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Raffaele D’Agata



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Quello che segue è il testo dell'intervento presentato da Raffaele D'Agata nel corso della manifestazione culturale "L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta".

Premessa

Dalla seconda metà degli anni sessanta alla fine degli anni settanta, gran parte degli europei dell’Ovest e dell’Est percepirono in svariati modi e gradi (mediamente, e non senza significative differenze ed eccezioni) un ammorbidimento della rigida contrapposizione politico-territoriale e politico-morale che aveva largamente determinato la loro esistenza dopo la fine della seconda guerra mondiale. Questa contrapposizione, come ben sappiamo, non riguardava soltanto l’Europa. È vero che la potenza mondiale degli Stati Uniti d’America aveva stabilito un legame particolarmente stretto con la sua parte occidentale. Ma, quali che fossero le primitive intenzioni da questa parte dell’Atlantico, lo aveva fatto con uno scopo più generale, che era quello di contenere l’estensione della concorrente influenza dell’Unione Sovietica.

Questa azione di contenimento comportava, essenzialmente, la specifica esigenza di ridurre al minimo la capacità dell’Unione Sovietica di influire sul controllo delle risorse dell’Eurasia. Ma, appunto, una tale posta includeva anche, in posizione altrettanto determinante, il Medio e l’Estremo Oriente; e all’inizio degli anni sessanta il conflitto globale aveva finito per estendersi anche all’Africa e all’America Latina. Proprio in America Latina, nel 1962, si era acceso il focolaio che aveva portato la tensione tra le due superpotenze al punto di massimo pericolo incombente di una catastrofica guerra nucleare.

Una comune assunzione di responsabilità circa la necessità di evitare il ripetersi di un tale rischio è alla base di tutto ciò che contribuì successivamente a moderare il confronto diretto tra le due massime potenze mondiali, e quindi l’aspetto globale della distensione, se conveniamo di definire così il suo aspetto che riguarda i rapporti tra le due massime potenze come tali e anche come potenze-guida dei rispettivi blocchi.

Le tappe fondamentali di quel processo furono il trattato di Vienna del 1963 sull’interdizione degli esperimenti nucleari nell’atmosfera, il trattato di non proliferazione nucleare del 1969 (che formalmente includeva la Gran Bretagna tra i primi firmatari, e ovviamente comportava l’adesione di una quantità di medie potenze), e infine, soprattutto, l’avvio dei negoziati per la limitazione delle armi strategiche (SALT). Queste ultime culminarono nei trattati americano-sovietici di Mosca del 1972, cioè il “SALT 1” e il “trattato ABM” di interdizione della ricerca e dello sviluppo delle armi di difesa anti-missile intese come “scudo” capace di rimuovere la deterrenza e di rendere potenzialmente “conveniente” un risolutivo primo colpo nucleare contro l’avversario.

Quasi nello stesso periodo le nazioni e le forze politiche europee svilupparono loro specifiche iniziative di distensione. Queste iniziative ebbero un senso significativamente diverso, come può apparire ovvio dato il diverso genere di problemi e, dopotutto, anche il diverso livello di responsabilità globali. Ma ciò non esaurisce il contenuto della diversità, né le sue ragioni; così come il genere di problemi e di responsabilità che riguardava le due superpotenze non basta a spiegare i limiti specifici delle politiche di distensione concepite e perseguite dai loro gruppi dirigenti in quel periodo. In questo contributo, l’accento sarà posto in maniera particolare sull’analisi delle motivazioni, e sull’evoluzione del rapporto tra fatti e idee negli orientamenti seguiti da grandi culture e famiglie politiche europee quanto al futuro del continente.

1. Il ruolo attivo degli europei nella prima fase della guerra fredda

È impossibile tentare di definire il ruolo specifico delle nazioni e delle forze politiche e sociali europee nei processi di distensione internazionale degli anni settanta senza preliminarmente adottare uno schema appropriato del loro ruolo nella prima fase della guerra fredda.Tanto nell’uno quanto nell’altro caso, infatti, si trattò di un ruolo autonomo nei confronti di entrambe le superpotenze, in entrambi i campi.

Originariamente, appare che i dirigenti di entrambe le superpotenze furono meno motivati a scendere nella guerra fredda, e a proseguirla, di quanto lo furono i loro alleati, e particolarmente (anche se non soltanto) i loro alleati europei. Una nota ricorrente nella corrispondenza diplomatica britannica tra la vittoria della coalizione anti-hitleriana e la formazione dell’alleanza atlantica era stato il timore che la politica di Washington ritornasse in un modo o nell’altro al ruolo di mediazione più o meno equidistante tra Londra e Mosca che aveva caratterizzato il suo comportamento entro la grande coalizione delle Nazioni Unite durante la seconda guerra mondiale.

Questo aspetto si era manifestato in modo speciale a proposito del Medio Oriente, e proprio qui una tendenza nettamente diversa si manifestò per la prima volta già nell’autunno del 1945, attraverso la crisi iraniana. Ancora nell’autunno del 1947 l’Unione Sovietica cercò di dividere il nuovo fronte comune anglo-americano appoggiando la formazione dello Stato d’Israele, contro i desideri britannici, in seno alle Nazioni Unite. Tra il 1948 e il 1949, Stalin aveva poi sviluppato un contraddittorio e discutibile tentativo di unire spregiudicate pressioni (il blocco delle vie d’accesso occidentali verso Berlino) e offerte di cooperazione (in seno alla Commissione economica per l’Europa e quanto all’assetto della Germania) al fine di rompere un isolamento che era in parte frutto della sua stessa politica e in parte di costrizioni reali cui egli non sapeva rispondere diversamente.

In ogni modo, i governi europei occidentali furono i più convinti ed attivi garanti della natura esclusiva del club che essi invitavano gli Stati Uniti a dirigere, tanto nella politica economica quanto in quella della sicurezza. Anche alcuni clienti orientali di Stalin, del resto, trovavano spesso il modo di giocare il loro potere di coalizione innalzando i loro obiettivi di auto-affermazione anche al di là del livello che egli avrebbe trovato più compatibile con la sua politica generale. Ne risultò, ovviamente, la divisione della Germania, e più fondamentalmente una situazione in cui l’instabilità del quadro legale dei confini europei era compensata da un alto livello di tensione politico-militare, da cui risultava comunque un certo equilibrio.

Questi aspetti sono stati ricordati qui per mettere in evidenza come, durante la prima metà della guerra fredda, gli europei furono generalmente più inclini a produrre ostacoli che contributi ad ogni possibilità o tentativo di abbassare la tensione tra i due blocchi del nuovo sistema internazionale. Questo non riguarda soltanto gli europei occidentali: per esempio, infatti, il leader comunista tedesco-orientale Walther Ulbricht e il suo gruppo fecero tutto il possibile per influenzare la politica interna ed estera dell’Urss dopo la morte di Stalin a favore del complesso militare-industriale e contro la politica del “disgelo”, non senza effetti (e, come vedremo, questo genere di interazione tra Berlino-Est e Mosca avrebbe avuto una serie di altre importanti manifestazioni negli anni successivi).

In Occidente, l’unica rilevante eccezione fu costituita dall’iniziativa di distensione che fu presa da Churchill nel 1953, e non è un caso se essa fu contrastata con ogni energia anche nel suo stesso paese. Da entrambe le parti dell’Atlantico, e soprattutto da quella europea (con la maggiore decisione), le due successive amministrazioni di Eisenhower, dal 1953 al 1960, furono oggetto di un costante e diffidente monitoraggio rivolto a prevenire, criticare, correggere ed annullare quelle che erano percepite come tendenziali deviazioni verso qualche forma di intesa con Mosca.

L’umiliazione inflitta da Eisenhower a Parigi e a Londra in occasione della crisi di Suez ispirò al cancelliere tedesco-federale Adenauer parole gravissime, spinte fino all’idea di “unirsi contro gli americani”. La fermezza di de Gaulle durante la seconda crisi di Berlino, che contribuì almeno quanto l’incidente dell’U-2 al fallimento del vertice quadripartito di Parigi nel 1960, corrispose in qualche modo a quegli intenti. Dopo la crisi caraibica, toccò a Kennedy e a McNamara essere oggetto delle aspre critiche di Adenauer, non a caso durante uno dei suoi frequenti colloqui con de Gaulle, per aver minato la credibilità della dottrina militare della “risposta flessibile” omettendo di invadere Cuba.

