Presidente, "insistisca"!
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Lettera aperta a Il Foglio
Tempi duri per l'Unione Europea: dalle paure sulla mucca pazza a
quelle sul futuro allargamento, dal dibattito sulla Costituzione
europea alle delusioni dopo il vertice di Nizza, gli ultimi mesi non
sono stati che un coro di voci discordi sul futuro dell'istituzione.
Contemporaneamente sembra ridursi il tradizionale divario tra
politiche europee e percezione che ne hanno i cittadini, sempre più
coscienti della portata transnazionale, se non prettamente europea, di
questi problemi.
Interrogato da Caffè Europa Romano Prodi, Presidente della
Commissione Europea e traghettatore in queste acque incerte, chiarisce
il significato della rotta decisa davanti alle maggiori sfide: ne vien
fuori lo schizzo di un progetto europeo da definire per gradi, basato
su un'idea di identità comune inclusiva e pluralista, su una società
aperta che superi divisioni religiose (come mostra l'accettazione
della candidatura della Turchia), ed eviti motivazioni meramente
economiche (vedi il prossimo allargamento ai paesi del centro-est).
Ma l’Unione Europea del futuro, a maggior ragione se allargata,
necessita di una struttura istituzionale più stabile, che garantisca
maggiore trasparenza ed efficacia ai propri cittadini, e di una
maggiore integrazione politica, che rafforzi il metodo comunitario: è
questo il significato del progetto della Commissione sulla governance,
una riforma interna poteri e funzioni delle maggiori istituzioni
europee che produca una nuova forma di governo dell'Europa.
Quello che sembra restare ancora un'incognita è la velocità della
traghettata. Per scoprirlo, ci siamo rivolti al diretto interessato.

Dalla mucca pazza, agli sbarchi dei curdi, fino alla questione
dei passaporti falsi, i cittadini europei sembrano sempre più
coscienti del fatto che problemi come questi possono trovare una
soluzione efficace solo attraverso una strategia e un’azione comune
dell’UE. Possiamo dire che l’identità europea si formi
più facilmente davanti al mal comune?
E’ un dato di fatto che, in un mondo caratterizzato dal
pluralismo e da una sempre maggiore interdipendenza, i problemi ai
quali lei fa riferimento, come la crisi della mucca pazza o le
tensioni connesse con l’immigrazione extraeuropea, non possono
essere affrontati efficacemente a livello nazionale. Questa però non
è una novità: se facciamo un passo indietro e torniamo agli inizi
del processo di integrazione europea, possiamo renderci conto che lo
stesso metodo comunitario si è sviluppato proprio come soluzione
innovativa a problematiche per le quali sia le prospettive nazionali,
sia la semplice cooperazione intergovernativa avevano mostrato i loro
limiti (basti pensare al problema della ricostruzione e del riarmo
tedesco risolti attraverso la creazione della prima vera Comunità
europea, la CECA). Il “male comune”, in altre parole, può servire
al cittadino europeo, ma anche ai governi, a individuare con più
chiarezza l’interesse comune e a superare i particolarismi in vista
del suo raggiungimento.
Il filosofo tedesco Habermas sostiene, in una recente intervista
per Caffè Europa , che avere una Costituzione Europea è
condizione necessaria per creare una cittadinanza europea a senso
pieno: la Carta dei Diritti solennemente proclamata al vertice di
Nizza rappresenta il primo passo verso questo tipo di Costituzione?
A mio parere occorre inserire la questione in un contesto più ampio.
Io sono personalmente favorevole a che la Carta dei Diritti possa
costituire in futuro il nucleo primario di una vera e propria
Costituzione Europea ma, nello stesso tempo, ritengo che sia un
obiettivo da perseguire progressivamente. Del resto, cosa intendiamo
per Costituzione Europea? Perché l’Unione Europea ne ha bisogno?
Una Costituzione non risolve di per sé tutti gli interrogativi
politici fondamentali a cui ci troviamo di fronte.
Io credo che l’Unione abbia certamente bisogno di una struttura
istituzionale più stabile e di essere meglio compresa dai cittadini
europei, ma la questione della Costituzione dipende in ultima analisi
dal ruolo dell’Unione. Qual è la finalità politica dell’Unione,
soprattutto in relazione all’allargamento e alla riunificazione del
continente? Cosa deve diventare l’UE e che rapporto hanno le
istituzioni con i cittadini? Allora sì che, in quest’ottica, ci si
può chiedere se l’UE ha bisogno di un testo costituzionale.
