La questione europea nella
politica italiana
Antonio Varsori
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Quello che segue è il testo dell'intervento presentato da
Antonio Varsori nel corso della manifestazione culturale "L’Italia
repubblicana nella crisi degli anni Settanta".
Sino ad alcuni anni or sono la storiografia sulla costruzione
europea indicava gli anni ’70 come un periodo di sostanziale
stasi, se non di crisi, nel processo di integrazione. A dispetto
delle speranze e delle ambizioni espresse in occasione del vertice
dell’Aja del dicembre 1969 nel corso del decennio successivo l’integrazione
europea si sarebbe arenata sugli scogli rappresentati dal fallimento
del “serpente monetario”, della grave crisi economica seguita
alla guerra dello Yom Kippur, delle incertezze caratterizzanti il
sistema occidentale e determinate dall’apparente decadenza degli
Stati Uniti e dai timori suscitati dall’emergere della “seconda
guerra fredda”. Solo la creazione dello SME nel 1978 e la prima
elezione a suffragio diretto del Parlamento Europeo nel 1979
avrebbero gettato uno spiraglio di luce sulla sorte della Comunità
Europea, aprendo la strada alle realizzazioni degli anni ‘80.
Quanto al ruolo internazionale svolto dall’Italia in questo stesso
periodo, esso sarebbe stato profondamente influenzato dalla grave
crisi interna, che avrebbe posto a repentaglio le fondamenta stesse
dello stato repubblicano: l’Italia sarebbe stata dunque un oggetto
piuttosto che un soggetto delle relazioni internazionali e la
dimensione europea non avrebbe rappresentato un’eccezione in tale
quadro negativo.
In realtà entrambe le visioni debbono essere sottoposte a un vaglio
più attento e con tutta probabilità in qualche misura debbono
essere ripensate. Per ciò che riguarda la costruzione europea è in
primo luogo opportuno abbandonare la visione di un processo
ascendente, il quale seppur fra momenti di interruzione e di crisi,
sia destinato quasi per forza degli eventi a condurre sino alla
realizzazione della federazione europea per passare piuttosto all’analisi
di un contesto - quello delle relazioni tra attori europei -
caratterizzato da eventi, dinamiche economiche e sociali, scelte
politiche che hanno spinto verso una maggiore interdipendenza.
In questa prospettiva gli anni ’70 risultano di notevole
interesse, né possono essere identificati solo come un periodo di
crisi. Essi furono infatti profondamente influenzati dalle reazioni
dei maggiori attori europei occidentali e della Comunità Europea ai
mutamenti radicali manifestatisi nel quadro economico
internazionale: dall’arresto dello sviluppo apparentemente
ininterrotto prodottosi tra la fine degli anni ’50 e gli anni ’60,
alla fine del sistema di Bretton Woods, dall’esplodere della crisi
energetica all’aspirazione da parte dei paesi in via di sviluppo a
giocare un ruolo di maggiore influenza nell’economia mondiale.
Altrettanto importanti furono le reazioni europee a quella serie di
eventi e di processi di natura internazionale che caratterizzarono
il decennio: dall’apice della distensione e del bipolarismo
kissingeriano sottolineati dagli accordi SALT 1, alla crisi
americana, manifestatasi con lo scandalo Watergate e con la caduta
di Saigon, sino all’emergere di una nuova fase di grave tensione
fra est e ovest, che con l’invasione sovietica dell’Afghanistan
del dicembre 1979 avrebbe chiuso il decennio. Né va infine
trascurato come le vicende interne di alcune delle maggiori nazioni
europee fossero caratterizzate da importanti scelte politiche, basti
pensare alla Ostpolitik della Repubblica Federale Tedesca o al “nuovo
ordine economico internazionale” proposto dalla Francia, nonché
dall’azione di personalità di spicco quali Brandt e Schmidt a
Bonn e Pompidou e Giscard d’Estaing a Parigi.

In tale ambito le più recenti tendenze della
storiografia sull’integrazione europea sottolineano dunque come
negli anni ’70 si siano manifestati eventi particolarmente
significativi quali: a) l’avvio di una politica monetaria europea
che individua tra l’altro un diretto filo conduttore tra “serpente”
e SME, b) un rafforzamento delle strutture comunitarie sia con la
presenza di un automatismo nella determinazione delle risorse di
bilancio, sia con la nascita del Consiglio Europeo, c) il passaggio
dalla Comunità “a sei” alla Comunità “a nove”, d) l’aprirsi
della prospettiva di un ulteriore allargamento della Comunità verso
l’Europa meridionale, e) una prima concreta risposta al
manifestarsi del deficit democratico grazie all’elezione diretta
del Parlamento Europeo, f) un progressivo rafforzamento e
ampliamento delle competenze comunitarie con la prima riforma del
Fondo Sociale Europeo e con l’avvio del Fondo Regionale, g) una
radicale trasformazione nella politica di associazione con gli
accordi di Lomè.
Si deve dunque valutare quale posizione abbia assunto l’Italia di
fronte a questi eventi e quali siano stati il suo ruolo e la sua
influenza. Anche grazie alla disponibilità, per quanto parziale, di
alcuni fonti archivistiche è possibile offrire in questa sede un’interpretazione
in parte diversa rispetto a quella comunemente presentata, la quale
propone appunto un’immagine di passività, se non persino di
marginalità dell’Italia rispetto alle più importanti dinamiche
comunitarie di questo periodo. A questo proposito va in primo luogo
sottolineato come l’azione di Roma gli anni ’70 non rappresenti
un quadro omogeneo e come sia possibile tentare una periodizzazione
con l’individuazione di tre fasi: a) 1969-1972/3, b) 1973/1978, c)
1978/1979 .