A parte ogni altra considerazione, gli americani potevano obiettare a tali critiche (e lo facevano) che la dottrina della “risposta flessibile” nel quadro europeo comportava uno sforzo di riarmo convenzionale della NATO al quale gli europei occidentali avrebbero dovuto contribuire in una misura che essi comprensibilmente rifiutavano, perché era incompatibile con alcune condizioni fondamentali che assicuravano l’equilibrio economico e politico dei loro paesi. La deterrenza nucleare si presentava come meno costosa anche per loro. La Francia aveva intrapreso questa via già a metà degli anni cinquanta, dapprima anche come ulteriore assicurazione esclusivamente nazionale di fronte alle ambivalenti ripercussioni del riarmo tedesco, e poi, più decisamente, come reazione allo smacco di Suez nell’ultima fase della Quarta Repubblica; nel 1960,

La Quinta Repubblica aveva portato l’opera a compimento. Nella prima metà degli anni sessanta, comunque, gran parte del dibattito di politica militare entro lo schieramento atlantico sembrò ruotare intorno al modo di aggirare i vincoli che impedivano alla Germania occidentale di maneggiare armi nucleari (per esempio attraverso sottili distinzioni tra il “possesso” di queste armi a l’“accesso” alle medesime, che ispirava l’abortito disegno di una forza nucleare multilaterale atlantica). Quantunque gran parte di questo dibattito, anche dal punto di vista di Bonn, avesse piuttosto un valore di principio che concretamente operativo, la tensione in Europa ne risultava ulteriormente accresciuta.

Lo scoppio della bomba atomica cinese nell’autunno del 1964 stimolò poi decisamente le due superpotenze a cercare di accordarsi circa il comune interesse a controllare il riarmo atomico, aprendo il percorso che doveva portare alla firma del trattato di non proliferazione nucleare il 1° luglio 1968. Per l’Unione Sovietica, il prezzo di questa intesa fu l’ulteriore aggravamento della rottura con Pechino, fino al limite degli scontri di frontiera dell’anno successivo. Un risultato fondamentale era comunque che la Germania occidentale perdeva ogni possibilità di emanciparsi dalle limitazioni all’esercizio della sovranità in campo internazionale che essa ereditava dalla capitolazione del Reich Tedesco.

Il leader cristiano-sociale Franz Joseph Strauss esprimeva questo concetto tuonando contro la “nuova Versailles di dimensioni cosmiche”. Altri, però, avevano già cominciato a distinguere tra lo status quo politico-territoriale europeo, che ormai di fatto era sanzionato, e lo status quo sociale e culturale inerente al bipolarismo ideologico e sistemico comportato dalla tensione tra i blocchi; addirittura, anzi, sembravano scommettere sulla possibilità che il consolidamento del primo finisse per essere una condizione per la modificazione del secondo.

2. Il quadro concettuale della “Wandlung durch Annäherung”

John F. Kennedy e alcuni suoi stretti collaboratori avevano individuato questo metodo con un certo anticipo; specificamente, ciò riguardava la funzione drammaticamente complessa, ambivalemte, del Muro d Berlino. Pochi giorni prima che il Muro fosse costruito, Kennedy confidò al consigliere per la sicurezza nazionale Walt W. Rostow di prevedere e quasi di comprendere una tale mossa. Dodici anni più tardi, Ted Sorensen (strettissimo collaboratore del Presidente della “Nuova Frontiera” e autore di molti suoi discorsi), avrebbe dichiarato durante un dibattito radiofonico che senza il Muro la distensione degli anni sessanta, fino ai “trattati orientali” del 1970, non sarebbe stata possibile.

Forse poche testimonianze rendono più efficacemente di queste la drammatica ambivalenza dell’“ordine della guerra fredda” (un’espressione già in sé contraddittoria, che include un ossimoro entro un ulteriore ossimoro). Tuttavia la scommessa più matura ed elaborata della “Nuova Frontiera”, in quanto espressa nel discorso di Kennedy all’American University di Washington il 10 giugno 1963, includeva già come aspetto essenziale una speranza di evoluzione positiva entro la realistica presa d’atto dei dati della situazione, ossia il riconoscimento di esigenze e di ragioni espresse dal mondo comunista come base di dialogo e di ricerca di nuove possibilità.

Inizialmente, malgrado il forte impatto emotivo e la grande popolarità guadagnata da Kennedy nell’ex-capitale tedesca durante i drammatici eventi dell’estate del 1961 come campione della sua libertà, la comprensione tra il presidente della Nuova Frontiera e il borgomastro Willy Brandt era stata tutt’altro che piena. La distinzione fatta dal primo tra il fermo impegno a difendere Berlino-Ovest e l’impossibilità di “tenere aperta Berlino-Est” non corrispondeva alla visione di quell’anima “nordica” e “orientale” della SPD, impersonata in qualche modo anche da Brandt , che meno di ogni altra era stata fino ad allora incline ad accantonare l’idea dell’unità tedesca (o meglio, all’opposto esatto di Adenauer, ispirava a quel proposito parole sommesse e prudenti, ma convinte).

Proprio nel 1963, tuttavia, quei due diversi modi di combinare la difesa della pace con la promozione della libertà sembravano essersi avvicinati. Il borgomastro Brandt aveva sviluppato una politica locale favorevole piuttosto alle persone che ai principi nella questione dei lasciapassare, contrapponendosi da un lato a Bonn, e trovando dall’altro una perfetta intesa su questo approccio durante l’ultima visita di Kennedy a Berlino in quella medesima estate. Nell’ottobre dell’anno precedente, proprio mentre il confronto globale raggiungeva il culmine della sua tensione a causa della crisi dei missili cubani, il leader socialdemocratico aveva pronunciato un discorso all’università di Harvard delineando già lo stretto rapporto tra realismo e movimento, realismo e dialogo, che avrebbe poi costituito l’essenza e la specificità della sua Ostpolitik: “Dobbiamo cercare le forme che si sovrappongano ai blocchi di oggi e ne abbiano ragione. Dobbiamo avere il massimo possibile di punti di contatto reali e di comunicazione significativa; una tale concezione può contribuire alla trasformazione dell’altra parte”.

“Punti di contatto” e “comunicazione significativa” non erano parole facili da pronunciare mentre vi erano giovani che perdevano la vita sotto il fuoco della Volkspolizei nel tentativo di passare il Muro. Anche in ciò, ma non soltanto in ciò, si rifletteva la costante ambivalenza, la tesa contraddittorietà della situazione di quegli anni. In quello stesso drammatico ottobre, il culmine della tensione globale fino all’orlo della catastrofe nucleare si risolveva in un flesso verso la distensione attraverso l’intesa americano-sovietica che concludeva la crisi caraibica con un sostanziale pareggio, giacché il ritiro dei missili sovietici da Cuba era bilanciato non soltanto dall’impegno di Washington a non intervenire contro Castro ma, soprattutto, dal suo segreto impegno a smantellare le basi missilistiche italiane e turche.

In questo secondo impegno era logicamente implicita l’esclusione di ogni possibile forma di “accesso” della Repubblica federale tedesca al “rango” nucleare. Naturalmente, come è stato già osservato, la maggioranza governativa di centro-destra e lo stesso cancelliere Adenauer avevano dato a questo tema un valore simbolico piuttosto che pratico. Tuttavia, la presa d’atto dei dati della realtà da parte di Bonn non era un compito facile per un personale politico di governo che si era spinto molto avanti nel suo rapporto con il paese, con gli elettori, e con gli stessi alleati nella contestazione di quei medesimi dati.

La situazione tedesca comportava però anche specifiche opportunità: precisamente, poteva suggerire di fare della presa d’atto un fattore di mutamento. Così, per esempio, a Berlino-Ovest la parola d’ordine non era più “il Muro deve sparire”, ma “rendere permeabile il Muro”: se cioè l’origine del Muro era da individuare in un’interna insicurezza del mondo comunista, era su questa insicurezza che bisognava lavorare, comprendendone le ragioni: così argomentava Egon Bahr, il più ascoltato consigliere di Brandt, in un discorso tenuto nel luglio del 1963 che lanciava la formula della nuova politica: Wandlung durch Annäherung, cambiamento attraverso l’avvicinamento tra i due mondi e i due regimi.

Poche settimane più tardi, Kennedy scompariva dalla scena, vittima dell’oscuro attentato di Dallas. Brandt falliva nel suo proposito di ricevere Krusciov a Berlino-Ovest, di fronte alla decisa opposizione dei suoi partner democristiani nel governo della città. Lo stesso Krusciov non riuscì a realizzare la “storica” visita a Bonn che era nei suoi piani nel 1964, prima di essere rovesciato alla fine di quell’anno.

3. La versione gaullista della distensione

Frattanto, comunque, i fatti del Golfo del Tonchino avevano dato l’avvio al massiccio intervento militare americano in Vietnam, che tra l’altro rovesciava l’indicazione data da Washington due anni prima nei confronti della crisi di Cuba quanto alla credibilità della dottrina strategica della “risposta flessibile”, ossia della possibilità della guerra convenzionale fino ai massimi livelli d’intensità. C’erano però, in questo nuovo contesto, differenze significative.

Se la strategia del contenimento comportava ora un tale impegno di uomini e di risorse da parte americana nei confronti della sfida dei movimenti di liberazione nazionale del Terzo Mondo e della potenziale egemonia del comunismo cinese nei loro confronti, il messaggio per gli alleati europei era che una revisione della ripartizione degli oneri in seno all’Alleanza atlantica diventava a questo punto ancora più necessaria e urgente. Ciò aveva un aspetto finanziario e un connesso aspetto di politica degli armamenti, ma alcuni potevano vedervi anche un aspetto politico più generale, cioè il suggerimento di una più accentuata regionalizzazione (“europeizzazione”) dell’equilibrio europeo.

