Kubrick, lorrore che spiazza
Altiero Scicchitano
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Questo articolo è apparso su La Stampa del 5 ottobre 1999.
E sconfortante
vedere come la maggior parte della critica sia stata spiazzata dallultimo capitolo
dellopera di Stanley Kubrick. Così come era stata delusa da Barry Lyndon e da
Shining, per poi riconoscerne, eventualmente e in ritardo, limportanza storica,
anche per Eyes wide shut i suoi comportamenti sono rimasti immutati. E i giudizi negativi,
a volte pesanti, anche stavolta non sono mancati: freddezza, anacronismo, poca emozione,
eccessiva fedeltà a Schnitzler, per non parlare di tutto quel sesso che ci eravamo
immaginati, e alla fine niente, a parte un lampo di natiche. Ma con argomentazioni
pseudo-biografiche che la critica darte ha già defenestrato da un secolo, piene di
moralismi e livori estemporanei.
Eyes wide shut, tratto da
un piccolo romanzo dello scrittore viennese e alladattamento del quale Kubrick aveva
dedicato trentanni, sarebbe quindi lopera di un vecchio rammollito. È invece
lultimo straordinario dispositivo pensato da un autore che ha perseguito sempre e
con paziente ostinazione il medesimo progetto: ricercare in tutti i tempi (dalla
preistoria al futuro prossimo) e in tutti i generi (dal fantastico al film di guerra) quel
tessuto di immagini e suoni atti a farci percepire esteticamente le costanti
dellumanità. Un progetto fastidioso, anzitutto perché applicato a unarte il
cui ruolo sembra consistere nella registrazione-rincorsa di ciò che appare sfuggente
nella realtà, e non nel fissare ciò che in tale realtà rimane immoto nei secoli,
monolitico. Irritante anche e soprattutto perché in Kubrick il pensiero in cerca di
assoluto si scontra con la rivelazione dellintrinseca mediocrità della natura
umana, dei limiti dellindividuo.
Così, la ricerca acquista
alla fine un sapore amaro e ironico: tanto rumore per nulla, tutta questa messinscena solo
per poter tornare tranquillamente a letto con la propria moglie. Ma se si conosce la
passione di Kubrick per lOdissea, che in fondo narrava la stessa storia.. E forse si
comincia a capire la violenza delle reazioni suscitate dal lungo viaggio nel sesso di
William Harford, recitato alla perfezione da Tom Cruise, che attraversa un universo
variegato e paranoico, con lo sguardo attonito di chi vede per la prima volta
lorrore della propria condizione, come il piccolo Danny di Shining strabuzzava gli
occhi di fronte alla visione di un passato-futuro costituito da unimmenso rosso
fiume eracliteo, di fronte alla percezione ineludibile di un tempo di sangue strabordante
dalle feritoie di un rassicurante ascensore.
E lorrore che
sconvolge definitivamente la mente del povero dottore newyorchese è proprio lo stesso:
quello di scoprire, attraverso il moltiplicarsi di fenomeni sessuali, che altro controlla,
determina e dirige la sua esistenza. E che questo altro, questa "materia di cui sono
fatti i sogni" non è che il Tempo, qui incarnato nel perdurare eterno del desiderio
fisico. Da qui la spaventosa marmoreità dellorgia, una "splendida festa di
morti" che, proprio come nel 4 luglio 1921 dei fantasmi in Shining, catapulta
lindividuo in un mondo che non controlla più, di cui non è più padrone, di cui
non è più creatore. Unorgia, quella di Eyes wide shut, conturbante proprio perché
anacronistica, vale a dire fuori tempo, costituita da oggetti (le maschere settecentesche,
le biblioteche di libri antichi), immagini (le posizioni sessuali ridotte a quadri
viventi, da Bosch a Sade) e, infine, da liturgia.