Nel primo di questi periodi si manifestò da parte italiana una
precisa azione in ambito comunitario, che, seppur non dando forse
gli esiti sperati, smentisce l’immagine di un’Italia attore
minore nella costruzione europea. Quanto al secondo periodo,
soprattutto a causa dell’inasprirsi della crisi interna il ruolo
di Roma nelle vicende comunitarie fu certo minore, ma forte fu l’attenzione
dei maggiori attori europei nei confronti della penisola e questi
anni si caratterizzarono inoltre per un’importante evoluzione nel
panorama politico nazionale nei confronti del processo di
integrazione, in particolare con le prese di posizione maturate in
seno al PCI. Per ciò che concerne infine l’ultimo periodo, le due
importanti scelte in campo europeo - SME ed elezione diretta del
Parlamento Europeo - ebbero conseguenze di primario rilievo, non
solo sulla politica europea dell’Italia, ma anche sugli equilibri
interni del paese.
Alla vigilia del vertice dell’Aja, l’Italia aveva svolto un
ruolo non secondario nel processo di integrazione e per quanto l’incidenza
della strategia italiana non fosse paragonabile all’influenza
esercitata dalla Francia e dalla Repubblica Federale, l’azione
delle autorità di Roma si era caratterizzata sin dall’era
degasperiana per una sostanziale coerenza e per l’individuazione
di alcuni precisi obiettivi. Al di là di un forte impegno a favore
di una sempre più stretta integrazione politica l’Italia non
aveva trascurato, come d’altro canto tutti gli altri partner
comunitari, di conseguire attraverso la costruzione europea alcuni
obiettivi nazionali, soprattutto nell’ambito economico, dalla
ricerca di nuovi mercati per la propria industria, alla opportunità
di risolvere i problemi derivanti dagli squilibri regionali, alla
necessità che gli organismi comunitari tenessero conto delle
peculiarità economiche e sociali le quali rendevano la penisola in
forte misura disomogenea rispetto alle altre nazioni della
Comunità.
Lo stesso appoggio alla costruzione di un’Europa federale, spesso
interpretato come una serie di generiche petizioni di principio,
aveva rappresentato al contrario un utile strumento utilizzato dalle
autorità italiane per imporre il ruolo di un paese relativamente
debole nei rapporti con interlocutori più forti, nonché come mezzo
per la realizzazione di un consenso più ampio sui temi
internazionali di fronte a un’opinione pubblica che si divideva in
due fronti radicalmente contrapposti, un ulteriore elemento che
distingueva la situazione italiana da quella degli altri paesi dell’Europa
occidentale, ove si escluda la Francia.
Come è noto, con l’uscita dalla scena politica nella primavera
del 1969 di de Gaulle e l’arrivo all’Eliseo di Pompidou, evento
che precedette di qualche mese le elezioni tedesche e la conquista
del cancellierato da parte di Brandt, la Francia impresse una svolta
alla propria politica europea. Il neo Presidente della Repubblica
era ora disposto a far cadere il veto all’ingresso della Gran
Bretagna nella Comunità: Londra appariva meno legata agli Stati
Uniti di quanto non lo fosse stata agli inizi degli anni ’60 e
forse l’Inghilterra avrebbe rappresentato un utile contrappeso a
una Repubblica Federale, che grazie alla “distensione” e alla
“Ostpolitik”, stava acquisendo più ampia autonomia sulla scena
internazionale.
Pompidou desiderava inoltre attribuire un carattere permanente al
finanziamento della PAC, che si traduceva in un vantaggio per gli
interessi economici francesi. Né il leader gaullista trascurava l’esigenza
per la Comunità di avviare lo studio di alcune nuove politiche che
rispondessero alle esigenze europee; a questo proposito di
particolare rilievo erano le questioni di natura monetaria di fronte
a un sistema economico internazionale caratterizzato dai gravi
problemi derivanti dalla debolezza del dollaro e dalle
contraddizioni dell’economia degli Stati Uniti che si
ripercuotevano sulle economie delle nazioni europee.
Tali esigenze si tradussero nei tre noti obiettivi individuati all’Aja:
“allargamento”, “completamento”, “approfondimento”; ad
essi si sarebbero legati: l’avvio dei negoziati per l’adesione
di Gran Bretagna, Irlanda, Danimarca e Norvegia alla Comunità, la
trasformazione del bilancio comunitario e l’istituzione dell’IVA,
una cui percentuale avrebbe finanziato le casse di Bruxelles,
nonché i primi studi su una politica monetaria europea. La reazione
italiana a queste prospettive di cambiamento diede origine a una
politica precisa, a dispetto delle difficoltà interne sottolineate
dalla caduta del II governo Rumor nel febbraio del ’70 e del III
gabinetto guidato dall’esponente DC nel luglio; Aldo Moro restava
infatti alla guida della Farnesina, assunta nell’agosto del ’69.
Né si può trascurare come in questo stesso periodo la posizione
dell’Italia all’interno delle istituzioni comunitarie sembrasse
destinata a rafforzarsi: nel luglio del 1970 entrava in carica una
nuova Commissione che vedeva la nomina del leader federalista
Altiero Spinelli a commissario e di Franco Maria Malfatti, un
esponente democristiano vicino a Moro a Presidente di questo organo.
Per ciò che concerneva l’allargamento della Comunità i cui
negoziati si sarebbero aperti ufficialmente nel giugno del ‘70, le
autorità italiane confermavano il sostegno espresso più volte nel
decennio precedente all’ingresso della Gran Bretagna nella CEE;
sebbene non si ignorasse come tale prospettiva avrebbe creato
problemi economici, Roma apprezzava il valore politico del
coinvolgimento di Londra nell’ambito comunitario, sia per i legami
che continuavano a esistere tra il Regno Unito e Washington, sia per
la possibilità che Londra esercitasse un contrappeso nei confronti
dei due maggiori attori comunitari, la Francia e la Germania Ovest.
Se nel complesso, comunque, l’adesione di Londra, nonché degli
altri tre paesi candidati, non sembrava creare problemi particolari
all’Italia, diverso era l’atteggiamento a proposito degli altri
obiettivi individuati al vertice dell’Aja. Nell’aprile del ’70
il Consiglio dei ministri della Comunità approvava le norme
relative al finanziamento del bilancio comunitario, le quali
prevedevano anche una prima armonizzazione dei sistemi fiscali con l’introduzione
dell’Imposta sul Valore Aggiunto; come ricordato la riforma del
bilancio comunitario si legava strettamente alla PAC, che assorbiva
gran parte della risorse della CEE.
