetitive nella vita, che sono le tue condizioni di vita,
finisce per condizionare i comportamenti e diventa un circolo vizioso; per cui
l'insicurezza produce emozionalità, l'emozionalità produce interessamento dei
mass-media, i mass-media riproducono l'emozionalità e riproducono l'insicurezza. Un
circolo vizioso, che qualcuno deve interrompere, ma non è pensabile che lo possa
interrompere la collettività, lo deve rompere chi ha la responsabilità della
comunicazione.
E per quanto riguarda l'Unità in maniera specifica? Molti quotidiani ad esempio hanno
parlato di Milano come Chicago, o Milano Far West, titoli molto forti.
Noi non l'abbiamo fatto. Siamo stati il primo giornale che ha posto il problema
della criminalità a Milano e a Napoli. Noi lo abbiamo messo sullo stesso piano e nello
stesso giorno, pensando che il problema della criminalità in quanto tale, non come
surrogato o come derivazione della presenza di extracomunitari, il problema della
sicurezza, della convivenza civile, è un problema che riguarda Milano come Napoli. Noi
l'abbiamo posto come problema generale, perché il problema criminalità è un problema di
tutte le società evolute. Invece lo hanno fatto diventare un problema che riguarda
l'immigrazione, la presenza di estranei rispetto al tessuto sociale, è diventato un'altra
cosa. Noi ci siamo rifiutati
Ma secondo lei la protesta dei commercianti, scesi in piazza esasperati nei
confronti della criminalità e in particolare dell'immigrazione, è stata esagerata?
Bisogna distinguere. A New York, i negozi di una certa strada si sono organizzati
con i vigilantes, altri mettono un sistema d'allarme, altri mettono i video, danno cioè
per scontato che comunque c'è un tasso altissimo di possibilità che ci sia
un'aggressione, perché dove ci sono i soldi c'è anche la criminalità.
In Italia questo concetto è ancora di là da venire, perché finora il problema ha avuto
dimensioni limitate. Ci arriveremo. Ma bisogna mettersi in testa che è così.
Secondo lei su questi temi sarebbe giustificabile la scelta di un black-out
dellinformazione?
Assolutamente no. I giornali per loro natura sono strumenti di conoscenza. Io non
vorrei mai che un paese arrivasse alle conclusioni alle quali si era giunti durante il
periodo fascista, in cui se si verificava un suicidio non si dava perché gettava allarme
sociale. I fenomeni si raccontano e si guardano in faccia e si cerca di capirli. Conoscere
è già stare un bel pezzo avanti rispetto alla soluzione del problema.
E' vero che ci sono alcuni particolari fenomeni verso i quali i mass-media devono avere
un'attenzione particolare. Ad esempio il suicidio dei giovani. Là dove scattano i
processi imitativi, bisogna stare attenti. Bisogna non nasconderli, ma raccontarli dosando
le cose.
Quali sono quegli elementi che dovrebbe avere un giornalista d'oggi?
Elementi che dovrebbe avere un giornalista, non solo di oggi, ma di sempre sono: cuore e
passione, occhi e gambe, cervello.
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*Studenti del corso Teoria e tecnica del giornalismo dell'Universita' Roma 3 |