Ne derivavano segnali vaghi e ambivalenti. Da un lato, la riaffermata credibilità della dottrina della “risposta flessibile”, ossia della guerra possibile, dava argomenti vincenti al complesso militare-industriale e in generale ai fautori di una rigida politica di sicurezza interna ed esterna entro il ceto dirigente dell’URSS. Ma, dall’altro, spazi più ampi sembravano aprirsi per il disegno gaullista di un’Europa di restaurati Stati nazionali sovrani “dall’Atlantico agli Urali”.

Intorno alla metà del decennio, tra il 1964 e il 1966, de Gaulle perseguì con energia questo suo schema attraverso una serie di clamorosi scambi di visite con i massimi dirigenti di paesi dell’Europa orientale come la Romania, la Polonia e l’Ungheria, senza trascurare la ricerca del dialogo con quella che, al di sotto dell’accidentale veste ideologica “sovietica”, restava per lui innanzitutto la “Russia”.. Questa offensiva diplomatica di de Gaulle, appunto,ebbe il suo culmine in un suo viaggio a Mosca tra la fine di giugno e i primi di luglio del 1966. E proprio in quei giorni la Dichiarazione di Bucarest dei paesi del Patto di Varsavia (6 luglio) sembrò venire a incoraggiare simili idee, avanzando la proposta di una conferenza per la sicurezza e la cooperazione europea cui avrebbero dovuto parecipare tutti gli Stati del Continente, senza alcuna menzione degli Stati Uniti d’America.

Nel disegno di de Gaulle, tutto ciò avrebbe dovuto tendere a una versione puramente europea dell’equilibrio della deterrenza, che sarebbe stata una versione certamente sussidiaria, ma non per questo meno determinante. Lo strumento fondamentale, a questo fine, era la force de frappe nazionale francese. Questa era infatti concepita come garanzia d’indipendenza anche in una corretta percezione dell’arma nucleare come non arma, che svolga la sua funzione in quanto non sia usata (in questo caso, secondo il concetto di “danno marginale ma decisivo” che anche un arsenale nucleare molto limitato poteva minacciare, a quanto si riteneva, in una misura comunque sufficiente a condizionare i comportamenti dei potenziali avversari).

De Gaulle non si spinse mai fino ad offrire ai tedeschi occidentali l’“ombrello” nucleare francese come alternativo a quello americano. Per De Gaulle la “deterrenza estesa”, in quanto tale, non era credibile: egli credeva nelle nazioni come soggetti dotati di personalità e di destino, capaci essi soli di decidere, occorrendo il caso, di “preferire la morte”. Con tutta la prudenza e tutta la gradualità che gli erano suggerite e dettate dalla sua qualità di statista, in linea di principio egli non negava un tale ultimo ed essenziale requisito di sovranità ad alcuna grande nazione europea: dunque, nemmeno ai tedeschi, la cui unità era per lui questione di tempi non brevi e di modi da ricercare, ma non di sostanza.

Quando de Gaulle parlava di passaggio “dalla distensione all’intesa alla cooperazione” non aveva in mente un’intesa tra blocchi, sistemi, partiti o ideologie, ma tra nazioni. Il “superamento dei blocchi” doveva comportare innanzitutto la restaurazione delle sovranità nazionali. L’ipotesi gaullista era che Mosca potesse infine accettare questo se questo fosse stata la condizione, o la forma, in cui avrebbe potuto raggiungere il suo principale interesse di politica estera in Europa, cioè l’equivalente del mancato trattato di pace con la Germania e insomma la piena legittimazione di un assetto europeo tale da garantire, quanto meno, i mutamenti territoriali di fatto che più la riguardavano.

La Dichiarazione di Bucarest costituì forse il punto massimo di avvicinamento della politica dell’URSS e del blocco orientale a questa ipotesi, anche se gli equivoci erano molti, a cominciare da quello del futuro prossimo della RDT. In generale, e più a fondo, queste ipotesi e queste formulazioni aggiravano o sottovalutavano la gravità del problema della nazione tedesca, della sua autodeterminazione e della sua sovranità politica, e della compatibilità di questo problema con quello della stabilità europea: un problema secolare, che era molto improbabile risolvere politicamente sulla base di concetti classici di Stato nazionale e di sovranità come quelli della politica gaullista.

Nella Repubblica federale esisteva, a questo proposito, un fondamentale paradosso. I partiti di governo, di centro e di centro-destra, avevano assicurato di fatto il consolidamento di uno Stato i cui principi costituzionali rompevano nettamente la continuità con l’estinto Reich e si richiamavano a fondamenti di legittimità che contraddicevano o almeno limitavano l’idea classica di sovranità nazionale; e lo avevano fatto (specialmente Adenauer) con piena consapevolezza; tuttavia, avevano costruito la propria legittimazione politica anche e specialmente su appelli e parole d’ordine di carattere fortemente nazionalista.

Di questo, gli eredi politici di Adenauer erano ancora largamente prigionieri. Nel 1966, la crisi del governo Erhard si consumò tra le ambizioni filo-gaulliste del leader bavarese Franz Joseph Strauss e la preoccupante crescita dei consensi del partito “nazional-democratico” dei nostalgici. In dicembre, la formazione dei governo di grande coalizione tra democristiani e socialdemocratici aprì una fase nuova non solo nella vicenda della Repubblica federale di Germania, ma, con l’avvento di Willy Brandt alla guida della politica estera di Bonn entro il governo Kiesinger, per l’Europa nel suo insieme.


4.L’ascesa della sinistra europea a responsabilità di governo come aspetto e come fattore della distensione

Tre anni più tardi che in Italia (o qualcosa di più, se si include il periodo delle “convergenze parallele”), e quarant’anni dopo Weimar, un governo di coalizione tra socialisti e forze politiche di ispirazione cristiana (i “partiti dell’Unione”, CDU e CSU) prendeva la guida della Repubblica federale di Germania. Vi era, accanto alle molte differenze, qualche analogia significativa, riguardante proprio la politica estera e di sicurezza.

Tanto in Italia nel 1963 quanto in Germania occidentale tre anni dopo, gli avversari democristiani dell’“apertura a sinistra” erano, tra l’altro, o diffidenti verso la distensione o ammiratori della linea gaullista, o entrambe le cose; ed erano comunque diffidenti e preoccupati verso le tendenze americane a qualche forma di intesa bipolare con l’altra superpotenza. E in entrambi i casi, appunto (pur tenendo conto dei mutamenti intervenuti nel passaggio dall’ultima fase dell’amministrazione Kennedy all’amministrazione Johnson), l’“apertura a sinistra” incontrò la benevolenza di Washington, anche al fine di contrastare la politica di Parigi.

Ma l’analogia tra la situazione politica della Repubblica federale tedesca e quella dell’Italia aveva aspetti più generali e più profondi, anche se piuttosto complessi. Il Partito socialdemocratico di Germania aveva un grande numero di dirigenti, militanti e sostenitori, che si erano chiamati comunisti fino a qualche tempo prima e probabilmente avrebbero continuato a chiamarsi così se le vicende del comunismo tedesco fossero state simili a quelle del comunismo italiano. A parte i nomi più noti - lo stesso Brandt e, naturalmente, Herbert Wehner - una figura spicca su tutte come espressione di questa tendenza: quella di Leo Bauer.

Il suo approdo alla socialdemocrazia nella seconda metà degli anni cinquanta dopo il lavoro di dirigente e organizzatore di cultura a Berlino-Est, la caduta nelle mani dell’Inquisizione rossa e la prigionia in Siberia, non avevano scosso le sue convinzioni circa il profondo senso unitario dell’esperienza storica del movimento operaio. Né, per questo, aveva cessato di coltivare i rapporti personali con Luigi Longo che risalivano alla comune esperienza di un campo d’internamento in Francia nel 1940.

Il ruolo di Bauer fu decisivo nello sviluppo del dialogo tra socialdemocratici tedeschi e comunisti italiani che si sviluppò attraverso una serie di incontri a partire dall’autunno del 1967, non soltanto nella ricerca di forme di intermediazione al fine di stabilire contatti con i paesi dell’Est europeo e con l’Unione Sovietica, ma anche sulla base della percezione che il radicamento nazionale e popolare del PCI e il suo rapporto con le istituzioni lo rendessero molto più simile ad altri partiti del movimento operaio occidentale che agli apparati al potere nei regimi dell’Est europeo, tanto che una nota dell’Ufficio stampa della SPD su quei contatti, che frattanto erano venuti alla luce suscitando apre polemiche, nell’aprile del 1968, menzionava la possibilità di una “grande coalizione” italiana come qualcosa da non escludere nel prossimo futuro.

Da un lato, dunque, ciò che era destinato a ricevere più tardi il nome di “compromesso storico” era previsto favorevolmente e quasi suggerito con qualche anno di anticipo dalla socialdemocrazia tedesca, o almeno da quanti in essa erano più o meno concordi con le posizioni del suo presidente; dall’altro, proprio il duplice radicamento mantenuto dai comunisti italiani, nella sinistra dell’Europa occidentale e nel movimento comunista mondiale, appariva a Bonn come una risorsa onde tentare di incidere sul processo di formazione delle politiche dei regimi dell’Europa orientale e dell’URSS, a loro volta non esenti da sorde tensioni e diffidenze reciproche.

