Antropologia e filosofia
Barbara Iannarella
Articoli collegati:
Giornali in guerra: un
dibattito in corso
Gli altri siamo noi
Storia, concetti e definizioni
Il test del bravo filosofo
relativista
Nulla è vero in assoluto
La verità è l’invenzione di
un bugiardo
Antropologia e filosofia
Clifford Geertz, Antropologia e Filosofia, Il Mulino, 230 pp
Il titolo di questo libro potrebbe far pensare ad un trattato o ad
un saggio su due categorie di pensiero nettamente distinte l’una
dall’altra, l’antropologia e la filosofia, se non fosse per
quella piccola congiunzione che le unisce. Clifford Geertz, uno dei
più noti antropologi e studiosi contemporanei, partendo dal suo
percorso personale che lo ha portato inizialmente dalla filosofia
all’antropologia, riesce a scivolare da un “campo”all’altro
delle due scienze umane in questione, trattando con uno stile
brillante, che va dal biografico al saggistico, temi filosofici in
chiave antropologica e viceversa.
Uno più di tutti risulta essere il tema fondante all’interno del
libro, ed è quello sul quale ci vogliamo soffermare, vista la
sconcertante attualità che lo ha riproposto ultimamente: il
relativismo culturale, o meglio la paura di esso. Come il titolo del
capitolo di Antropologia e Filosofia “Contro l’antirelativismo”
vuole suggerire, Geertz intende criticare la concezione stessa di
antirelativismo, più che difendere il relativismo in sé.
Quello che Geertz vuole fare è sgombrare il campo, cioè, dalle
accezioni totalmente negative (soggettivismo, nichilismo,
incoerenza, idiozia etica, eccetera) che il termine “relativo”
ha assunto negli ultimi anni, senza sposare una particolare
posizione, ma cercando di capire meglio ciò che viene criticato.
Per usare una metafora dell’autore, “Esorcizzare i demoni è una
prassi che dovremmo praticare quanto il loro studio”.

Un compito necessario per la centralità del pensiero relativista
all’interno degli studi antropologici, soprattutto di ciò che
viene definita antropologia culturale, ma non certo facile, visto
che “le definizioni comuni di relativismo…sono inquadrate dai
suoi avversari …e sono definizioni assolutiste”.
La domanda è : perché abbiamo paura del relativismo culturale?
Dobbiamo averne paura, come di un’ eresia o di uno spauracchio,
come la causa di ogni male del nostro secolo? L’ansia
antirelativista ci ha cullato nell’idea di un universalismo
illusorio e non auspicabile, di un cosmopolitismo tollerante, dove
ogni diversità e specificità culturale veniva annullata, facendoci
cadere in una sorta di entropia morale.
Ma non è il distacco relativista, l’imperméabilité delle
identità, lo “sguardo da lontano” che Lévi-Strauss
raccomandava trent’anni fa, l’alternativa univoca e possibile a
questo genere di entropia. Il mondo è cambiato, oggi più di ieri,
gli uomini, pigiati gli uni contro gli altri, hanno visto
frantumarsi - i fatti di attualità ai quali abbiamo assistito di
recente ne hanno dato conferma - gli ideali di fraternità e di
uguaglianza e di pacifica convivenza tra i popoli.
“C’è la crescita della consapevolezza -afferma Geertz (e in
questo è d’accordo con la tesi di Lévi Strauss)- che il consenso
universale (transnazionale, transculturale, persino al di là delle
varie classi sociali) su questioni normative non sia proprio dietro
l’angolo.” La consapevolezza che il mondo con il quale ci
dobbiamo confrontare assomiglia sempre più ad un enorme collage,
in cui i bordi sociali non sono più netti e precisi, ma deviano in
sfumature, difficili da localizzare e identificare.
Come antropologo e, in quanto tale, difensore della diversità
culturale, Geertz suggerisce di non chiuderci nella sordità e
cecità comunicativa dei giudizi assoluti: se vogliamo giudicare con
larghezza di vedute, dobbiamo conquistare una visione ampia delle
cose.
Clifford Geertz auspica un nuovo uso del concetto di relativismo
culturale come conoscenza e comprensione e lealtà prima di tutto
verso noi stessi, la nostra società, per conoscere e comprendere e
riuscire a convivere con le diversità, con l’Altro, cercando di
trovare un’altra via d’uscita agli estremi a cui si è arrivati:
o l’applicazione della forza per stabilire i valori di una
società dominante, o una vuota tolleranza che nulla cambia, oppure
(l’opzione peggiore) la totale elusione del problema.
Gli usi della diversità e del suo studio servono proprio a capire
ciò che ci sta di fronte, a darci una collocazione in questo collage,
o mondo globalizzato, senza annullare le nostre identità, nel
rispetto delle identità altrui. Questa è la sfida più difficile
da affrontare per l’uomo del nuovo millennio. Soprattutto quando
ogni nostra singola certezza può essere spazzata via da un momento
all’altro, pronta a rivelare tutta la sua interna fragilità,
sotto una coltre pesante di apparente sicurezza.
Geertz sembra scuoterci dalle nostre certezze quando dice che tutto
quello che abbiamo già visto, i brillanti esempi storici delle
nostre nazioni, delle chiese e dei nostri movimenti non può essere
sufficiente, che le vecchie lenti attraverso le quali guardavamo gli
altri e gli altri guardavano noi non bastano più.
“Bisogna creare di nuovo l’attrito, per muoversi e camminare e
non rimanere immobilizzati su di una lastra di ghiaccio”, dice
Geertz nella prefazione del libro, citando quello che lui definisce
uno dei suoi maestri, il filosofo Wittgenstein. O almeno iniziare a
girovagare.
Articoli collegati:
Giornali in guerra: un
dibattito in corso
Gli altri siamo noi
Storia, concetti e definizioni
Il test del bravo filosofo
relativista
Nulla è vero in assoluto
La verità è l’invenzione di
un bugiardo
Antropologia e filosofia
Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti da
fare? Scriveteci il vostro punto di vista cliccando qui
Archivio
Attualita' |