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David Bidussa
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Con l’11 settembre sono tornate alla ribalta domande che avevamo
pensato accantonate e risolte da tempo. Per certi aspetti, invece,
più realisticamente esse erano entrate solo in letargo e si
trattava di fornire l’occasione pubblica per poterle scongelare e
presentarle come originali e urgenti. In breve “nuove” (un
aggettivo che ha sempre un suo fascino).
Lo scontro di civiltà e più generalmente l’idea stessa di
civiltà come complesso organico compiuto, esauribile in sé,
autoriferito, è tornata prepotentemente alla ribalta. Parafrasando
il vecchio Marx, lo spettro del conflitto di civiltà si aggira per
l’Europa, vende alla grande e sembra, per di più, un’idea
originale.
Ma davvero noi, tutti noi, siamo il prodotto di una realtà
autoriferita? E che cosa nasconde l’idea di un Islam in sé
antioccidentale con cui lo scontro è frontale e irriducibile?

Almeno da 13 secoli l’Europa si racconta rispetto all’Islam come
civiltà alternativa (lo stesso si potrebbe dire al contrario dell’Islam
rispetto all’Europa) e tra Poitiers e Lepanto si è giocata una
partita in cui le identità territoriali e culturali tanto dell’Europa
come del mondo islamico si sono strutturate come profilo negativo
speculare.
Eppure questo dibattito e questa questione che ha avuto in Italia
toni accesi e forti tinte polemiche nasconde altro, è portatore con
sé di domande profonde, che non riguardano in prima battuta la
questione della civiltà e del confronto con l’Islam. Riguarda,
invece, l’idea di società e di storia che in Italia un segmento
rilevante, non so quanto maggioritario certamente consistente ha
della storia, del proprio passato e della propria immagine, in
relazione a come percepisce il proprio presente e, soprattutto, a
come si auspica, il proprio futuro. Come vedremo tutto ciò non
rinvia a uno scenario tranquillizzante.
E’ allora legittimo domandarsi: la storia e più estesamente le
forme del vivere civile, sono il risultato e la conseguenza di uno
sviluppo tutto proprio, assolutamente autoriferito o al contrario
tutto questo include un continui rimescolamento di soggetti, attori
culture, lingue? In breve: la storia - ancor più la storia
culturale - di cui siamo eredi è un distillato puro?
Io sono convinto dell’opposto. Di solito, come vedremo in
conclusione, sostenere che la storia sia un distillato puro conduce
a esiti poco auspicabili per chi abbia a cuore le sorti democratiche
della propria società. Il tema è dunque quello del
multiculturalismo, che significa non tanto benevolenza nei confronti
delle culture altre, quanto un senso di limite, di imperfezione del
proprio Io. In breve di cogliere un dato di limitatezza di sé.
“Si può sostenere - ha osservato il filosofo americano Charles
Taylor - che è ragionevole supporre che quelle culture che hanno
dato un orizzonte di significato a un gran numero di esseri umani,
dai caratteri e dai temperamenti più diversi, per un lungo periodo
di tempo - che hanno, in altre parole, dato espressione al loro
senso del buono, del santo, del degno di ammirazione - possiedano
quasi certamente qualcosa che merita da parte nostra ammirazione e
rispetto, anche se è accompagnato da molte cose che dobbiamo
aborrire e respingere. Ma forse possiamo dirlo anche in un altro
modo: ci vuole una suprema arroganza per scartare a priori
questa possibilità.” (Jürgen Habermas - Charles Taylor, Multiculturalismo.
Lotte per il ricoscimento, Feltrinelli, p. 62)
Dietro alla questione della civiltà superiore risiede questa prima
dimensione del problema. Noi siamo un paese ancora incerto - almeno
sottoposto a forte fibrillazione - allorché si tratta di discutere
e praticare una prassi multiculturale.
Sembra prevalere, invece, una domanda di assolutismo culturale o di
autocentrismo secondo un profilo per cui avere una dimensione di
relativismo culturale rispetto alla propria storia e alla propria
tradizione culturale implica svendere la propria identità e di
fatto non possederne una. In questo senso sembra il senso comune
introietti il relativismo culturale come una dimensione in cui si
nega valore alla propria civiltà e si dichiara che i valori in essa
contenuti o contemplati sono interscambiabili, comunque sono
indifferenti. La soluzione - comunque il rimedio sarebbe invece la
riaffermazione di un determinismo culturale.
Al di là di ciò che si può dire in buona maniera, la filosofia
grezza di questo ragionamento conduce con più o meno celerità a
sostenere che l’altro non solo è differente, ma che è inferiore.
Se ciascuna civiltà - considerata in sé come un kit chiuso e
definito - è il prodotto (e per certi aspetti il prigioniero) delle
sue tradizioni uniche, l’unico metro di comparazione con qualcoss’altro
è solo il proprio specifico assunto a unità di misura universale.
Difficilmente in queste condizioni qualcuno sostiene di essre uguale
a qualcun altro.
