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Eros e Thanatos con gli occhi della mente



Paola Casella




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Eyes Wide Shut, diretto da Stanley Kubrick, scritto da Stanley Kubrick con Frederic Raphale, interpretato da Tom Cruise, Nicole Kidman, Sidney Pollack, Todd Field, Marie Richardson, Vanessa Shaw, Rade Serbedzija, Leelee Sobiesky

Fa paura parlare di un film di Kubrick, soprattutto quando non si possiede la distanza per valutarlo in tutte le sue sfaccettature. Non e' solo una questione di sovraffollamento di stimoli intellettuali e visivi - anche se Eyes Wide Shut, come tutti i film di Kubrick, e' pieno zeppo di segni e simboli da decodificare - ma proprio un problema spaziotemporale: Kubrick, come tutti i visionari, si spinge piu' lontano dei suoi contemporanei, e arriva prima in luoghi della mente dove il resto di noi lo raggiungera' solo col passare degli anni.

E' successo con quasi tutti i suoi film, sicuramente con tutti quelli che la critica ha bollato come "incompiuti" o "mal riusciti", prima di rendersi conto che erano invece calibrati al millimetro, senza sbavature e senza sprechi, anche in quelle circostanze - soprattutto in quelle "mancanze" - che qualche critico frettoloso ha addirittura definito errori di distrazione, quando di Kubrick tutto si puo' dire, tranne che peccasse di disattenzione. E l'attenzione, o meglio la qualita' dell'attenzione che gli esseri umani dedicano l'uno all'altro, e' il punto cardine di Eyes Wide Shut, tanto da giustificarne persino il titolo: la difficolta' di tenere gli occhi aperti, l'istinto (difensivo) di chiuderli, cioe' la volontà di non vedere, o di vedere senza veramente guardare.

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In nessuna relazione umana come nel rapporto di coppia queste difficolta' appaiono come un rischio quasi inevitabile, reso ancora piu' frequente e insidioso dalla quotidianita', quella che appiattisce l'eros e lo avvicina, nel modo piu' pernicioso possibile, al suo contrario, cioe' alla morte.

Vi ho gia' spiazzato? Kubrick lo fa molto meglio di me, dedicando un intero film a toglierci il tappeto sotto i piedi ogni volta che crediamo di averli ben piazzati a terra, costringendoci a un costante - e faticoso - gioco degli specchi, dei rimandi, delle rifrazioni. Come e' successo in tutti i suoi film precedenti, il regista suona la sua sinfonia attenendosi a uno spartito ben preciso. Questa volta pero' fa a meno della griglia di riferimento del genere cinematografico: Eyes Wide Shut non e' un horror come Shining, o un poliziesco come Rapina a mano armata, non e' un film di guerra ne' di fantascienza; non ha nemmeno il conforto della cornice storica (e usiamo il termine "cornice" a ragion veduta) di Barry Lyndon, il film che, paradossalmente, ricorda Eyes Wide Shut piu' da vicino, e vedremo perche'.

Sembra un po' un giallo e un po' una storia d'amore, in realtà l'ultimo film di Kubrick è un excursus psicanalitico raccontato sulla falsariga di un racconto lungo di Arthur Schnitzler, "Doppio sogno", pubblicato nel 1926 e ambientato nella Vienna di Freud, anch'esso assai simile, per lingua e per struttura, a un viaggio della mente. Kubrick si attiene, nei movimenti e nelle scansioni, allo spartito di Schnitzler come un musicista zelante eseguirebbe un waltzer viennese (e proprio con un waltzer inizia Eyes Wide Shut), con la differenza che il musicista zelante cercherebbe di aggiungerci il suo brio, la sua "spontaneita'", mentre il regista concede ancora piu' spazio all'artificio, alla costruzione narrativa, mettendo a punto una corazza visiva che corrisponde ed esaspera quella letteraria di Schnitzler.