Ma la politica agricola comune presentava per l’Italia una serie
di contraddizioni: Roma contribuiva al Fondo Europeo di Orientamento
e Garanzia Agricola (FEOGA) in misura maggiore rispetto a quanto ne
ricavasse, alcune produzioni mediterranee risultavano penalizzate
nei confronti di quelle di nazioni quali la Germania, l’Olanda, la
Francia; né va trascurato come la CEE non fosse riuscita a favorire
in maniera decisiva trasformazioni strutturali dell’agricoltura
italiana, un settore che d’altronde occupava un numero di addetti
ancora superiore rispetto alla media degli altri paesi comunitari.
Non pochi problemi poneva anche l’introduzione di un nuovo sistema
di tassazione, sia per ragioni politiche, sia per le difficoltà
derivanti dalla scarsa efficienza della pubblica amministrazione; vi
era dunque una tendenza da parte delle autorità di Roma a prorogare
l’entrata in vigore dell’IVA oltre i termini indicati dalla
Comunità per l’inizio del 1972 e a legare le scelte comunitarie a
una più ampia riforma del sistema fiscale allo studio in questo
stesso periodo.
Sempre nel corso del 1970, in ottobre, giungeva a compimento il
lavoro del comitato di esperti guidato da Pierre Werner con l’approvazione
dell’omonimo rapporto destinato a favorire forme di integrazione
nel settore monetario. A questo proposito in un documento della
Commissione risalente alla seconda metà del 1970 si sottolineava
come l’atteggiamento italiano all’interno del Comitato Werner si
fosse rivelato nel complesso favorevole all’attuazione di un’unione
economica e monetaria, ma come permanessero reticenze e
preoccupazioni in tre settori: “quello regionale e settoriale,
quello fiscale e quello interessante le relazioni monetarie
intracomunitarie ed internazionali”.
Quanto ai primi due, i timori di Roma nascevano dalla tradizionale
constatazione circa la debolezza e l’inferiorità strutturali del
paese rispetto ai propri partner. Si temeva che l’unione monetaria
potesse favorire una fuga di capitali verso aree della CEE più
avanzate e che in generale essa potesse approfondire gli squilibri
regionali; quanto al legame esistente tra gli obiettivi indicati dal
rapporto Werner e l’introduzione di un sistema fiscale omogeneo,
le autorità italiane si mostravano diffidenti nei confronti di un’eccessiva
armonizzazione nel sistema di tassazione, sia per la presenza del
progetto di riforma in corso di studio, sia per la possibilità che
ciò si traducesse in un incremento dell’imposizione fiscale.
Per ciò che concerneva le relazioni monetarie, sembrava esistere
una differenza di opinioni tra il ministero del Tesoro in principio
favorevole a tassi di cambio tendenzialmente fissi, e la Banca d’Italia,
la quale intendeva mantenere margini di fluttuazione nei tassi di
cambio sino all’instaurazione finale dell’unione economica e
monetaria. A proposito di questo aspetto va ricordato come Guido
Carli si fosse già espresso in tal senso quando tra il 1968 e il
1969 i primi progetti di unione monetaria erano stati avanzati nell’ambito
del Comitato d’Azione per gli Stati Uniti d’Europa di Jean
Monnet e del quale lo stesso Carli faceva parte, né mancavano dubbi
sulla possibilità che l’Europa potesse costituire un’area
monetaria autonoma rispetto al dollaro.
Le difficoltà evidenti nei rapporti tra Bruxelles e l’Italia
derivavano anche da problemi concernenti l’arretratezza e l’inadeguatezza
del sistema amministrativo e dalle strutture giuridiche del paese.
Ciò era per esempio denunciato in maniera aperta in un documento
rinvenibile nelle carte di Emile Noel, ove si sottolineava “il
divorzio esistente tra la ricettività dell’Italia per la
costruzione dell’Europa unita, tanto sul piano politico che su
quello economico, e le difficoltà dell’Italia a seguire il
movimento istituzionale nei suoi aspetti quotidiani e spiccioli”.
Si faceva inoltre riferimento a resistenze nell’applicazione delle
norme comunitarie che si situavano a livello amministrativo, allo
scarso contributo offerto dagli esperti dei vari dicasteri italiani
alle attività delle commissioni operanti a Bruxelles, alla tendenza
da parte dei giuristi italiani a non considerare preminente il
diritto comunitario rispetto a quello nazionale, alla lentezza nell’operato
del parlamento e della pubblica amministrazione. Nello stesso
documento si notava anche come la posizione italiana, soprattutto in
sede di decisioni comunitarie, nascesse dalla coscienza della
propria debolezza, ad esempio nel settore della PAC, che spingeva le
autorità di Roma ad atteggiamenti apparentemente contraddittori.
Questi problemi erano affrontati ad esempio nel novembre del ’70
in occasione di una visita di Malfatti a Roma, nel corso della quale
egli incontrava il ministro degli Esteri Moro e il ministro del
Tesoro Ferrari Aggradi. Nei colloqui i leader politici italiani
ribadivano l’impegno italiano nei confronti del costruzione
europea, in particolare dal punto di vista politico, ma non
mancavano di ricordare le difficoltà oggettive che l’Italia
avrebbe dovuto affrontare, in particolare il legame tra l’introduzione
dell’IVA e la messa in opera di una ampia riforma del sistema
fiscale. Moro inoltre introduceva alcune importanti considerazioni:
da un lato egli indicava l’opportunità di instaurare rapporti
più stretti tra la CEE e l’America Latina, un aspetto
tradizionale della politica estera italiana, dall’altro egli
sollevava la questione del Mezzogiorno, affermando che la Comunità
avrebbe dovuto “investirsi del problema stesso”.