Non sono un antropologo, ma credo che chiunque abbia un minimo di
dimestichezza con l’antropologia consideri questa tesi alquanto
bizzarra. Almeno a partire da Malinowski, per non parlare di Mauss,
Lévi-Strauss fino a Clifford Geertz e James Clifford, l’idea di
una civiltà pura, non ibridata da contaminazioni e da mescolamenti,
appartiene più alla fantastoria che non alla storia reale. Per
certi aspetti è propria di una versione etnicistica e razzizzata
della storia.

In ogni caso al di là del fascino che ciascuno può avere per le
tesi del conflitto di civiltà sollevate da Samuel Huntington, lo
stesso concetto di civiltà come dato in sé, come prodotto interno
a un gruppo dato e costruito a tutto tondo è improprio.
Vale per il concetto di civiltà quanto vale per l’idea di
eguaglianza. Ovvero il fatto che non solo l’uguaglianza, ma anche
l’idea di eguaglianza non sia un dato bensì un risultato, un
lungo lavoro su noi stessi per sostenere l’eguaglianza fra gli
esseri che come passeggeri temporanei si trovano a vivere su questo
pianeta, e soprattutto a provare a coabitare. In merito al concetto
di civiltà o alla sfera di civiltà di cui noi siamo espressione o
al cui interno siamo inclusi, non sarebbe disdicevole compiere uno
sforzo e cercare di ricordare a noi stessi che noi non siano solo il
frutto di una storia che ereditiamo, ma che questa storia, per
nostra fortuna, è un ibrido.
Come scrive Salvatore Veca cui si deve se una forma di pensiero
liberale ha finalmente assunto una sua cittadinanza culturale in
questo paese “Noi siamo fatti di cose in prestito. Lo siamo anche
culturalmente, Animali intrinsecamente insaturi, incompleti e
contingenti, ci siamo foggiati protesi nelle culture in cui ci è
accaduto di avere una vita da vivere e un’identità, distinta da
altre da ricevere, ereditare o inventare, modellare e costruire.
Anche in questo senso, possiamo riconoscere in modo perspicuo
insieme alla nostra contingenza, il nostro essere intrinsecamente
debitori ed eredi. Nello stesso senso in cui siamo fatti di cose
prese in prestito, fisicamente e culturalmente, noi possiamo
facilmente riconoscere di essere tutti immigranti nel mondo
del pensiero”. (La penultima parola e altri enigmi. Questioni
di filosofia, Laterza, pp. 11-12)
E tuttavia, replicare solo con la citazione giusta e pregnante
sarebbe sbagliato. Perché chi sostiene la tesi del conflitto di
civiltà è l’espressione di uno stato d’animo e dunque con
quello stato d’animo si tratterà di confrontarsi. Uno stato d’animo
che è trasversale sull’asse destra/sinistra nel mercato politico
di questo paese.
Insomma dietro e dentro quel ragionamento c’è anche un pezzo non
irrilevante di molti settori della sinistra presenti nel mercato
delle idee che hanno uno sguardo uguale e contrario. Settori che
hanno uno sguardo accattivante e affascinato dall’idea di esotico
e al tempo stesso, proprio per questo, pensano semplicemente le
altre civiltà come “anticiviltà”, come civiltà verticalmente
alternative.
Non sarà allora improprio provare a riflettere in altro modo,
seguendo alcune ipotesi avanzate da Ernst Gellner in un piccolo
libro prezioso che converrebbe rileggere di questi tempi (Ragione
e religione, il Saggiatore) in cui si affrontano le strette
parentele tra fondamentalismo e relativismo, per molti aspetti gli
elementi costituenti dello scheletro argomerntativo dei sostenitori
del “conflitto di civiltà”.
Secondo Gellner fondamentalismo e relativismo non solo come modi di
essere e di pensare, bensì come modalità dell’agire, in
apparenza speculari, sono in realtà correlati. A suo avviso,
infatti, il fondamentalismo non è decodificabile a partire dal
codice normativo cui dichiara di aderire e dunque non è
analizzabile né come ortodossia corazzata dagli strumenti della
modernità (fede + techné), né come un generico atteggiamento
astorico in cui la teologia detta i codici culturali di riferimento.
Entrambi questi due livelli, secondo Gellner, concorrono a definire
il fondamentalismo, ma constatarne l’operatività al suo interno
non è sufficiente.
Gellner, infatti, colloca il problema del fondamentalismo sul piano
della rivoluzione dei costumi e delle costituzioni materiali delle
società attraversate dal fenomeno fondamentalista (Gellner si
riferisce essenzialmente al mondo islamico). Ossia il fatto che il
fondamentalismo non sia né una rivincita della tradizione contro la
modernità, né il recupero di un codice scritto, ma la decisione di
aderire ad una forma idealizzata di civiltà. Ovvero la
contrapposizione con il moderno non è giocata né su un piano
filosofico, né su quello economico (anche se si danno ricadute su
entrambi i piani), bensì su quello etnico. Si potrebbe osservare
che a monte delle riflessioni di chi sostiene la tesi del “conflitto
di civiltà” sta proprio questo aspetto e che molte delle
argomentazioni avanzate sono semplicemente omologhe a un’ipotesi
di tipo fondamentalista.