Ecco la trama del racconto di Schnitzler, se di trama si puo' parlare: una coppia sui trent'anni, sposata da nove, comincia a divergere lungo le linee della fantasia sessuale. Lui, Friedolin, e' un medico di successo, lei, Albertine, una casalinga pensante (figura relativamente nuova nell'Europa degli anni Venti). Le divagazioni dei due seguono le forme accettabili dell'epoca: per lei i sogni, per lui le tentazioni (in escalation: la figlia di un paziente, una prostituta, un'orgia organizzata da una setta segreta). Nulla si concretizza, ma il sogno non e' mai solo sogno, e la realta' non e' mai interamente reale. Fondamentale la perfetta simmetria fra i sogni di lei e le tentazioni di lui, e la pari dignita' assegnata a entrambi, profonda presa di coscienza da parte dell'autore austriaco dell'avanzamento della societa' occidentale verso la parita' dei sessi.

Le aggiunte di Kubrick al testo originale sono poche ma significative, e la prima riguarda l'atmosfera, che in Doppio sogno era onirica e in Eyes Wide Shut diventa allucinogena: la differenza e' nella posizione del personaggio della donna, che da completamente passiva (il sogno, manifestazione incontrollata del subconscio) diventa semiattiva (l'alterazione volontaria della coscienza attraverso l'assunzione di alcool e sostanze stupefacenti - lo champagne, lo spinello). E non e' un caso che sia la metà femminile della coppia la più vicina alla soglia dell'autocoscienza, la più determinata a "vedere": lei, e solo lei, porta gli occhiali.

Sono cambiati i nomi dei due protagonisti, e come tutto il resto in Kubrick, neanche questo e' un dettaglio casuale: il romantico (e infantile) Fridolin di Schnitzler e' diventato il prosaico (e ottuso) Bill, un nome da "tonno" se mai ce ne fu uno, e oltretutto il nome del presidente americano in carica, universalmente noto per la sua mancanza di acume nei rapporti con l'altro sesso; la gamine (di derivazione maschile) Albertine e' diventata Alice, l'eroina del romanzo di Lewis Carroll, quella che si addentrava nei meandri del sogno (e della psiche) alla scoperta della propria identita' (anche sessuale).

Il casting dei coniugi Cruise, su cui tanto si e' scritto, si rivela appropriato non tanto per via della loro dinamica di coppia (a dire il vero imperscrutabile, se esiste), quanto per l'adeguatezza dei singoli individui al loro ruolo: smaliziata, acuta, lungimirante Nicole Kidman, di cultura anglosassone ma non americana; granitico, tracotante, e molto americano Tom Cruise (o quantomeno la sua immagine pubblica). Se la recitazione dei due appare estremamente diseguale (bravissima, trasparente, credibile lei; rigido, inespressivo, opaco lui) la ragione e' intrinseca alla spartizione delle sensibilita' fra i due ruoli (e fra i ruoli maschile e femminile).

Che Tom Cruise sappia fare di meglio di cio' che lascia vedere in questo film si capisce in due scene di Eyes Wide Shut: quella della rivelazione da parte della moglie che in passato e' stata attratta da un altro uomo, durante la quale lo sguardo di Cruise, caratteristicamente vacuo, acquista improvvisamente intensita', a indicare il livello di attenzione del marito, improvvisamente altissimo, e quella in cui Bill si reca a casa della prostituta e trova l'amica di lei, con la quale comincia a flirtare. In quella scena Cruise mette un decennio di immagine cinematografica di charmer, con tanto di sorriso a 36 denti, al servizio di una scena in cui il suo personaggio si crede gatto e si scopre topolino, crede di avere in mano la partita e si ritrova sotto scacco.

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Quella scena e' il dado della psicologia di Bill Harford, ed e' anche la prova che Tom Cruise non e' privo di talento, come credevano molti di noi. Per il resto, Kubrick e' abbastanza intelligente da inserire i limiti dell'attore (che esistono) nel corredo biografico dell'ignoramus al centro di Eyes Wide Shut. L'apparente errore di casting e' speculare alla scelta di Ryan O' Neal come protagonista di Barry Lyndon. Leggenda vuole che O' Neal fosse stato scelto da Kubrick perche' una delle sue figlie se ne era innamorata vedendolo in Ma papa' ti manda sola? Conoscendo Kubrick, c'e' da credere che il regista abbia visto invece in O' Neal (e nel suo ruolo nella commedia di Peter Bogdanovich) il perfetto Barry Lyndon, ottuso al punto giusto, vittima delle circostanze, tragicomicamente incapace di alterare il suo destino.