Le scelte compiute all’Aja e soprattutto la loro possibile
applicazione erano dunque fonte di timori per le autorità italiane,
alle quali la svolta impressa dai partner maggiori nel processo di
integrazione sembrava destinata a provocare seri problemi, in
particolare dal punto di vista economico. Questa era una delle
ragioni che spingevano le autorità di Roma a sottolineare l’esigenza
di una più stretta integrazione politica, una strada che altri
leader italiani avevano imboccato in momenti precedenti in cui era
stato difficile conciliare la scelta del paese a favore dell’Europa
e gli interessi economici e sociali nel breve e medio periodo.
La politica italiana non si esaurì però nell’ambito di una
riproposizione della necessità che si procedesse verso una maggiore
integrazione in senso federalista; pur accettando, perché sarebbe
stato difficile agire diversamente, le ipotesi concernenti la
riforma del bilancio, l’introduzione dell’IVA e i primi progetti
di unione monetaria, le autorità italiane tentarono di conseguire
alcuni vantaggi che bilanciassero in termini concreti i presunti
sacrifici richiesti. Il governo italiano si impegnò dunque
affinché la Comunità avviasse un’azione concreta nell’ambito
sociale e regionale; tale strategia, se avesse avuto successo,
avrebbe risposto a uno dei compiti che l’Italia aveva assegnato
alla costruzione europea negli anni del “rilancio dell’Europa”:
un apporto decisivo alla soluzione della questione del Mezzogiorno.
Né va trascurato come questa impostazione avrebbe offerto vantaggi
sul piano politico interno lanciando un messaggio positivo alle
forze sindacali che, dopo l’”autunno caldo” stavano
rafforzando il loro ruolo nel paese. L’Italia sembrò dunque
svolgere un ruolo centrale nel promuovere la prima conferenza
tripartita, che avrebbe visti riuniti a Lussemburgo il 27 e il 28
aprile 1970 i ministri del Lavoro dei Sei, rappresentanti della
Commissione e delegati delle maggiori organizzazioni sindacali e
imprenditoriali (UNICE, COPA, CEEP, CESL, CMT, CIC, ecc.).
Alla guida della delegazione italiana vi era il ministro del Lavoro
Donat Cattin, mentre per ciò che riguarda la Commissione, essa era
capeggiata dal commissario italiano Lionello Levi Sandri, il quale
già negli anni precedenti si era impegnato per la promozione di una
efficace politica sociale europea, in particolare nell’ambito
della mobilità della mano d’opera. Nel corso dei lavori Donat
Cattin giocò un ruolo di primo piano e sostenne con forza che dalla
conferenza avrebbe dovuto nascere una vera e propria azione a favore
delle politiche per l’occupazione. L’azione italiana avrebbe
così contribuito alla riforma del Fondo Sociale Europeo e alla
creazione di un Comitato permanente sull’occupazione
Essa non si esaurì d’altronde nel corso della conferenza
tripartita, ma venne perseguita nei mesi successivi con la
presentazione nel giugno del 1971 di un importante memorandum dal
titolo “La politica dell’impiego nella Comunità” che sarebbe
stato all’origine di un significativo dibattito. Il governo di
Roma legava strettamente l’avvio di una politica sociale a una
serie di scelte da parte comunitaria non solo nell’ambito delle
questioni relative all’occupazione, ma anche nel contesto della
soluzione dei problemi derivanti dagli squilibri regionali, in
particolare quello riguardante il Mezzogiorno che d’altronde si
intrecciavano strettamente con tali questioni.
L’Italia chiedeva dunque che la Comunità si impegnasse in una
vera e propria politica regionale, come d’altro canto previsto dai
trattati di Roma e che peraltro non aveva mai avuto concreta
applicazione. Ma se la Commissione sembrava mostrare attenzione
verso le richieste di Roma, diverso era l’atteggiamento degli
altri paesi, i quali non apparivano disponibili ad accogliere,
almeno in tempi brevi, la prospettiva di un forte impegno ad opera
della CEE nel contesto della politica sociale e in quella regionale.

Il primo programma di azione sociale europea
sarebbe stato elaborato dalla Commissione solo nel corso del 1973,
quando però la posizione italiana all’interno della Comunità
avrebbe subito un forte indebolimento e la politica regionale
avrebbe avuto avvio solo dopo che l’ingresso della Gran Bretagna
nella CEE avrebbe fatto divenire tale questione un problema
coinvolgente altre nazioni oltre all’Italia.
Il ridimensionamento del ruolo dell’Italia, avvenuto tra il 1972 e
il 1973 aveva numerose ragioni; in primo luogo va notato che, per
ciò che riguarda le istituzioni, nel 1972 Franco Maria Malfatti
dava le dimissioni da Presidente della Commissione, preferendo
presentarsi quale candidato alle elezioni anticipate previste per il
maggio di quell’anno piuttosto che mantenere la guida dell’organismo
comunitario, un’apparente dimostrazione dello scarso interesse del
mondo politico italiano verso le questioni comunitarie. Al di là di
questo episodio, comunque significativo, erano l’evoluzione delle
vicende interne e dell’economia a determinare l’involuzione
nella posizione italiana.
Alla fine di giugno si costituiva un governo tripartito (DC-PSDI-PLI)
guidato da Giulio Andreotti che doveva fronteggiare una crescente
opposizione da parte delle sinistre, una situazione sociale in
fermento (basti ricordare nel marzo la morte di Giangiacomo
Feltrinelli e nel maggio l’uccisione del commissario Luigi
Calabresi) e una difficile congiuntura economica. Nel marzo l’Italia
era entrata comunque a far parte del “serpente monetario”. Nei
mesi successivi però il governo Andreotti esercitò pressioni
affinché venisse istituito un Fondo Europeo di Compensazione
Monetaria e la Comunità procedesse alla effettiva attuazione di una
politica sociale, entrambe le scelte avrebbero favorito una nazione
in difficoltà come l’Italia.
