Storia, concetti e
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Francesca Marchi
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Il relativismo culturale è stato variabilmente una
concezione etica, un metodo di ricerca e una visione della
disciplina antropologica. Si è sviluppato negli Stati Uniti negli
anni 1920-1940, in piena epoca nazista, in opposizione all'approccio
evoluzionista che postulava delle tappe evolutive universali (dallo
stato selvaggio alla civilizzazione) con le quali realizzare una
gerarchia tra differenti culture e società.
I primi esponenti del relativismo culturale, nella prima metà
del XX secolo, furono Franz Boas, Ruth Benedict, Margaret Mead e
Melville Herskovitz. Si opposero alle nozioni di progresso e di
superiorità/inferiorità tra le culture, sostenendo che ogni
specifica cultura o società possedeva una propria razionalità e
coerenza interne a partire dalle quali si dovevano interpretare le
credenze e le visioni del mondo dei suoi appartenenti. L'antropologo
doveva riportare le visioni del mondo enunciate dai suoi
interlocutori. Se dal punto di vista etico questo approccio
restituiva pari dignità e rispetto ad ogni cultura, dal punto di
vista metodologico poneva diversi problemi.

Da un punto di vista teorico, Ruth Benedict in Modelli di cultura
(1934) teorizzava la priorità e la pre-determinazione della
cultura sulla personalità individuale, che diventava
l'interiorizzazione e la manifestazione di una cultura causalmente
antecedente e indipendente. Questa concezione portava a ritenere che
mentre la cultura produceva gli individui, questi non producevano
cultura. La cultura aveva una vita in sé, indipendentemente dai
suoi portatori e dalle mutevoli condizioni sociali ed economiche,
risultava perciò astorica, statica, chiusa. Inoltre non si
mettevano in evidenza le pur sostanziali differenze nelle concezioni
e nei valori tra individui appartenenti ad una stessa società,
così come gli importanti fattori di trasformazione, appropriazione,
fusione tanto interni ad ogni singola cultura, che insiti
nellíinterazione tra diverse culture e società.
Da un punto di vista metodologico, invece, si poneva tanto il
problema della legittimità della comparazione tra culture
differenti quanto quello della possibilità di analisi di una
cultura altra, da parte degli antropologi. Questi si trovavano privi
di una base teorica - per il relativismo negativamente etnocentrica
- su cui elaborare tanto le proprie analisi sulla singola società,
che le comparazioni con altre società - elementi entrambi
costitutivi della disciplina -. Inoltre l'analisi legittima si
trovava circoscritta al discorso ufficiale e alla rappresentazione
di sé promossi dagli attori locali in conseguenza
dell'irriducibilità del pensiero altro nelle nostre categorie. In
questa fase, il relativismo, in quanto metodo, più che diminuire la
distanza sociale tra l'osservatore e la cultura studiata di fatto la
accrebbe, trasformando una "estranea familiarità" in
irriducibile alterità.

Le forme prevalenti che il relativismo contemporaneo ha assunto sono
interne all'antropologia simbolica (Douglas), all'antropologia
interpretativa (Geertz) e a quella detta post-moderna (Marcus-Fischer
e Clifford - Marcus). Per Clifford Geertz, l'antropologia è una
disciplina interpretativa in cui gli etnografi compiono una
traduzione del punto di vista nativo in quello accademico. La
cultura è definita come testo che deve essere interpretato e
"tradotto" dall'antropologo esclusivamente attraverso gli
occhi e le voci degli attori sociali. Ogni interpretazione deve
essere compiuta dall'interno dell'autorità del sistema. Non si
tratta più, dunque, di riferire il punto di vista nativo, come per
i primi teorici del relativismo, ma di interpretarlo, traducendolo
in funzione delle concezioni locali e sulla base di una
"descrizione densa" delle pratiche che incorpori
l'universale nel particolare. Il metodo comparativo da lui proposto
si fonda sulla ricerca di rapporti sistematici tra i fenomeni
diversi più che sulla ricerca di identità sostanziali e di
principi generali tra quelli simili.

Più recentemente, l'antropologia "postmoderna" ha
compiuto a sua volta una messa in discussione dell'oggettività
dello sguardo antropologico e della neutralità dell'interpretazione
e della traduzione, dislocando, in un certo senso, il relativismo
all'interno delle pratiche stesse della disciplina. Il prodotto
antropologico non è più la descrizione scientifica della cultura e
della società studiate dall'antropologo, ma il risultato di una
"negoziazione di significati" che si svolge nelle mutevoli
contingenze del lavoro sul campo, tra la personalità, il bagaglio
culturale e i ruoli assunti dall'antropologo e le diverse
personalità e bagagli e ruoli degli interlocutori con cui egli
entra in relazione.
I classici del relativismo culturale
- Benedict Ruth, Modelli di cultura (1934), Milano,
Feltrinelli, 1960.
- Boas Franz, I limiti del metodo comparativo in antropologia (1896),
in Bonin, Marazzi (eds), 1970.
- Clifford J. - Marcus G., Scrivere le culture (1986), Roma,
Meltemi, 1997.
- Douglas Mary, Antropologia e simbolismo (1975, 1982),
Bologna, Il Mulino, 1985.
- Geertz Clifford, Interpretazione di culture (1973),
Bologna, Il Mulino, 1987.
- Marcus G. - Fischer M., Antropologia come critica culturale (1986),
Milano, Anabasi, 1994.
- Mead Margaret, Sesso e temperamento in tre società primitive (1950),
Milano, Il Saggiatore, 1967.
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