Come Barry Lyndon, anche Bill Harford e' figlio del suo tempo, e la storia (in questo caso quella dell'emancipazione femminile) lo travolge e lo oltrepassa senza che lui si renda conto di ciò che gli sta accadendo. Il dramma vero consiste nel fatto che Bill, come Barry, possiede quell'impulso tutto umano di curiosita' che lo porta a chiedersi cosa stia succedendo, a dispetto dell'impossibilita' di darsi una risposta. Come Barry, Bill mantiene solo apparentemente il controllo sulla realta': il giovane medico ci appare molto orgoglioso di come sa muoversi nel mondo (di solito allungando mazzette, come fa con il gestore del negozio di costumi teatrali o con il tassista), ma si rivela profondamente insicuro della propria identita' (tant'e' vero che continua a produrre documenti di identificazione, anche se non gliene viene fatta richiesta).

Didascalica appare invece l'aggiunta al cast di Schnitzler del personaggio di Victor Ziegler, interpretato dal regista Sidney Pollack (al posto di Harvey Keitel), in un ruolo mefistofelico: la conversazione finale fra Ziegler e Harford, lentissima e noiosa, ha la stessa qualita' ipnotica (e la stessa pesantezza retorica) di certi sermoni del Faust. C'era bisogno di questa figura per spiegare cio' che in Schnitzler rimane aperto alle interpretazioni dei lettori?

Come sempre succede in un film di Kubrick (anzi, come ahimè non succedera' mai piu'), in Eyes Wide Shut l'attenzione al particolare è minuziosa: e poiche' la trama richiede una struttura circolare e un continuo gioco di rimandi, tutti gli strumenti cinematografici a disposizione del regista vengono utilizzati a quello scopo. Si comincia con il waltzer iniziale, che ci fa letteralmente girare la testa, per proseguire con i numerosi scavalcamenti di campo, per cui improvvisamente vediamo la stessa inquadratura dalla parte opposta, come il rovescio di una medaglia.

New York appare come un modellino ricostruito in studio (e non si dica che e' un errore del regista: come ha osservato un critico di Time, non sarebbe costato nulla, ad un perfezionista come Kubrick, aggiungere qualche comparsa in piu' - o qualche saccco di immondizia - per rendere piu' "newyorkesi" le ambientazioni). Le luci si rincorrono come un gioco a staffetta: piccole, a cascata, spesso riflesse, sempre fuorvianti con il loro effetto sfumato, lo stesso delle molte insegne al neon disseminate lungo il film (e degli abiti di paillette, e degli orecchini di brillanti). Le musiche si ripetono, anche ossessivamente, lungo la partitura della storia. I doppi visivi (immagini allo specchio, arcobaleni evocati e poi visti) non si contano.

L'artificio continua con il tema delle maschere: quelle di cartapesta della cerimonia orgiastica cui Bill, sempre piu' disorientato, partecipa quasi suo malgrado, e quelle imbellettate (una per tutte: il viso truccato da geisha della bambina nel negozio di costumi teatrali) delle figure femminili che ruotano attorno a quella maschile di Bill. Maschere antropomorfiche e facce dipinte come mascheroni, che si susseguono rendendo sempre piu' labile il confine fra realta' e finzione.

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E se Alice alterna i propri ruoli - di madre, di moglie, di amante - con uguale partecipazione umana, Bill sostituisce una maschera all'altra, tutte ugualmente rigide e inespressive. Nell'aria la domanda chiave: a chi appartiene la maschera che troviamo ogni mattina sul cuscino accanto al nostro? Di qui la paura atavica che suscita il sorriso enigmatico con il quale Alice - la femmina, quella che intuisce - guarda Bill senza parlare.

Anche le numerose incongruenze sono senz'altro intenzionali, a cominciare dagli sbalzi di registro narrativo, fino a certe macchiette fra il comico e il grottesco che ricordano i giullari delle tragedie scespiriane: il portiere d'albergo gay che flirta smaccatamente con Bill (fedele al libro, Kubrick rende il suo protagonista fisicamente irresistibile - vediamo Cruise riscuotere all'interno di un film cio' che probabilmente riscuote nella realta', cioe' immediato feedback sulle corde del flirting), o i giapponesi del negozio di costumi teatrali.