Lo sviluppo della primavera cecoslovacca e la contemporanea preparazione della conferenza mondiale dei partiti comunisti e operai, originariamente programmata per il novembre di quello stesso anno, sembravano promettere, in questa prospettiva, qualche evoluzione interessante. In quella stessa primavera, Leo Bauer incontrava a Roma il dirigente comunista italiano Sergio Segre e gli comunicava in via strettamente confidenziale i propositi di Brandt: provocare un chiarimento nella coalizione governativa di Bonn, ed eventualmente anche una rottura, al fine di portare il partito alle elezioni dell’anno seguente su posizioni più marcatamente di sinistra (includendo in esse la questione del riconoscimento delle frontiere e quella dell’adesione al trattato di non proliferazione). Appare evidente che il messaggio aveva anche destinatari più lontani; ma, come qualunque altro dello stesso genere, non bastò a scongiurare i drammatici sviluppi dell’agosto seguente.

La letteratura storiografica sullo sbocco traumatico dell’esperienza cecoslovacca di riforma del marxismo-leninismo secondo i requisiti della democrazia formale è sterminata: e anche il campo degli interrogativi aperti è ancora notevolmente vasto. Gli aspetti di conflitto etnico da un lato, e di equilibrio geopolitico e geostrategico dall’altro, che integrano e forse ridimensionano l’enfasi delle motivazioni liturgiche dell’intervento repressivo delle truppe del Patto di Varsavia, sono stati fortemente sottolineati.

Per quanto riguarda, in particolare, gli aspetti geopolitici, le preoccupazioni di Brandt circa la necessità di chiarimenti sulle questioni territoriali ai fini della distensione potevano sembrare giustificate dalla renitenza di ampi settori della CDU e di tutta la CSU ad ammettere la totale nullità (ex tunc) degli accordi di Monaco del 1938 circa i Sudeti, quali che fossero le motivazioni elettorali a questo proposito. In ogni modo, Brandt sottolineò a mano con energia il messaggio che John Scott, direttore della rivista Time, gli inviò poche ore dopo l’invasione - e qualche giorno dopo il suo rientro in patria da un viaggio a Mosca - circa l’esistenza di “divergenze politiche al massimo livello nella capitale sovietica”, tanto più che il suo interlocutore accompagnava questa osservazione con l’incoraggiamento a perseverare nella Ostpolitik e con l’auspicio che il governo sovietico non fosse ora spinto a peggiorare le relazioni con Bonn al fine di spiegare e giustificare i suoi tentativi di “mantenere ordine nella sua aera d’influenza” (quasi in una nuova versione della linea Kennedy-Sorensen del 1961).

5. Le origini dell’intesa parallela tra Brandt e Berlinguer

Questo modo di reagire politicamente ai fatti di Praga da parte dei protagonisti e dei fautori della nuova Ostpolitik può forse aiutare a collocare in una luce adeguata il comportamento tenuto dai comunisti italiani in seguito a quei medesimi fatti. In altre parole, appare lecito sostenere che, se al “dissenso” non seguì lo “scisma” - se, quindi, la conferenza mondiale dei partiti comunisti e operai fu soltanto rimandata di alcuni mesi e non annullata, e se il PCI vi partecipò infine al massimo livello - ciò non accadde malgrado gli impegnativi contatti che il PCI aveva stabilito con la socialdemocrazia tedesca, ma anche perché quei contatti vi erano, e continuavano a svilupparsi.

Durante una visita di Brandt a Roma in qualità di ministro degli Esteri ai primi di gennaio del 1969, Leo Bauer e il capo della sezione esteri della SPD, Dingels, svolsero con alcuni rappresentanti del PCI una parte della missione che lo stesso leader socialdemocratico non poteva svolgere nella sua qualità, ma che egli considerava forse la più importante. Il risultato immediato fu la preparazione di un’intervista che uscì su Paese sera il 30 gennaio, dove Brandt dichiarava di considerare “gli avvenimenti intorno e dopo la data del 21 agosto come una tragica cesura ma non come una svolta storica”.

La NATO e il Patto di Varsavia, affermava il leader socialdemocratico, erano attualmente gli strumenti attraverso cui i popoli d’Europa trovavano la loro “sicurezza relativa”. Anche questo, chiariva, faceva parte delle “realtà” che bisognava riconoscere, ma non in termini di puro e semplice adattamento: non si poteva né si doveva “rinunciare al proposito di modificare le cose in senso positivo”; lo scopo da perseguire era “un ordinamento di pace che supera i blocchi e crea un sistema uniforme di sicurezza europea”.

Le forze di sinistra dell’Europa occidentale avevano in ciò una funzione. Queste forze non potevano essere definite in termini schematici o dogmatici: ciò che si stava svolgendo nel mondo cattolico non poteva essere “incastonato nei vecchi modelli”; in generale, il compito riguardava “tutte quelle persone che ravvisano i compiti dell’avvenire nell’ultimo terzo del nostro secolo e si propongono di risolverli: che non esitano a questo fine a rimettere in dubbio compiti e istituzioni finora considerati intangibili”.

Vi erano “persone di questo tipo in molti gruppi politici sociali e religiosi”, che potevano “accrescere le loro forze mediante un’azione comune”; non si trattava di “escogitare manovre o schemi organizzativi” (ossia, si poteva intendere, scismi o ricomposizioni o formule di bandiera), “ma di dar prova di comprensione, di rispetto mutuo e di ricercare basi comuni di pensiero e convinzioni che allarghino i gruppi esistenti”. Pochi giorni dopo, le parole con cui Enrico Berlinguer esprimeva a Bologna il suo nuovo ruolo di effettiva direzione del Partito comunista italiano, concludendo il suo XII congresso, avrebbero dimostrato quanta affinità ormai esisteva tra i due metodi intellettuali, i due modi di interpretare la storia presente.

E in effetti, senza “escogitare manovre o schemi”, il ruolo dei delegati del PCI a Mosca durante gli incontri preparatori del “Concilio rosso” ebbe molti aspetti che li qualificavano di fatto come rappresentanti di una più ampia sinistra europea occidentale, anche al prezzo di aperte contrapposizioni nei confronti di altri partiti comunisti occidentali; e in questo ruolo essi interagivano anche con quelle alternative a confronto entro le sfere dirigenti della politica sovietica che suscitavano l’interesse, la curiosità, e forse anche le speranze di Brandt.

La manifestazione pubblica di calore riservata da Kosygin al rappresentante del PCI, Carlo Galluzzi, dopo il suo intervento alla riunione preparatoria di Mosca - che in effetti era stato preceduto e accompagnato da imbarazzo e gelo - era un segnale interessante anche per Bonn, puntualmente riferito a Bauer. Alla vigilia della Conferenza, la SPD si assicurava una “voce” nel consesso: il PCI non avrebbe sottoscritto in nessun caso eventuali nuovi anatemi contro il “revanscismo” di Bonn; il PCUS interrogava i comunisti italiani circa la possibilità di avere a propria volta contatti con i socialdemocratici tedeschi (mentre, non a caso, Suslov riprendeva le critiche alle teorie cominterniste sul “socialfascismo” in polemica con Ulbricht), e si sentiva rispondere (dai comunisti italiani) che per l’appunto gli attacchi contro quei dirigenti avrebbero dovuto cessare.

Il discorso di Berlinguer alla conferenza di Mosca, dunque, rappresentò anche questo: un richiamo delle condizioni di cui i sovietici avrebbero fatto bene a tenere conto se intendevano avere amici in Europa occidentale, in seno alle forze reali che esprimevano l’opinione pubblica democratica e i ceti popolari in quella parte del Continente. Non scismi, dunque, e nemmeno “manovre” e “schemi”; ma lo stesso Luigi Longo, intervenendo alla Direzione del PCI nel dibattito sui risultati della conferenza di Mosca, avallava la svolta storica che sostanzialmente era in atto. Da un lato l’“unità” del movimento operaio mondiale era sempre “possibile”, ma dall’altro “le forme più avanzate di collaborazione” sarebbero state ora “con gli altri partiti dei paesi capitalistici”..

Per la sua storia personale e la sua formazione, Longo era naturalmente portato a pensare innanzitutto al partito comunista francese come interlocutore sui problemi europei e della “sinistra europea”, innanzitutto in relazione al Mercato comune. Ma ormai si poteva trovare “un’eco favorevole presso i socialdemocratici tedeschi”.