Le reazioni in larga misura negative dei partner comunitari alle
richieste di Roma provocarono una crescente sfiducia in settori
significativi del mondo politico ed economico italiano. Tra il 1972
e il 1973 inoltre la situazione economica interna si aggravava e nei
primi mesi dell’anno il governo di Roma decideva di far uscire la
lira dal “serpente monetario”.. Tale decisione rendeva ancor
più difficili i rapporti tra Bruxelles e Roma e alcuni fra i
maggiori partner comunitari ritenevano che l’Italia fosse divenuto
un paese inaffidabile, incapace di fronteggiare gli impegni assunti.
Questa valutazione era confermata nei mesi successivi dall’ulteriore
aggravamento della crisi italiana, a causa dello “shock
petrolifero” seguito alla guerra del Kippur (nel 1974 ad esempio l’inflazione
avrebbe raggiunto il 19,4 %).
Sebbene le vicissitudini legate alla questione energetica
riguardassero tutto il mondo occidentale, la posizione dell’Italia
appariva particolarmente debole, se non irrimediabilmente
compromessa, perché ai problemi economici si sommava l’acuirsi
della crisi politica e sociale: tra il 1973 e il 1974 si succedevano
ben quattro governi, l’opinione pubblica appariva disorientata
dall’emergere di scandali che coinvolgevano i partiti di governo,
il terrorismo si manifestava in maniera sempre più violenta. In
altri termini vi era la netta sensazione, non solo a Roma, ma anche
nelle principali capitali occidentali, che il sistema politico su
cui si era basata l’Italia sino a quel momento fosse giunto alla
sua fase conclusiva.
Né va trascurato come la crisi energetica, l’affare Watergate e l’apparente
decadenza del ruolo internazionale degli Stati Uniti conducessero
anche uomini politici dello schieramento governativo a nutrire dubbi
sulla sorte del sistema occidentale e se ad esempio in Moro questo
si traduceva in una crescente sfiducia nei confronti di Washington,
era quasi ovvio che a maggior ragione tale sfiducia, ma forse
sarebbe meglio parlare di disinteresse, si estendesse alla Comunità
e al processo di integrazione, il quale d’altro canto sembrava
trovarsi in una fase di stasi, dovuta da un lato alla tendenza da
parte delle nazioni europee occidentali a individuare soluzioni
nazionali alla crisi dell’economia occidentale, dall’altra al
tentativo di alcuni maggiori paesi - Stati Uniti, Gran Bretagna,
Francia e Repubblica Federale - di gestire la congiuntura economica
negativa attraverso una collaborazione informale e riservata, era
infatti del 1975 l’incontro di Rambouillet che avrebbe dato
origine al gruppo del G-7 .
Se in questi anni dunque anche nel contesto europeo l’Italia
appariva più un oggetto che un soggetto di politica estera, nella
penisola il processo di integrazione diveniva soprattutto un aspetto
di politica interna contribuendo a mutare alcuni consolidati
equilibri. Se sino agli inizi degli anni ’60 la valutazione del
PCI sulla costruzione europea non si era discostata in maniera
significativa dalle interpretazioni negative date dal movimento
comunista internazionale e dall’Unione Sovietica, diverso era
stato l’atteggiamento della CGIL, che si erano dovuti confrontare
con la realtà economica della CEE; la tendenza all’unità
sindacale, manifestatasi dopo il 1969 aveva contribuito ad
avvicinare ulteriormente i leader comunisti all’interno del
sindacato alla realtà del sindacalismo internazionale europeo.
Va notato come la crisi economica che condizionava l’Europa
occidentale conducesse in generale a un rafforzamento del ruolo
svolto dalle organizzazioni dei lavoratori e al tentativo di
organizzarsi in maniera più efficace sul piano internazionale ed
europeo, favorendo quindi nel 1972 la nascita della Confederazione
Europea dei Sindacati (CES). Nei mesi successivi, con il sostegno
della CISL e della UIL, la CGIL si avvicinava progressivamente alla
CES e, a dispetto di forti contrasti, nel luglio del 1974 la CGIL
entrava a far parte della Confederazione Europea dei Sindacati,
inserendosi nel solco della tradizione sindacale europea
occidentale.
A questa evoluzione faceva da contrappunto una trasformazione nelle
posizioni del PCI nei riguardi della Comunità Europea. Si
accantonava la tradizionale visione sovietica, secondo cui l’integrazione
altro non era che uno strumento della politica estera americana, e
pur continuando a criticare gli aspetti della costruzione europea
che, a giudizio di Botteghe Oscure, andavano contro gli interessi
delle classi sociali più deboli, si riteneva impossibile ignorare
una realtà come quella comunitaria, che rappresentava un elemento
fondamentale dell’economia europea, e più in generale
occidentale.
Si riteneva anzi opportuno che il PCI si inserisse nelle dinamiche
comunitarie perché la CEE rispondesse alle esigenze di quei gruppi
sociali di cui il Partito Comunista, nonché le altre forze di
sinistra europee - non solo i partiti comunisti - erano gli
interpreti. Portavoce di una forte presenza del PCI nel processo di
integrazione era in particolare Giorgio Amendola, che, membro del
Parlamento Europeo dal 1969, espresse questa tesi in occasione del
Congresso del PCI del 1972, sottolineando inoltre l’opportunità
che l’Italia non si allontanasse dall’Europa comunitaria.
Questa tendenza trovò conferma negli anni immediatamente successivi
e ad essa fece da contrappunto l’evoluzione nelle posizioni di
Altiero Spinelli, il quale nel 1974, sostenendo nella sua qualità
do commissario europeo l’ipotesi di un prestito comunitario a un’Italia
sempre più in difficoltà, legò tale prospettiva all’avvio da
parte del governo di Roma di una seria politica di risanamento
economico. Le tesi di Spinelli trovarono una reazione negativa negli
ambienti politici del IV governo Rumor, ma vennero accolte
positivamente da Amendola. Si riannodava così un filo interrotto
tra il leader europeista e il PCI e che condusse Spinelli nel 1976,
una volta abbandonata la carica di Commissario, a candidarsi alle
elezioni politiche di quell’anno come indipendente nelle liste
comuniste.
