La verità è l’invenzione di un
bugiardo
Francesco Roat
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Heinz von Förster - Bernhard Pörksen, La verità è l’invenzione
di un bugiardo, Meltemi, pp.162, L.28.000
Il fondamentalismo non è solo di matrice islamica o comunque
religiosa. Se infatti, nell’accezione più ampia del termine, tale
Weltanschaung, tale visione del mondo si basa sull’assunto
che possa esistere un qualche fondamento certo, principio assoluto o
verità inoppugnabile su cui fondare, appunto, le nostre
convinzioni, allora ogni paradigma scientifico, ogni ideologia, ogni
sistema teorico o cognitivo che preveda certezze incontrovertibili
può essere a buona ragione tacciato di fondamentalismo.
Ormai però, da quell’epocale mutamento di prospettiva filosofica
costituito dalla cosiddetta “svolta linguistica” - che la
speculazione del nostro secolo ha effettuato a partire da
Wittgenstein e Heidegger - non mi sembra si possa più esimersi dal
prendere atto della contestualità in quanto dimensione
imprescindibile entro cui si delinea ogni nostro enunciato teorico,
il quale possiede una sua verità o, in altri termini, ha
significato solo all’interno di schemi concettuali impliciti e
condivisi.

Così per evitare ogni equivoco e ogni tentazione dogmatica forse
bisognerebbe bandire per sempre la parola verità da ogni nostro
discorso - come polemicamente suggerisce Heinz von Förster nel suo
libro/intervista a cura di Bernhard Pörksen -, in quanto essa “ha
conseguenze catastrofiche”. Tale concetto, sostiene ancora lo
studioso austriaco, significa in pratica una sola cosa: conflitto;
si pensi alle crociate, all’Inquisizione o alle infinite guerre di
religione che non hanno ancora terminato di devastare il mondo.
Come se non bastasse la nefasta intolleranza basata sulla
presunzione di incarnare il Bene piuttosto del Male o di avere la
ragione dalla propria parte (e magari persino Dio; non dimentichiamo
che la scritta Gott mit uns, Dio è con noi, era incisa sui
cinturoni dei soldati nazisti del Terzo Reich); come se non bastasse
la protervia di chi, parlando a nome della verità, fa dell’altro
un bugiardo e un nemico per consigliare l’umanità a vaccinarsi
una volta per tutte contro questo deleterio morbo culturale.
Oggettività, veridicità: parole d’ordine il cui utilizzo,
secondo von Förster, finisce puntualmente per disturbare il
rapporto fra culture diverse generando “un clima nel quale gli
altri vengono persuasi, convertiti e costretti”. Categorie o
gabbie speculative con cui da sempre i filosofi si sono illusi di
intrappolare chimere di supposti principi ultimi della validità
universale. Paroloni ai quali aggrapparsi per esorcizzare la
vertigine epistemologica che ci può cogliere quando sembra che -
senza fondamentalismi fideistici, laici o meno che siano - il
terreno si possa spalancare sotto i nostri piedi per mancanza di
ancoraggi definitivi, postulati a priori o valori stabili.
Ma attenzione: rigettare qualsivoglia verità assoluta che obblighi
la gente a vedere (e ad agire) in un determinato modo e non
altrimenti, non significa optare per un nichilismo decadente o per
un relativismo morale incline a giustificare ogni comportamento.
Anzi. L’etica più umana forse è giusto quella che non ha bisogno
di appellarsi ad altro se non alle proprie regole: frutto d’una
libera scelta condivisa di valori magari non assoluti o divini ma
accettati da tutti, sia pure non in modo statico e astoricamente
definitivo, sebbene da vagliare continuamente, da ri-vedere anche in
maniera radicale, se occorre. Come in concreto accade alle leggi
umane: ad esempio a quelle della giurisprudenza o della scienza, i
cui statuti sempre sono mutati e sempre muteranno col variare del
contesto storico.

Tornando a von Förster, a mio avviso, dice bene questo
intellettuale anticonformista quando - riferendosi all’ingannevole
fascino suasivo di parole altisonanti quali vero, reale,
ontologico - egli afferma che “Il richiamo all’oggettività
è il rifiuto della responsabilità”, ed inoltre rappresenta un
modo per prendere le distanze dal mondo. In quanto tali concetti
vengono anche utilizzati per giustificare una sorta d’indifferenza
verso quanto si ritiene inevitabile; giacché se concepiamo la
cosiddetta realtà all’insegna di un esistere contrassegnato da
canoni rigidi e atemporali, l’uomo non ha bisogno di sentirsi
direttamente responsabile, relegandosi entro una asettica
speculazione da “filosofia del buco della serratura”.
Del tutto altra la condizione di un soggetto partecipe e
compassionevole, il quale ritenga se stesso parte del mondo e non
mero osservatore/testimone; considerandosi piuttosto responsabile di
ogni cambiamento, piccolo o grande esso sia, che le sue azioni
vengono ad operare nei confronti del cosiddetto altro da sé: l’ambiente,
la natura, ogni forma vivente.
E’ la visione sistemica, cara a Gregory Bateson (ma uso un termine
che a von Förster non piacerebbe, essendo egli allergico a ogni
incasellamento riduttivo), che non vede il mondo come una terra da
sfruttare e conquistare, ma come una specie di organo al quale tutti
gli esseri contribuiscono. Secondo tale ottica, l’assenza di
verità ultime non appare più come un male, quanto una forma di
libertà. Un rovesciamento di prospettiva che alle pretese di
ancoramento ci faccia preferire i rischi di un’avventura
esistenziale senza il bisogno (o il miraggio) di mete, fini e
approdi prestabiliti.
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