Ma nello stesso senso, l’autoreferenzialità che sostiene la
mentalità fondamentalista è rintracciabile anche all’interno
dell’ipotesi relativista, nominalmente disponibile e aperto al
confronto, tanto da non scegliere nessun valore come il proprio, ma
in realtà votata alla retorica di avere “l’ultima parola”.
Ovvero il relativismo culturale come retorica discorsiva attraverso
la quale ritrovare e coltivare il proprio narcisismo e dove dunque
la propria presunta identità pura e non ibridata conferma la
propria superiorità perché capace di contemplare l’ipotesi dell’esistenza
anche di civiltà altre (salvo appunto guardarle come “altre”).
Una dimensione che sembra disegnare la parabola tragicomica di
Robinson Crusoe: un uomo che si crede “cittadino del mondo”,
esterofilo quanto altri mai, attratto da tutto ciò che è esotico e
“altro”, la cui massima aspirazione consiste nell’“invecchiare
a casa propria”.
Crusoe non è solo il ritorno a casa, ma, anche, l’idea che l’incontro
con l’altro è sempre un corpo a corpo da cui si esce o sconfitti
o vincenti e la posta è semplicemente l’inclusione dell’altro
nel proprio sistema o l’ espulsione. Comunque dall’incontro non
si esce né modificati né arricchiti, ma solo confermati o
distrutti, annichiliti. Ovvero: metamorfosi o trasformazioni della
nostra identità non sono previste.

La storia non funziona così. La retorica della storia
funziona così. Ma quando la versione retorica della storia pretende
di spiegare materialmente la storia, di cogliere e descrivere vite
reali trasformando persone in icone o feticci, insomma sagome da
poligoni di tiro, allora vuol dire semplicemente che la tolleranza
è diventata un optional e ormai si viaggia per appartenenze
che la bio-politica, come direbbe Foucault, ha dispiegato le sue
vele al vento e poco importa se essa veste i panni e le insegne del
mito ariano o del mito della classe operaia. Il razzismo infatti, è
ancora Foucault a parlare, si fonda su una teoria della superiorità
di qualcuno su qualcun altro, attraverso l’affermazione della
possibilità, e della legittimità, di esercitare il diritto di
uccidere (Michel Foucault, Bisogna difendere la società,
Feltrinelli, p. 206 e sgg.).
Di solito quand’è così si assumono gli uomini e le donne per
identità fissate senza possibilità mediative, comunque le figure
miste (quali poi tutti noi siamo) non hanno spazio.
Nell’esperienza storica cui si richiama Bin Laden, la conseguenza
è una pratica sterminativa, schiavizzante o servile. Nell’esperienza
storica dell’Occidente la conseguenza non è diversa e
materialmente, in tempi non lontani, è stata quella di strani treni
che si mettono in viaggio “verso Est”. Un Est collocato tra
Boemia e Polonia, ma anche situato dalla parti del Circolo polare
artico. In ogni casi treni che si riempivano di attori culturalmente
dichiarati alieni e “pericolosi” (fossero essi rom, gay,
dissidenti, handicappati, ebrei…). Più recentemente in nome della
buona civiltà anche il machete è sembrato uno strumento utile per
risolvere il problema dello “spazio vitale” minacciato.
E’ questa un’ipotesi azzardata e uno scenario fosco? Forse. Ma
le parole hanno un peso e qui, davvero, hanno una storia. Quando si
parla di scontro di civiltà e si assume che qualcuno sia la quinta
colonna di qualcun altro, e comunque contamini la nostra “buona
vita” e, infine turbi la nostra buona coscienza, insomma che
inquini la nostra esistenza, allora vuol dire che quei treni hanno
ripreso la loro corsa, se non materialmente certo mentalmente e che
nuovi inquilini sono candidati a riempirli. Il resto, ed è ancora
molto, è tutto davanti a noi.
Ma vorrei aggiungere una postilla. Lo scenario che si apre è allora
quello di una possibile deriva verso il totalitarismo. Ma ci sarebbe
anche da discutere se questo non sia, più che la premessa, la
conseguenza di un processo trasformativo che prima ancora di
investire i meccanismi macro della politica ha già ampiamente
attraversato le sfere micro del nostro agire individuale e
collettivo. Fino a che punto le esperienze totalitarie sono il
risultato di una modifica del sistema delle regole e quanto invece,
queste sono la l’espressione di una mentalità modificata?
Forse viviamo in una nuova epoca dove alcuni diritti possono anche
essere dichiarati momentaneamente sospesi, e forse potremmo anche
accondiscendere a questa variazione. Ma non sarebbe improprio
esserne avvertiti. In breve: sapere la partita che si sta giocando.
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