La svolta elettorale del 28 settembre nella Repubblica federale tedesca aprì una nuova fase. In teoria, come Cancelliere, Brandt non avrebbe avuto più bisogno di integrare la diplomazia ufficiale con la diplomazia informale dei partiti, dei contatti e delle mediazioni riservate cui era anche servito il dialogo con il PCI. Malgrado ciò, l’interesse di Brandt per un rapporto politico con i comunisti italiani non diminuì nella sostanza. Proprio nei giorni in cui assumeva la carica di Cancelliere federale, in effetti , egli incontrò Giorgio Signorini di Paese sera e gli parlò dei “molti punti di contatto” tra le posizioni che egli affermava e quelle del PCI. In particolare, secondo Brandt, ciò riguardava “i problemi dell’Europa, dei blocchi, del superamento delle teorie politiche cristallizzate in loro nome, circa infine una certa audacia con cui è necessario aggredire i mostri sacri delle posizioni correnti in seno all’establishment sia politico sia diplomatico”. Secondo Signorini, Brandt espresse quindi “apprezzamento per la posizione coerente mantenuta non da ora dal PCI sui problemi che interessano i rapporti all’interno del movimento operaio internazionale”.

6. Problemi geopolitici e politica sommersa

Lo sviluppo complessivo della situazione internazionale, però, poneva più complesse e più delicate esigenze. Malgrado il forte interesse reciproco, in effetti, i rapporti tra socialdemocratici tedeschi e comunisti italiani diventarono meno frequenti, e più circospetti, proprio a partire dal 1969.. Alla fine di quell’anno accadde qualcosa di molto importante che si può mettere in relazione con ciò. Due mesi dopo le elezioni tedesche, la strage di Piazza Fontana a Milano costituì un segnale per gli spiriti più consapevoli ai vertici della politica europea, al di là della nebbia artificiale che naturalmente era sollevata.

Ciò che risultò drammaticamente verosimile fu cioè che la formazione di un governo italiano comprendente l’intera sinistra sarebbe comunque stata impedita senza una troppo stretta limitazione di mezzi; e questa valutazione suscitò forti preoccupazioni nei dirigenti della sinistra europea che avevano responsabilità di governo. Un “dato politico” riferito e discusso entro la Direzione del PCI riunita pochi giorni dopo la strage di Piazza Fontana era “la preoccupazione di Wilson e di Brandt che il Pentagono intervenga brutalmente nella crisi italiana”. Pochi giorni dopo, in una lettera a Sergio Segre, Leo Bauer menzionò la “situazione politica” come tale da consigliare un rinvio di ulteriori contatti , esprimendo “grande preoccupazione per gli sviluppi delle ultime settimane in Italia”, anche “in vista delle difficoltà che in date circostanze possono darsi anche da noi”.

Sembrava, insomma, che vi fosse ragione di ritenere che le strutture coperte degli apparati di sicurezza di alcuni Stati, e quelle dell’Alleanza atlantica stessa, stabilissero limiti piuttosto stretti, e in modo abbastanza deciso, all’iniziativa politica di quanti si proponessero di tentare nuove combinazioni tra i fattori politici essenziali della situazione europea. Era stato del resto già osservato, nella stampa tedesca indipendente, che “determinati circoli di Washington” avevano cominciato da qualche tempo ad esprimere chiaramente preoccupazioni circa lo sviluppo della Ostpolitik di Bonn,e che i colloqui tra la SPD e il PCI, noti molto tempestivamente al servizio segreto americano, avevano fortemente contribuito a suscitarle.

La definizione dei socialdemocratici tedeschi come “traditori dell’Europa e dell’Occidente”, data dal Tempo di Roma a proposito di quei colloqui al momento della loro clamorosa rivelazione nell’aprile del 1968 rispondeva a umori diffusi al di là dell’Italia, e in Italia al di là dei veri e propri partiti di destra: fredda incomprensione e diffidenza verso le novità di Bonn caratterizzavano gli atteggiamenti di parti significative del nuovo partito socialista unificato, o almeno di quella sua parte, più decisamente anticomunista, che faceva riferimento al presidente della Repubblica Giuseppe Saragat e che nel 1969 aveva operato una nuova scissione.

Nel febbraio del 1970, poco dopo lo storico incontro di Erfurt tra Brandt e il ministro-presidente della RDT Willy Stoph, Saragat volle avere un colloquio con l’ambasciatore Lahr e con la contessa Dönhoff, fondatrice ed editrice della Zeit, per manifestare i suoi forti dubbi circa la nuova Ostpolitik; così da suscitare misurate ma ferme puntualizzazioni da parte di Brandt.

Negli stessi giorni, Brandt preparava la sua prima visita a Washington in qualità di cancelliere federale, e doveva farlo sulla base di informazioni tutt’altro che rassicuranti, al di là delle buone parole verso il nuovo governo di Bonn, circa l’atteggiamento prevalente al vertice della politica USA: la nota dominante nella capitale americana a proposito del nuovo governo di Bonn della sua politica di distensione, cioè, era una ferma volontà di non lasciarsi sfuggire dalle mani il controllo della relazione con Mosca; e alcuni, non tra i meno responsabili, parlavano di ciò come della necessità di impedire una nuova “Rapallo”.

Una parte di queste preoccupazioni aveva un certo fondamento reale, sebbene indiretto, nella misura in cui occorreva preoccuparsi della stabilità delle linee portanti dell’assetto europeo scaturito dalla seconda guerra mondiale, indipendentemente dalla guerra fredda e dal suo eventuale superamento. A differenza di altri suoi compagni di partito, meno attenti alle esigenze della stabilità mondiale nel medio periodo e più nazionalmente motivati, Brandt fu sempre molto attento a tali considerazioni. L’idea di un’Europa occidentale che, pur cessando di essere strutturalmente antisovietica, dovesse sviluppare la sua autonomia in senso “non antiamericano”, era già implicita nella politica di Brandt prima che Berlinguer la enunciasse in una formula qualche anno più tardi.

Prima di sviluppare questo punto, tuttavia, è importante sottolineare il senso politico inusuale della nuova dialettica interatlantica che si andava profilando. Rovesciando una tendenza, era adesso un governo dell’Europa occidentale (e precisamente quello che della seconda potenza industriale e commerciale del mondo capitalistico dopo gli Usa, almeno per il momento) che sembrava quasi prendere la testa di un processo di distensione, spingendolo molto più avanti di quanto il governo degli Stati Uniti intendeva, e immettendo in esso motivazioni e scopi significativamente diversi per qualità e portata rispetto al genere di normalizzazione dei rapporti Est-Ovest che contemporaneamente era concepito a Washington.

A questa constatazione sembra lecito associare l’opposto segno delle risposte politiche ai movimenti di riforma e di critica sociale radicale della fine degli anni sessanta, rispettivamente in Germania Occidentale e negli USA. Il successo elettorale della sinistra tedesca nel 1969, cioè, sembrava contrastare la tendenza che si era manifestata l’anno precedente dall’altra parte dell’Atlantico, dove la “maggioranza silenziosa” evocata da Richard Nixon, cementata da interessi conservatori, aveva a suo modo risolto una crisi di inusuale violenza.

Laddove Brandt aveva lanciato la parola d’ordine di “osare più democrazia”, cioè, l’appello del conservatorismo americano alla “maggioranza silenziosa” comportava la rivendicazione di una delega molto ampia, e solo limitatamente controllata, a favore di un apparato di governo in cui le funzioni di “sicurezza nazionale” (anche e soprattutto all’estero) avevano già assunto una fortissima rilevanza.

Ma la partita che la nuova Ostpolitik aveva aperto nel cuore dell’Europa, con possibili conseguenze di vasta portata sui dati di fondo del sistema internazionale, aveva aspetti ancora più complessi. In effetti, la stagione più intensa e feconda della Ostpolitik e della Deutschlandpolitik della coalizione social-liberale di Bonn si svolse attraverso rapporti complicati, delicati, e talvolta tesi, tra almeno quattro protagonisti: Bonn, Mosca, Washington e Berlino-Est (con Varsavia e Praga in posizioni talvolta rilevanti). Interessi e convinzioni, partiti e lobby, vi si combinarono variamente, coinvolgendo questioni più vaste in una fase molto critica della storia mondiale.

Dopotutto, la stabilità del sistema internazionale aveva finito per fondarsi in buona misura sul tacito accordo secondo cui l’unica soluzione possibile del problema della Germania, cioè del futuro di quello che era stato il cuore della civiltà industriale per quasi un secolo, consisteva nel non risolverlo. La nuova Ostpolitik suggeriva implicitamente, con prudenza, ma in modo oggettivamente chiaro, che ciò poteva anche cambiare. Di fronte a questa prospettiva, ciascuna delle parti direttamente interessate - maggiori e minori - aveva le sue visioni e le sue preoccupazioni; per dire meglio, diverse visioni e diverse preminenti preoccupazioni erano in competizione per determinare le politiche in ciascuna delle capitali interessate, e specialmente a Bonn e a Mosca.

I trattati di Mosca e di Varsavia del 1970 sul riconoscimento delle frontiere avevano sostanzialmente rimosso una delle più temute tra le incognite derivanti dalla precarietà giuridico-internazionale dell’assetto europeo postbellico. Restava però il problema del reciproco riconoscimento iure pleno dei due Stati tedeschi, dei loro futuri rapporti, di Berlino e del suo muro; più in generale, e più a fondo, restava il problema delle conseguenze di un possibile riavvicinamento e di una possibile integrazione reciproca delle due Germanie, anche al di qua della riunificazione, sull’insieme degli equilibri europei e mondiali.