In questo stesso periodo, come è stato spesso sottolineato, sotto
la guida di Berlinguer e dopo il lancio del progetto di “compromesso
storico”, il PCI compiva in campo internazionale una serie di
passi destinati, nelle speranze della leadership comunista, a
legittimare il Partito come forza di governo. In tale ambito sono
note le prese di posizione del segretario del PCI sulla presenza
dell’Italia nella NATO, nonché le “avances” compiute nei
confronti di alcuni settori dell’amministrazione americana. A
dispetto di ciò, restavano le ambiguità delle strette relazioni,
pur fra divergenze e contrasti, con l’Unione Sovietica. La “scelta
europea” risultò quindi forse più significativa per l’evoluzione
del PCI e per l’instaurazione di legami con quelle forze politiche
che avrebbero con il trascorrere degli anni condotto il Partito
Comunista a essere percepito nel “vecchio continente” come un
elemento della sinistra europea occidentale piuttosto che come un
membro del movimento comunista internazionale.
Un passo importante in questa direzione sarebbe stato compiuto dal
PCI con la presentazione di Spinelli quale candidato di spicco alle
prime elezioni politiche europee del giugno 1979. La convinzione che
solo il coinvolgimento del PCI in responsabilità di governo fosse
la soluzione alle difficoltà politiche, economiche e sociali che
travagliavano la nazione, era nutrita d’altronde da uno dei leader
politici italiani di spicco e coerente sostenitore della costruzione
europea, Ugo La Malfa. Quest’ultimo appariva intorno alla metà
degli anni ’70 parzialmente deluso dell’andamento delle vicende
comunitarie, soprattutto di alcune decisioni, quale la creazione del
Consiglio Europeo, che sembravano rafforzare il momento
intergovernativo rispetto a quello sovrannazionale, ma egli restava
convinto, per ciò che riguardava la sorte dell’Italia, che lo “spirito
comunitario” restasse “l’unica prospettiva da cui l’Italia
può sperare luce”.
Per il leader repubblicano la presenza italiana nella Comunità era
quindi uno degli strumenti grazie al quale la nazione avrebbe potuto
superare la crisi in corso; egli inoltre riteneva che solo una
politica economica di austerità avrebbe permesso all’economia
italiana quel risanamento che egli considerava necessario, ma una
“politica dei redditi” poteva essere realizzata solo con il
sostegno del PCI e dei sindacati: l’Europa e la necessità per l’Italia
di restare agganciata alla Comunità, anche attraverso precise
scelte di politica economica, era un terreno su cui La Malfa sperava
di avviare un dialogo proficuo con il PCI.
Se dunque una parte della classe politica italiana, troppo presa
dalla crisi interna, parve prestare minore attenzione all’Europa,
l’evoluzione all’interno del PCI, l’atteggiamento di La Malfa,
ma anche di alcuni altri esponenti politici, soprattutto nei partiti
laici, sottolineavano come nel paese vi fossero personalità e forze
politiche le quali consideravano i legami tra l’Italia e l’Europa,
soprattutto per i riflessi che questi potevano avere sulla soluzione
dei problemi economici del paese, quali elementi preziosi per il
superamento della più ampia crisi che scuoteva la nazione.
Una conferma della sostanziale validità di queste valutazioni è
offerta dagli ultimi episodi presi in considerazione nella presente
relazione: l’adesione italiana allo SME e le prime elezioni a
suffragio diretto del Parlamento Europeo. A dispetto dei tentativi
compiuti dai maggiori paesi industrializzati, il problema dell’instabilità
del sistema monetario internazionale non era stato risolto e
soprattutto gli Stati Uniti apparivano ancora incapaci di offrire
una valida soluzione che preservasse le monete europee da gravi
pericoli di svalutazione e di attacchi speculativi.
In particolare l’amministrazione americana esortava la Repubblica
Federale Tedesca ad assumere il ruolo di “locomotiva” della
ripresa europea, ma il governo di Bonn, guidato dal
socialdemocratico Schmidt, il quale anche per altre ragioni nutriva
scarsa fiducia nella presidenza Carter, rifiutava questa ipotesi,
che, a giudizio tedesco, avrebbe favorito l’inflazione e spinto a
una rivalutazione del marco. Tra il 1977 e il 1978 emerse dunque
nella Repubblica Federale il progetto di rilanciare una forma di
stretta cooperazione europea nell’ambito monetario. Questo piano
trovò il sostegno del Presidente della Repubblica francese Valery
Giscard d’Estaing.
Tra la primavera e l’estate del 1978 prese dunque corpo, tra i
vertici europei di Copenhagen e di Brema, il progetto per la nascita
di un sistema monetario europeo (SME), il quale avrebbe in parte
ripreso le linee già espresse in occasione del “serpente”, ma
con una maggiore flessibilità nei rapporti di cambio tra le monete;
in compenso lo SME avrebbe goduto di un più forte sostegno delle
banche centrali, in particolare della Bundesbank, avrebbe visto la
formalizzazione dell’ECU (“European Currency Unit”) e,
soprattutto, si sarebbe fondato sulla precisa volontà tedesca,
attraverso un impegno concreto sul piano economico, di favorire l’efficace
funzionamento del sistema.
Da parte loro però i membri della Comunità avrebbero dovuto
impegnarsi in politiche economiche miranti a sconfiggere l’inflazione
e risanare i bilanci pubblici, adeguandosi così alle concezione
delle autorità della Banca centrale tedesca. L’istituzione dello
SME rappresentava una svolta nelle vicende comunitarie, ma esso si
situava in uno dei momenti più difficili e drammatici della storia
italiana, nel marzo del 1978 infatti il Presidente della DC Aldo
Moro era stato rapito dalle Brigate Rosse alla vigilia della
formazione di quello che sarebbe stato definito il governo di “unità
nazionale”, guidato da Giulio Andreotti e che avrebbe goduto del
sostegno del PCI. L’Italia non era stata informata del progetto
nelle sue fasi preparatorie, per quanto alcuni degli elementi dello
SME fossero già presenti in uno studio elaborato da alcuni
funzionari della Banca d’Italia.