Anche il casting del personaggio di Carl, il professore di matematica fidanzato di Marion, la figlia di un paziente di Bill, fa pensare: da come ne parla lei, ci si aspetta di vedere un tipo di mezza eta' con la pancetta, e ci si trova davanti una versione ancora piu' gradevole (sicuramente piu' alta) di Tom Cruise.

Tutto questo artificio, questa costruzione geometrica da' agli spettatori un'impressione di freddezza che nulla ha a che vedere con il tema centrale, il rapporto di coppia a fine millennio: quintessenza la scena dell'orgia, rappresentata come una serie di tableau vivant dove vivant sono solo le coppie intente all'atto sessuale, consumato però senza piacere nel modo piu' meccanico possibile, con la stesso movimento ripetitivo e frenetico dei giocattoli a molla.

Il senso dell'umorismo - volontario, accidenti, del tutto volontario - colora la scena (piu' riunione della Loggia del leopardo di Happy Days che sabbath demoniaco), con Frank Sinatra di sottofondo che canta "Strangers in the night" e gli accoliti che utilizzano "Fidelio" come parola d'ordine per andare a scopare come ricci. Uno humour che non risparmia nemmeno la scena piu' feroce del film, cioe' quella del terzo grado di Alice a Bill, con successiva, impietosa confessione della moglie al marito, e che è sì uno stratagemma per alleggerire una trama altrimenti emotivamente insostenibile, ma anche una manifestazione della profonda pietas che Kubrick elargisce a tutti i suoi personaggi: in questo senso il punto di vista e' quello di Dio, un Dio benevolo che guarda a tutte le sue creature con eguale compassione.

Anche perche' sa che i suoi figli affrontano, da soli e in coppia, il continuo confronto fra eros e thanatos, un confronto al quale, se tutto va bene, a malapena sopravvivono. Ne fanno fede le innumerevoli immagini di morte che accompagnano tutte le scene erotiche del film, ma anche i quadri in casa di Alice e Bill, scene di giungla che rammentano quanto sia vicina, e pressante, la componente selvaggia alla quale i due protagonisti cercano disperatamente di sfuggire, rifugiandosi in una fortezza ordinata al punto da diventare inaccessibile anche ai suoi inquilini.

Come il discorso di Ziegler e' una summa del film, cosi' il film di Kubrick e' una summa del Novecento: non solo i dubbi, le paure, la confusione dei ruoli, ma anche la cultura che ci ha dato l'illusione di saper spiegare la vita (vedi la maschera picassiana,   o il riferimento alle architetture senza fine di Quarto potere - per non parlare di certe inquadrature autocitazionistiche, come quella dei due uomini che ascendono le scale contro un fondale di lucine a cascata, o quella della porta girevole dell'ospedale).

Un Novecento che arriva fino ai giorni nostri, con quel cellulare che squilla continuamente, interrompendo ogni singola scena in cui il protagonista rischia di vivere un istante di genuina intimita' (autentico esempio di coitus interruptus). Su tutto domina la mania del secolo di intellettualizzare l'irrazionale, sulla quale il cerebrale Kubrick si prende la sua vendetta personale, chiudendo il suo ultimo film con la parola "fuck" -- la piu' concreta, la piu' animalesca, perciò la piu' vitale possibile.

La lampada magica ha gettato tutte le sue luci (e le sue ombre), creando illusioni ottiche (e ancor piu' mentali) e ingannando tutti i presenti, tanto i protagonisti della vicenda che noi che li guardiamo dibattersi fra sogno e realta'. All'interno di questo castello di carte, c'e' il cuore vero della trama: l'attenzione negli occhi di Bill, il pianto disperato di Alice, la convinzione profonda e darwiniana di Kubrick che quella femminile sia la specie piu' evoluta, piu' in grado di affrontare il prossimo millennio, se non altro per la sua capacita' di guardare alla realta' con gli occhi ben aperti. Viene istintivo un parallelo con Tutto su mia madre di Pedro Almodovar, che arrivava alla stessa conclusione: solo che Almodovar lo faceva passando solo per il cuore e Kubrick, come sempre, passando solo per la testa. E pero', alla fine, dando ragione soprattutto al corpo.

 

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