Come lOverlook Hotel
di Shining, la villa dove si celebra il teatro del sesso è lo spazio mentale delle cose
che sono lì da sempre: non, come lindividuo, inscritte nel tempo, ma il Tempo
stesso. Chissà da dove viene, quella villa. Da una Mitteleuropa risorta dalle macerie
etrapiantata a New York? O non piuttosto dal Settecento illuminista, secolo prediletto da
Kubrick, e dove Jacques raccontava al suo padrone di un utopico castello sul frontone del
quale si poteva leggere: "Non appartengo a nessuno e appartengo a tutti.
Ceravate prima dentrarvi, e ci sarete ancora quando ne uscirete"? William
viene inghiottito da uno spettacolo culturale depositato dai secoli, Gorgone che osserva,
spia e infine denuda il suo stesso spettatore, vittima inerme di uno sguardo tirannico e
continuo che lo vede ancor prima di esser visto (la coppia di maschere che si volta verso
di noi, la telecamera allentrata della villa, il minaccioso pedinatore).
Dietro le maschere,
William non saprà mai chi si nasconde, ma tutte le maschere sanno che lui è William
Harford: schiaffo supremo fatto a chi crede che la sua carta da visita apra le porte del
potere e che scopre alla fine di essere noto a tutti come Nessuno, miserabile Ulisse. Il
potere, appunto: concentrato nella scena del biliardo rosso, attorno al quale Ziegler
chiude la partita riprendendo punto per punto le tappe del percorso di William. Non una
scena pesantemente didattica, come hanno scritto molti, ma la rappresentazione della
didattica stessa, della violenza di chi detiene, grazie alla sua posizione gerarchica e
spaziale, la parola pedagogica, il potere del linguaggio Ziegler rivela a William la
messinscena della quale è stato vittima creando a sua volta una nuova messinscena. Dopo
essere stato schiacciato dalla violenza delle immagini, William viene soggiogato dalla
parola autoritaria, come i marines di Full Metal Jacket erano svuotati della propria
volontà dalle urla oscene del sergente Hartman (e anche in quel caso, il pavimento era
rossastro...).
Ed è incredibile come le
parole di Ziegler, nella loro piattezza, confermino quello che tutti avevamo pensato. E
come, nel momento in cui la nostra interpretazione viene, essa ci appaia improvvisamente
sospetta. Ribellione da scolaretti davanti al professore: perché imporre levidenza,
se non per nascondere la verità? Irretito in una ragnatela di maschere, William si trova
nella posizione tantalica di chi vede apparenze. È lossimoro di Eyes wide shut,
figura già presente nel titolo: la realtà dei fantasmi, i fantasmi della realtà. E come
Tantalo, William non passa mai dal desiderio al suo compimento, così come Jack Torrance
non riuscirà mai, in Shining, a eliminare la sua famiglia. La scena della maschera posata
sul letto accanto alla moglie addormentata lo condanna a vagare (per sempre, come il corpo
dellastronauta Frank Poole nel cosmo di 2001?) in una dimensione in cui la realtà e
il sogno, la tensione e latto, il fantasma e il coito formano un unico tessuto
indistinto di spazio e di tempo.
Una trappola dalla quale
non uscirà più fino alla morte ("la vita va avanti, caro Bill, finché un giorno
non si ferma", dice Ziegler, padrone del Tempo). Limmagine di William sconvolto
nel vedere Alice accanto alla propria maschera grida questo: non illuderti mai più che un
atto così semplice come quello di un uomo e una donna sdraiati assieme sia davvero
possibile, se non nella tua immaginazione. Non è mai avvenuto, e non avverrà mai. Altro
da te governa la tua vita e la tua morte, e sempre la governerà. Non sorprende che alla
fine, nel negozio di giocattoli, Alice confessi che la parola "forever" la
terrorizza. Era la promessa fatta dalle gemelle-fantasma a Danny sul suo triciclo:
"Vieni a giocare con noi. Per sempre, per sempre, per sempre...".
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