L’esclusione di Roma dalla prima elaborazione del piano irritò le
autorità italiane, ma il Presidente del Consiglio parve ritenere
importante per il paese, anche in considerazione della difficile
situazione politica - il corpo di Aldo Moro era stato ritrovato nel
maggio in Via Caetani e le BR apparivano più forti che mai -, che l’Italia
non restasse isolata rispetto ai maggiori partner europei. La
questione della posizione italiana nei riguardi dello SME venne
affrontata - come ha sottolineato Peter Ludlow - da un ristretto
gruppo formato dal ministro del Tesoro Pandoli, dal governatore
della Banca d’Italia Baffi, dal direttore generale Ciampi, da
Rainer Masera e da Renato Ruggiero.

La scelta italiana partiva dal presupposto che
Roma dovesse partecipare allo SME, ma non si poteva trascurare la
debolezza dell’economia nazionale e vennero quindi individuate
alcune condizioni alle quali l’Italia avrebbe potuto inserirsi nel
Sistema Monetario Europeo; è anche probabile che le evidenti
costrizioni che la partecipazione allo SME avrebbe richiesto fossero
utili al fine di confermare le intenzioni di procedere al
risanamento dell’economia italiana anche attraverso provvedimenti
impopolari. Il governo Andreotti cercò inoltre di coordinare la
propria posizione con quella della Gran Bretagna, ma senza successo.
In effetti l’Italia finì con l’accettare la prospettiva di
adesione allo SME, pur tra dubbi e avanzando una serie di
condizioni.
Nella seconda metà dell’anno la questione divenne elemento di
pubblico dibattito e a questo punto si manifestarono forti
opposizioni, per quanto provenienti da attori diversi e motivate da
ragioni differenti, in particolare il PCI si mostrò restio ad
avallare una scelta, che a suo giudizio si legava al lancio di
politiche economiche che avrebbero colpito in larga misura le classi
sociali più deboli. Anche da parte della Banca d’Italia si
manifestavano perplessità nei riguardi dello SME perché si temeva
che esso avrebbe provocato problemi e sottratto all’istituto di
Via Nazionale una parte della propria libertà d’azione.
La Germania sembrava inoltre puntare su una interpretazione rigida
dello SME, che avrebbe creato difficoltà alle valute deboli; ciò
nonostante alfine l’atteggiamento di Bonn parve ammorbidirsi e l’Italia
ottenne la concessione che la lira avrebbe goduto di una banda di
oscillazione più ampia. Ma per il Presidente del Consiglio la
questione restava spinosa perché l’opposizione interna non
accennava diminuire e il governo si reggeva anche grazie al sostegno
del PCI, sul quale contava per fronteggiare efficacemente l’emergenza
rappresentata dal terrorismo, né egli poteva trascurare come
esitazioni intorno all’adesione allo SME permanessero anche in
altre forze politiche dell’arco costituzionale.
Al Consiglio europeo di Bruxelles dei primi di dicembre del 1978 l’Italia
chiese dunque una “pausa di riflessione”. In realtà nel volgere
di pochi giorni la posizione del governo Andreotti mutò nuovamente
e l’Italia decideva di prendere parte allo SME. Il voto tenutosi
alla Camera alla metà di dicembre vide passare l’adesione
italiana al Sistema Monetario Europeo con il voto favorevole della
DC, del PSDI, del PLI, del PRI, del MSI, mentre il PCI e Democrazia
Proletaria votarono contro e il PSI si astenne.
A tutt’oggi è difficile individuare con esattezza le ragioni di
questo mutamento: è innegabile comunque che sul piano interno un
ruolo importante lo svolse il Partito Repubblicano e in particolare
Ugo La Malfa, che pose la scelta a favore dello SME come una sorta
di “aut aut” per la partecipazione dei repubblicani al governo,
né può essere trascurato come attorno a La Malfa e al PRI si
raccogliessero personalità e opinioni che attribuivano alla
coerenza rispetto alla “scelta europea” dell’Italia un rilievo
particolare. Grazie all’opzione a favore dello SME, a dispetto del
parere contrario espresso dal PCI, Roma sottolineava implicitamente
la volontà di essere pienamente parte del sistema occidentale e,
ove si tenga conto della rapida crisi della “grande distensione”,
indirettamente poneva una delle premesse per la nuova progressiva
emarginazione del PCI.
Per quanto possa apparire paradossale, le elezioni europee del 1979
furono un episodio fondamentale proprio per il Partito Comunista.
Dopo la rottura della “solidarietà nazionale” e la formazione
del I governo Cossiga, anche a causa del rapido inasprirsi della
situazione internazionale, il PCI ritornava in una posizione di
isolamento, nella quale sarebbe rimasto per tutti gli anni ’80,
non solo per la nascita della formula politica del “pentapartito”,
ma anche per le perduranti ambiguità circa l’interpretazione del
rinnovato scontro tra Est e Ovest. Le consultazioni europee del
1979, con la elezione di Spinelli e il conseguente atteggiamento
assunto dai comunisti all’assemblea di Strasburgo, avrebbero
finito con il rappresentare l’unico importante e perdurante legame
del PCI con l’Occidente, una sorta di strada obbligata verso una
legittimazione piena nel contesto internazionale quale forza
appartenente alla tradizione della sinistra europea occidentale.
E’ a questo punto possibile trarre alcune considerazioni
conclusive da questa sintetica analisi. Il ruolo svolto dall’Italia
nelle vicende comunitarie nel corso degli anni ’70 prova in primo
luogo come l’atteggiamento delle autorità italiane nei confronti
della costruzione europea risultasse coerente rispetto alla scelta
compiuta a partire dalla fine degli anni ’40. La partecipazione
del paese al processo di integrazione si basava, non solo su
convinzioni di carattere ideale e su una tradizione europeista che
per alcune forze politiche risaliva alla resistenza, ma era motivata
dalla convinzione che grazie a questa scelta l’Italia potesse
conseguire, soprattutto nel medio e lungo periodo, il
soddisfacimento di precisi interessi.