A Bonn, al vertice del partito del Cancelliere, tre visioni si distinguevano e si confrontavano a proposito dell’ormai classico dilemma tra “integrazione a Occidente” e “via peculiare” tedesca, essendo impersonate dai suoi tre leader più prestigiosi: accanto al Cancelliere e presidente del partito, cioè, da un lato il pragmatico modernizzatore Helmut Schmidt, che aveva guidato con energia il gruppo parlamentare socialdemocratico nella precedente legislatura e nel nuovo governo aveva assunto la carica di ministro della Difesa (in attesa di assumere la guida della politica economica in una fase critica nel 1973); e, dall’altro, l’enigmatico Herbert Wehner, ministro per le questioni dell’intera Germania nel governo di grande coalizione e quindi capo del gruppo parlamentare.

Tra un massimo di priorità alle esigenze della solidarietà atlantica, da parte di Schmidt, a un massimo di tensione verso il superamento della divisione della Germania e del suo movimento operaio, da parte di Wehner, Brandt tentava costantemente una mediazione creativa, non sempre compresa o condivisa dai suoi due interlocutori alla guida del partito. La nuova politica estera di Bonn, secondo Brandt, avrebbe dovuto essere “innanzitutto europea” ma “non soltanto europeo-occidentale”, mirando a fare perno sugli esistenti processi d’integrazione nel quadro della Comunità Europea per contribuire alla formazione di “un comune sistema di stabilità di respiro mondiale”.

In altri termini, la funzione di “ponte” tra Est e Ovest, in cui i critici delle scelte di Adenauer avevano creduto di individuare la chiave per risolvere il problema nazionale tedesco del dopoguerra, era riferita, piuttosto che semplicemente alla Germania, all’intera Europa come una delle ragioni per il rilancio della sua integrazione. Un tale respiro mondiale, appunto, comportava per Brandt il riconoscimento del ruolo delle due massime potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale come garanti della stabilità dell’equilibrio internazionale, e quindi delle loro responsabilità comuni che avevano il loro fondamento giuridico nei principi fondamentali di Potsdam circa la Germania. Tanto i rapporti con Washington quanto i rapporti con Mosca, dunque, dovevano essere salvaguardati, tenendo conto delle rispettive ragioni, con priorità rispetto allo stesso dialogo intertedesco.

La preoccupazione fondamentale di Washington nell’evoluzione della situazione tedesca (condivisa, nella misura in cui ciò aveva rilievo, con le altre due potenze vincitrici europee occidentali) consisteva nel prevenire alterazioni di qualunque genere che potessero influire sullo statuto giuridico internazionale di Berlino in modo tale da compromettere i propri diritti originari derivanti dagli accordi di Potsdam, e con essi la possibilità di controllare efficacemente quella medesima evoluzione. L’accordo su Berlino del 3 settembre 1971, per l’appunto, assicurò questo risultato. Ancora una volta, la RDT vide con ciò sfumare la sua aspirazione al pieno controllo della propria stessa capitale (cioè almeno la parte orientale di Berlino) in quanto anche Mosca prendeva atto del punto di vista occidentale circa lo statuto della città, nella forma dell’agreement to disagree.

Le ansiose gelosie dei dirigenti di Berlino-Est diventarono dunque più vive. E se da un lato esse si vestivano di più militante e intransigente ideologia, dall’altro si nutrivano e si servivano di patriottismo tedesco, giacché di tale natura erano non poche delle motivazioni per quel tanto di lealtà e di consenso di cui la piccola “Prussia rossa” anche viveva; così che l’aspirazione della RDT al pieno riconoscimento in termini di diritto internazionale poteva apparire motivata anche da un desiderio di maggiore autonomia dalla stessa Unione Sovietica.

Movimenti di politica sommersa alimentati dall’influenza di queste due parallele insoddisfazioni verso la politica di Brandt (da un lato in quanto non abbastanza inequivocabilmente atlantica, da un altro in quanto non abbastanza tedesco-unitaria) finiranno per determinare la sua caduta.

7. L’effetto cospirante dei riflessi conservatori attraverso i blocchi

Stando ai ricordi di Valentin Falin, il brillante e aperto diplomatico sovietico che diede importanti contributi al clima e ai risultati della distensione europea nel suo ruolo di ambasciatore a Bonn per buona parte degli anni settanta, la notizia della ratifica dei trattati Mosca e di Varsavia da parte del Bundestag, il 17 maggio 1972, fu recata al comitato centrale del PCUS, che era in seduta, e vi fu accolta da uno scrosciante applauso. Falin non precisa con quanto entusiasmo applaudisse ciascuno dei presenti: in particolare, cioè, i critici ideologici dell’avvicinamento alla socialdemocrazia (raccolti intorno al capo del dipartimento internazionale del partito, Boris Ponomarev), o i numerosi membri e simpatizzanti dell’influente lobby tedesco-orientale a Mosca (sempre particolarmente forte in seno all’apparato militare-industriale sovietico).

Pochi giorni più tardi, la visita di Nixon a Mosca fu coronata dalla firma del primo trattato sovietico-americano circa il controllo delle armi nucleari strategiche (SALT 1); e ancora Falin osserva come l’interesse per l’attuazione dell’accordo su Berlino avesse indotto Washington ad esercitare la sua influenza nella RFG a favore della ratifica dei “trattati orientali”, dopo avere inizialmente cercato attivamente di “tarpare le ali al gabinetto Brandt-Scheel”.

Tuttavia, i più consequenziali custodi di un’interpretazione rigida della politica atlantica, a Bonn, avevano sempre ragione di considerarsi particolarmente compresi a Washington nel mantenere le loro riserve: per esempio, le “riserve” che Schmidt era caldamente incoraggiato a coltivare da sostenitori più o meno voluti che egli comunque aveva in ambienti della Bundeswehr e quindi della lobby atlantica più zelante e diffidente, dove si ammirava la sua propensione a distinguersi da una tendenza, attribuita a “Willy Brandt e il suo circondario”, a “prendere alla leggera la dottrina Breznev” (cui era contrapposto l’esempio della fermezza di Adenauer a Mosca nel 1955).

Più in generale, si può osservare come sotto molti aspetti la critica moderata alla linea di Brandt in seno al partito socialdemocratico tedesco non si limitava a comprendere le ragioni dell’opposizione parlamentare, ma soprattutto era omogenea all’idea di distensione concepita e affermata da Henry Kissinger, il quale la vedeva appunto come una tattica di controllo e di limitazione del conflitto globale avviato con la guerra fredda. Nella visione del principale artefice della nuova politica mondiale di Washington, cioè, era radicalmente escluso che la distensione potesse mai costituire una strada per comporre tale conflitto.

Ma, per l’appunto, questa diversa e più ambiziosa idea circa gli scopi della distensione era ciò che distingueva la sua versione propriamente e originariamente europea. Nell’elaborazione o almeno nell’intuizione di una tale idea, durante gli anni settanta, le innovative combinazioni concepite e promosse da Brandt nella cultura politica della democrazia sociale incontravano a tratti (ma significativamente) da un lato quelle tentate in Italia durante la stagione del compromesso storico e dall’altro le visuali dell’élite internazionalista e antidogmatica che in qualche modo proseguiva l’eredità di Litvinov entro il ceto dirigente della politica sovietica.

Culturalmente e socialmente minoritaria nell’arcipelago di gruppi di pressione e di equilibri etnici che costituiva la società politica sovietica, quella élite dovette condurre in seno ad esso una logorante e poco fortunata guerra di posizione, prevalentemente difensiva, durante gli anni settanta: dapprima, in qualche modo, essa poté sentirsi coperta dalla medazione “centrista” di Breznev,ma poi - dopo la malattia e il sempre più grave declino del segretario generale a partire dal 1974 - si trovò in condizioni di crescente isolamento. Un contributo decisivo alla sua sconfitta per opera delle correnti dogmatiche e unilateraliste provenne dagli sviluppi della crisi mediorientale dell’autunno del 1973, che furono letti e interpretati dagli scettici circa la distensione, a Mosca, come una conferma della loro tesi secondo cui le aperture verso l’Occidente sarebbero state intese dagli avversari come segni di debolezza e da questi sfruttate al fine di minare la sicurezza dell’Unione Sovietica.

La moderazione, cioè, non aveva portato ad altro che alla “perdita dell’Egitto” e a rischi di ostilità in seno al mondo arabo-islamico che l’Unione Sovietica non era in condizione di permettersi. Si trattava di un primo colpo ai presupposti della distensione globale (dalle cui sorti quella europea non poteva certo isolarsi) in questo specifico e determinante contesto. Come vedremo, essa non avrebbe resistito a un secondo pochi anni più tardi.