Dal punto di vista politico, soprattutto in momenti di crisi e di
debolezza, come ad esempio negli anni ’70, ma come era accaduto in
precedenza e come sarebbe accaduto in seguito, la presenza della
nazione nella CEE - e in altri organismi europei - legittimava l’Italia
quale elemento non eliminabile del sistema occidentale e consentiva
alla penisola di mantenere un legame con l’”inner circle” dell’Occidente;
l’Europa comunitaria era dunque, insieme al rapporto con gli Stati
Uniti, che trovava il suo simbolo nella partecipazione italiana alla
NATO, uno dei due pilastri su cui si fondava la posizione
internazionale dell’Italia e se nel corso degli anni ’70 il
pilastro “atlantico” poteva mostrare alcune crepe, era evidente
che si sottolineassero l’esistenza e la validità di quello
europeo.
Per ciò che riguardava gli aspetti economici, che restavano i più
importanti nella costruzione europea, sin dal lancio del Piano
Schuman le autorità italiane avevano temuto che il processo di
integrazione nel breve periodo potesse causare seri problemi all’economia
italiana, a causa della sua debolezza e della diversità rispetto
alle altre nazioni della Comunità, senza poter trascurare le ovvie
conseguenze che tali difficoltà avrebbero avuto sul piano sociale e
politico. Queste preoccupazioni si manifestarono a più riprese
negli anni ’70, acuite dalla grave crisi economica, spingendo in
alcuni momenti l’Italia a dubitare della validità della scelta
europea. In realtà finì sempre con il prevalere, anche grazie alle
prese di posizione di alcune personalità, il convincimento che nel
medio/lungo periodo il coinvolgimento italiano nella CEE fosse utile
- forse vitale -per le sorti dell’economia italiana.
Agli inizi degli anni ’70, riprendendo un atteggiamento che si era
manifestato nei decenni precedenti, nella convinzione che l’integrazione
avrebbe contribuito in maniera determinante a risolvere alcuni
problemi strutturali del paese, in particolare quello del
Mezzogiorno, l’avvio di una politica regionale e la riforma della
politica sociale apparvero la prosecuzione delle pressioni
esercitate negli anni ’50 dall’Italia affinché dapprima la
CECA, quindi la CEE, attraverso il concetto di “mobilità della
mano d’opera” si facessero carico del problema migratorio. Alla
fine degli anni ’70 l’adesione allo SME sottolineava la volontà
dell’Italia di restare agganciata al cuore del sistema economico
occidentale, accettandone, pur fra dubbi, la trasformazione, non
solo dal punto di vista delle politiche monetarie, ma anche, seppure
in prospettiva, dell’accettazione di politiche economiche interne
ispirate a criteri di austerità e lotta all’inflazione che
fossero una rottura con il passato.
Un altro elemento di continuità rinvenibile nelle vicende di questo
decennio fu il ruolo svolto dalla costruzione europea nel contesto
politico interno quale fattore mirante a creare un grado minimo di
consenso rispetto a un quadro di aspri contrasti e di forte
polarizzazione ideologica. Se dunque negli anni ’40 e ’50 la
scelta europea era stata utile alle forze moderate al fine di
individuare un obiettivo di politica estera che suscitasse minori
contrasti rispetto alla “scelta atlantica” e se tra gli anni ’50
e gli anni ’60 aveva rappresentato un terreno di integrazione per
il PSI rispetto ai partiti di centro, durante il periodo preso in
esame l’adesione agli ideali e agli obiettivi comunitari fu un
aspetto non secondario della politica del PCI e quindi del suo
processo di “occidentalizzazione”, anzi, ne fu forse il lato
più significativo perché più duraturo e destinato a rafforzarsi,
a dispetto delle posizioni prese sullo SME, nel corso degli anni ’80,
soprattutto attraverso l’esperienza acquisita da una serie di
esponenti comunisti in sede comunitaria, in particolare all’interno
del Parlamento, ma anche nei vari attori europei in corso di
strutturazione, quale ad esempio la Confederazione Europea dei
Sindacati.
Va infine notato come se dunque la politica europea dell’Italia
nel corso degli anni ’70 fosse in parte coerente e rispondesse,
come per gli altri paesi della CEE, all’opportunità di
conciliare, attraverso l’interdipendenza e una parziale
integrazione, obiettivi nazionali e scelte internazionali, la
questione europea sottolineava alcune peculiarità della nazione
rispetto ai propri partner comunitari. L’Italia era
strutturalmente più debole rispetto agli altri paesi della CEE, non
solo sul piano economico e per la perdurante questione del
Mezzogiorno, ma anche, e in maniera rilevante, per le debolezze
della propria burocrazia, per la lentezza e la contraddittorietà
del processo decisionale (dal governo al parlamento, agli enti
locali) e certo la “crisi italiana” degli anni ’70 non avrebbe
reso meno rilevanti queste contraddizioni.
A ciò si aggiungeva un sistema politico sostanzialmente bloccato a
causa del cosiddetto “fattore K”, un elemento inesistente nelle
altre nazioni comunitarie, persino in Francia, dove proprio negli
anni ’70 la trasformazione della SFIO in PS avrebbe posto le
premesse per la riduzione nel corso del decennio successivo del PCF
a forza politica minore. L’Europa sarebbe dunque apparsa in questi
anni come una “scorciatoia” che avrebbe permesso a una parte
della classe politica di individuare quel “vincolo esterno”,
necessario per risolvere problemi interni in caso diverso non
affrontabili e l’adesione allo SME ne era una prova. Restava però
irrisolta la questione del legame esistente tra l’accettazione di
un più elevato grado di interdipendenza - e in alcuni casi di
integrazione - e la necessità di tradurre tale evoluzione sul piano
interno in norme e comportamenti coerenti ed efficaci, un nodo,
questo, che neppure nel corso degli anni ’80 la classe politica
italiana sarebbe stata in grado di sciogliere.
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