Del resto, la scelta strategica dell’affermazione unilaterale degli “interessi vitali” di Washington in quel crocevia nevralgico della politica e dell’economia mondiale, che Kissinger dichiarò e perseguì con fermezza ed energia durante l’inverno 1973-1974, non ebbe effetti soltanto sulla situazione politica interna sovietica, ma, in senso diverso, anche su quella tedesca. Facendo qui un brevissimo passo indietro, conviene ricordare che già la svalutazione competitiva del dollaro, che aveva costituito gran parte del significato pratico delle clamorose misure monetarie annunciate da Nixon nell’agosto del 1971, e di fatto una base importante per il perseguimento di una politica assertivamente unilateralista, aveva avuto effetti negativi rilevanti sulla situazione economica e sociale della RFG come del resto dell’Europa occidentale: l’onda lunga di queste difficoltà economiche aveva finito per guastare il clima euforico di fiducia che aveva permesso alla SPD di effettuare il “sorpasso” come partito di maggioranza relativa nelle elezioni anticipate volute da Brandt nell’autunno del 1972. La crisi energetica, amplificata anche nei suoi aspetti mediatici dall’embargo della lega araba durante la guerra del Kippur, e tuttavia originata da tensioni ben più complesse nell’economia mondiale, costituì un fattore ulteriore di difficoltà politiche entro la coalizione governativa di Bonn ed entro lo stesso partito del Cancelliere.

Nelle fasi più acute della crisi mediorientale, Brandt aveva definitivamente giocato le ultime riserve di intima benevolenza che mai fossero nutrite nei suoi confronti alla Casa Bianca, e soprattutto presso il Dipartimento di Stato di Washington. La protesta di Bonn per l’uso improprio delle basi americane nella RFG durante l’allarme nucleare, che aveva segnalato con la massima chiarezza il programma unilateralista di Kissinger sui problemi mondiali emergenti, aveva lasciato un segno determinante. Nei mesi seguenti, il veto di Kissinger nei confronti di qualunque iniziativa autonoma della Comunità Europea in relazione alla crisi mediorientale stabilì limiti che Brandt non avrebbe potuto oltrepassare senza precipitare una crisi nella coalizione e nel suo stesso partito, che di fatto era già aperta, e che i cattivi risultati della SPD nelle elezioni comunali, specialmente ad Amburgo all’inizio di marzo, resero quasi acuta.

Un duro intervento di Schmidt entro la Direzione della SPD, l’8 marzo, tracciò i confini: la Repubblica federale era certamente uno dei protagonisti dell’economia mondiale, ma ciò doveva semplicemente ricordare quanto essa ne dipendeva: “molto più di quanto un’assemblea di delegati socialdemocratici possa esserne cosciente”. L’oggetto della polemica, naturalmente, era costituito dalle elaborazioni circa un “nuovo ordine economico mondiale” in cui i giovani socialisti e la sinistra del partito allora si impegnavano; specificamente, forse, poteva già essere anche una risposta agli interrogativi di quanti, tra i membri del partito che avevano connessioni e competenze specifiche, stavano constatando come i loro sforzi per ottenere greggio a buon mercato non erano minimamente apprezzati negli ambienti dell’industria petrolifera.

Quando dunque, nel maggio seguente, uno dei più stretti collaboratori di Brandt fu improvvisamente denunciato come una spia di Berlino-Est, il caso non poteva apparire privo di oggettivo significato. Senza entrare qui in un’indagine dettagliata dei molti elementi ambigui della vicenda (cominciando dal ruolo del ministro degli Interni Genscher, appartenente alla corrente degli scettici circa la Ostpolitik e rivale di Scheel nella guida del partito liberale), si può comunque constatare che il suo effetto fu quello di una svolta in senso accentuatamente conservatore. I principali beneficiari, non solo nell’immediato ma anche a lungo termine, furono i conservatori in campo occidentale, anche se il ruolo di Berlino-Est e delle sue lobby (a Mosca e forse anche a Bonn) fu diretto e decisivo.


8. Distensione conservatrice, movimento senza distensione, o distensione con movimento?

Nel 1976, Milovan Djilas definì sprezzantemente la distensione come “un’espressione mal definita che sta in luogo di “normalizzazione””, e che non sarebbe apparsa nel vocabolario “se l’Europa non fosse stata forzatamente divisa e se in Europa Orientale vi fossero Stati normali, cioè legalmente fondati”. Questa definizione si adatta abbastanza alla visione della distensione in Europa preferita e promossa dai conservatori alla guida di entrambe le superpotenze. Non si adatta, invece, alla visione che ne ebbero le élites politiche dell’Europa occidentale più coinvolte nel processo.

Quanto ai primi, è possibile riconoscere un’area di concordanza abbastanza estesa tra i loro criteri e le loro preferenze, in entrambi i blocchi, almeno fino al 1975. Successivamente, le divergenze crebbero, senza tuttavia sopprimere del tutto un livello immediato di interessi comuni. L’immobilità ideologica del movimento comunista, anche e soprattutto in Occidente, era una netta preferenza dei conservatori in entrambi i campi, anche se con motivazioni in parte diverse, e malgrado i fastidi immediati (ma superabili) che ciò poteva implicare per i conservatori in campo occidentale, come nel caso del Portogallo dopo la “rivoluzione dei garofani” dell’aprile del 1974.

Quanto alle seconde, queste furono soprattutto le correnti della socialdemocrazia tedesca e del socialismo europeo rappresentate da Brandt, una parte del mondo cattolico che a diversi livelli sviluppava il metodo di lettura della storia proposto da Papa Roncalli attraverso la distinzione tra “errore” ed “errante”, e il gruppo dirigente del partito comunista italiano guidato da Enrico Berlinguer. Dopo il 1974, in diverse fasi, esse non furono all’opposizione ma nemmeno al governo. Nel suo ruolo di presidente della SPD e poi anche dell’Internazionale socialista, Brandt promosse e coordinò attività di pressione, nel campo delle idee e dei movimenti della società civile, di cui il governo federale guidato da Helmut Schmidt e da Dietrich Genscher prendeva atto quasi sempre con cortesia, proseguendo poi sempre per la sua strada.

Il ruolo di Berlinguer nella fase dei governi di solidarietà nazionale in Italia dopo il giugno del 1976 (di cui molti aspetti, a cominciare dalla politica estera, erano stati anticipati da ampie maggioranze parlamentari su singoli punti già l’anno precedente) presentò qualche analogia con quella situazione, non soltanto in ragione della collocazione formale del PCI nell’appoggiare governi che non comprendevano suoi ministri, ma anche in un dibattito politico-culturale interno al partito stesso che rifletteva tendenze generali della sinistra europea: specificamente, una certa contrapposizione tra realismo pragmatico e attenzione critica alle ragioni dell’utopia sociale.

Questo secondo indirizzo poteva riconoscersi nel giudizio sul disordine economico mondiale di quel periodo che il leader socialdemocratico e Primo ministro svedese Olof Palme aveva dato fin dal settembre del 1971 (immediatamente dopo la crisi del dollaro) come della “crisi del moderno Stato industriale”, facendo quindi delle “austere” necessità della stretta economica un’“occasione”, (come Berlinguer formulò nel 1974) per profonde modificazioni sistemiche. Lo stesso tema dell’“austerità”, con le connesse polemiche, non era un’esclusiva specificità italiana: nel dicembre del 1976, sulla Zeit, il dibattito interno della SPD era descritto come tra due anime, quella “riformista ma antiutopista, insensibile a filosofie ascetiche” e quella che, essendo evidentemente sospettata di coltivare filosofie di tal genere, tendeva a prendere posizione per “mutamenti di sistema”.

I temi caratterizzanti e specifici di tali ipotesi di mutamento sistemico entro la sinistra dell’Europa occidentale, dopo il 1974, furono essenzialmente due: da un lato, cioè, la risposta al problema del “riciclaggio” della rendita energetica in funzione delle necessità dei paesi in via di sviluppo non petroliferi piuttosto che della grande finanza (o dell’industria degli armamenti); dall’altro, l’idea di rispondere alla crisi dello Stato industriale - determinata dalla rottura dei margini di composizione del conflitto redistributivo e dalla conseguente crisi fiscale, così come dall’incipiente scarsità delle fonti energetiche - attraverso l’incentivazione di nuovi modelli di consumo nel quadro di una maggiore autonomia della domanda rispetto all’offerta.

Come fu illustrato specialmente dalle aspre, sommarie e spesso acide polemiche suscitate in Italia dalla proposta dell’“austerità” (dopo l’appello di Berlinguer agli intellettuali nel convegno dell’Eliseo del 1977, e il loro prevalente rifiuto), questa ipotesi risultò minoritaria nei confronti di un duplice conservatorismo: uno di ispirazione scettico-individualista (entro e fuori i partiti della sinistra europea), e uno di ispirazione rivoluzionario-dogmatica, che talvolta si trovavano a condividere singoli argomenti.

L’ideologia ufficiale sponsorizzata da Mosca giocò a favore di questo secondo tipo di conservatorismo, anche se molte delle sue frange in Occidente non erano certo amichevoli nei suoi confronti. In effetti, la situazione mondiale nella seconda metà degli anni settanta fu caratterizzata in modo essenziale da una inusitata ripresa del tema della rivoluzione mondiale, dogmaticamente definita in base alle “leggi di sviluppo del socialismo” estrapolate dalla vicenda sovietica, come esplicita motivazione della politica estera di Mosca da parte del PCUS.

L’espansionismo geopolitico e ideologico dell’Unione Sovietica nel Terzo Mondo a partire dal 1975 costituisce tuttora un problema di difficile interpretazione, ma certamente rappresenta un picco senza precedenti nella manifestazione di fiducia in sé del sistema sovietico quanto alla propria esportabilità (quale che fosse il grado di condivisione di tali valutazioni, promosse soprattutto entro il dipartimento internazionale del PCUS, nei ranghi dell’élite dirigente). In alternativa alle ipotesi di nuova interdipendenza come risposta alla crisi economica mondiale, proposte dalla sinistra dell’Europa occidentale, questo orientamento consisteva non solo nel rafforzamento del modello stalinista di autarchia economica, ma addirittura nella sua esportazione verso il Terzo Mondo (per dire meglio, nell’abbandono di una tradizionale e ben motivata prudenza nei confronti di élites rivoluzionarie straniere che erano ansiose di importarlo).

Come già negli anni trenta, si cercò anche di giustificare questa scelta con i pericoli di guerra mondiale associati con una crisi economica di tale portata. Ma le convinzioni di alcuni ideologi non sarebbero state forse altrettanto efficaci se le conseguenze che ne derivavano fossero state meno appropriate agli interessi dell’apparato militare-industriale (in stretta associazione con la lobby tedesco-orientale). Ne derivò l’inclinazione a sollecitare e ad accettare dall’Occidente flussi finanziari piuttosto che merceologici, dal momento che questi secondi sarebbero stati concorrenziali rispetto allo sviluppo delle capacità domestiche, mentre era logicamente possibile illudersi di esercitare politicamente una qualche forma di “potere del debitore” (anche se l’esempio della Germania nazionalsocialista, se attentamente considerato, avrebbe dovuto almeno mettere in guardia).

Se da un lato questo creava i presupposti per la miscela di obsoleto industrialismo e di indebitamento che doveva risultare mortale per l’intero sistema sovietico nella seconda metà degli anni ottanta, nell’immediato questo determinava anche una convergenza di interessi tra i ceti dirigenti dell’Occidente, in corso di accentuata finanziarizzazione, e i gruppi di potere dominanti entro i regimi dell’Est, la cui stabilità diventava sinonimo di solvibilità.

L’atteggiamento di chiusura del governo di Bonn nei confronti della partecipazione del PCI al governo di Roma aveva quindi motivazioni più complesse rispetto agli stessi problemi di sicurezza atlantica che costituivano l’argomento prevalente e più noto. La posizione di Brandt era, naturalmente, diversa. Tuttavia, le conseguenze negative di un’aperta sconfessione del “governo amico”, su questo come su altri temi, sarebbero state superiori a qualunque altro possibile risultato. Per quanto Brandt si mostrasse quasi ansioso di stabilire un contatto con il vertice del PCI, una grande cautela caratterizzava i comportamenti di entrambe le parti. La comunità giornalistica e intellettuale tedesca a Roma aveva tentato di svolgere funzioni di tramite in svariate occasioni.

La scrittrice Louise Rinser, che aveva militato nella resistenza cattolica e aveva conosciuto le prigioni hitleriane, godendo della fiducia e della confidenza di Brandt, poté riferirgli nell’ottobre del 1976 di un incontro con il “braccio destro” dell’“uomo importante” (verosimilmente,Tatò), da cui aveva avuto informazioni “scarse” e “caute, specialmente quanto all’appartenenza al grande blocco, anche finanziaria”. Questo non suscitava stupore: Rinser, che aveva appena scritto un libro-inchiesta sulle attività della setta di Moon in Corea del Sud, aveva una forte sensibilità per i tranelli della politica sommersa, almeno quanto lo stesso Brandt poteva averne per diretta esperienza: riferire di persona sarebbe stato possibile sempre tenendo conto della CIA, che aveva “qualcosa a che fare con il governo tedesco”.

Vi è un tenue indizio che possa esservi stato un breve contatto personale tra i due leader (forse, cioè, in margine a una riunione romana del Bureau dell’Internazionale socialista ai primi di giugno del 1977). Se mai ciò accadde, ciò che colpisce non è tanto la semi-clandestinità quanto l’assenza di effetti pratici, o meglio (forse) il nesso tra le due cose. La prudenza era un tema chiave. L’atmosfera del dialogo politico tra le grandi culture storiche della democrazia europea, che stava dando luogo alle complesse tessiture delle maggioranze parlamentari italiane di “solidarietà nazionale” così come a tentativi di aggregazione tra “eurocomunismo” ed “eurosinistra”, era un’atmosfera densa , attraversata da nubi di sospetto e da insidie sottili ma non leggere, che rispondevano ai movimenti di un gigantesco braccio di ferro planetario.

Verso la metà del 1977, in effetti, il destino della distensione planetaria (e, di conseguenza, anche della distensione europea) si trovò a un bivio cruciale. Tra la distensione conservatrice concepita da Kissinger e la distensione come fattore di movimento e di evoluzione dei sistemi sociali e politici stabiliti (secondo la visione di Brandt, di Berlinguer, e di altri), una terza linea si stava profilando innanzitutto negli Stati Uniti attraverso i complessi e non ancora risolti equilibri della nuova amministrazione democratica guidata da James E. Carter. Si trattava della scelta di promuovere un “nuovo ordine mondiale” facendo a meno della distensione, cioè contestando innanzitutto, e radicalmente, la legittimità del rango tenuto dall’Unione Sovietica come co-garante delle basi elementari del sistema internazionale.

9. Riflessi europei della fine della distensione globale

Il più deciso promotore di questo programma era allora il consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski, che contendeva con crescente successo al segretario di Stato Cyrus Vance la guida effettiva della politica estera di Washington. Di conseguenza, gli apparati di sicurezza e di intelligence degli Stati Uniti all’estero, che ancora assicuravano al NSC e al suo capo l’influenza determinante già guadagnata negli anni di Kissinger, avevano istruzione di opporsi ai processi politici favorevoli alla distensione in Europa occidentale con determinazione, continuità, e potenziale efficacia, al di là di qualunque oscillazione delle posizioni pubbliche dell’amministrazione Carter su temi allora molto dibattuti come l’eventualità della partecipazione dei comunisti italiani al governo di Roma.

La soluzione del contrasto di strategie entro l’amministrazione Carter ebbe luogo ai primi di ottobre del 1977, quando la politica di Washington verso il conflitto mediorientale la cui regolazione costituiva ormai una chiave di volta di ogni possibile equilibrio del sistema internazionale effettuò repentinamente una doppia svolta di centottanta gradi. Nel giro di pochi giorni, i dirigenti sovietici vennero a sapere che l’accordo concluso il 1° ottobre 1977 dal loro ministro degli Esteri, Andrej Gromyko, e dal segretario di Stato americano Vance, sui termini e sui modi di una soluzione di pace per il conflitto arabo-ebraico, non aveva più alcun valore. Come già quattro anni prima, lo scacco bruciante di un tentativo anche costoso di sviluppare una politica di cooperazione circa uno dei principali focolai di instabilità della situazione mondiale rafforzò ulteriormente a Mosca le convinzioni secondo cui una politica di dura competizione fosse innanzitutto più realistica. Malgrado alcuni ulteriori conati, le sorti della distensione globale erano ormai segnate.

Poteva la distensione continuare a svilupparsi nel suo specifico contesto europeo? Le difficoltà erano quasi insormontabili, e non stupisce che non furono sormontate. Per quanto riguarda in particolare la politica sovietica, i contributi furono tutt’altro che positivi. Il riarmo nucleare “di teatro” intrapreso allora dall’URSS poteva essere interpretato anche come una pressione tendente a dissociare gli europei occidentali dalle posizioni dell’alleato maggiore nell’ipotesi di una prova di forza a livello globale; e questa manovra, come è noto, fu anche e innanzitutto controproducente.

Gli internazionalisti, da entrambe le parti, continuarono vanamente a nutrire qualche speranza di rovesciare la tendenza duramente unilateralista che ormai dominava lo sviluppo delle relazioni internazionali sul piano globale. Per quanto riguarda i processi decisionali sovietici, le memorie di Falin sono molto interessanti da questo punto di vista, anche per il loro tentativo di assolvere un Breznev descritto come ammalato, stanco, e sostanzialmente emarginato, ostaggio di quegli oltranzisti che già lo avevano accusato, a porte chiuse, di “alto tradimento” dopo il vertice di Vladivostok, e poco prima del grave attacco che doveva minare la sua salute. Sempre secondo Falin, la visita di Breznev a Bonn nel maggio del 1978 fu un’ultima occasione mancata di correggere questa impostazione.

Su quel maggio del 1978 bisogna forse davvero fermarsi. Le posizioni intermedie rispetto al nuovo contrasto globale, che potevano svilupparsi a partire da tutto quanto di nuovo era stato espresso dalla politica europea negli anni precedenti, erano ormai oggetto di decise manovre di interdizione. L’oscuro assassinio di uno dei maggiori dirigenti politici italiani, proprio in quel mese di quell’anno, appare difficilmente comprensibile fino in fondo se non anche dentro tale contesto.


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