Personalmente propendo per una risposta positiva, ma ritengo anche che
ci si debba arrivare per gradi e, soprattutto, attraverso un processo
costituente che non discenda dall’alto ma che si attui con la
partecipazione attiva degli “utenti finali”, i cittadini. Occorre
un dibattito ampio, anche se, non lo dimentichiamo, le decisioni
finali appartengono pur sempre alle istituzioni democratiche e
legittime, a livello comunitario e nazionale. Sicuramente un processo
costituzionale di questa portata, sviluppato in questa maniera, non
può che rafforzare il senso di appartenenza dei cittadini all’Unione
Europea.
Nonostante la Carta dei Diritti (vedi il Dossier
dedicatole da Caffè Europa ) e la maggiore sensibilizzazione
dell’opinione pubblica alle tematiche europee, il vertice di Nizza
è stato visto come lo scacco della posizione sopranazionale, e la
vittoria degli stati nazione: come spiega questo ritorno all’inter-governamentalismo?
L’Europa sta attraversando una fase molto complessa. Da un lato
assistiamo a trasformazioni di portata storica, come quella dell’avvento
dell’euro a siglare il completamento del mercato unico. Dall’altro
si registrano tensioni sempre maggiori tra la Comunità e gli Stati
membri ogni qualvolta si cerca di estendere il metodo comunitario ad
altre componenti fondamentali della sovranità nazionale, come i “pilastri”
di Giustizia e Affari interni o di Politica Estera e di Sicurezza
Comune. Questo continuo “confronto” istituzionale, in realtà, non
è necessariamente sintomo di crisi dell’Unione: al contrario,
testimonia la sua continua vitalità.
Il Vertice di Nizza è stato deludente ma ha alcuni indubbi meriti: l’eliminazione
delle pregiudiziali giuridiche sull’allargamento, la semplificazione
della clausola sulle “cooperazioni rafforzate”, il rafforzamento
della Commissione, la previsione di un nuovo appuntamento
istituzionale nel 2004, che dovrà essere l’occasione per una vera e
propria rifondazione dell’Unione e per il rilancio del patto
politico sul quale essa si fonda. A tal fine, è necessario stimolare
un grande dibattito politico sul futuro dell’Unione, che non sia
limitato alle istituzioni comunitarie e agli specialisti di diritto o
politica europea ma coinvolga direttamente i parlamenti dei quindici
paesi dell’Unione, le forze politiche nazionali, i paesi candidati
all’adesione e la società civile.
Nel commentare i risultati del summit di Nizza al Parlamento
Europeo, lei ha detto che sebbene il passo fatto avanti fosse più
piccolo di quanto voluto e potuto, la direzione era quella buona: è
una direzione verso degli Stati Uniti d’Europa, verso l’Europea
Federale con una sola Costituzione auspicata, tra gli altri, da
Joschka Fisher?
Sono grato a Joschka Fischer per aver opportunamente aperto il
dibattito sul futuro dell’Unione e aver così riacceso l’interesse
non solo dei governi ma anche della società civile in generale nei
confronti di un tema così importante. Bisogna però fare attenzione
al significato delle parole: cosa si intende per Stati Uniti d’Europa?
Io sono certamente a favore di un rafforzamento del metodo comunitario
che è proprio della realtà dell’Unione. Un’Unione beneficia di
una duplice legittimità, dei popoli e degli Stati. Auspico che questo
sistema si sviluppi e che i ruoli delle varie istituzioni vengano
rafforzati e chiariti. Credo in particolare che sarebbe necessario
rafforzare ulteriormente la funzione esecutiva della Commissione e
favorire un sistema legislativo di tipo bicamerale con Parlamento e
Consiglio dei Ministri, sviluppando la funzione legislativa di queste
due istituzioni e adattando anche il loro funzionamento interno.
D’altra parte, non va dimenticato che il nostro è un modello sui
generis, che si è sviluppato storicamente partendo da quelle che
erano le caratteristiche proprie della CEE fino ad arrivare all’Europa
che conosciamo oggi. E’ un modello che si è formato per
accumulazione progressiva di poteri, funzioni e procedure e che ha
bisogno di un assetto più stabile, chiaro e coerente senza però
snaturare il nucleo istituzionale e politico originario. Proprio per
questa nostra specificità, non ritengo che si possa semplicemente
trapiantare da noi un modello politico proprio di un’altra realtà
come, ad esempio, il federalismo statunitense.

La recente presentazione dell’ultimo Rapporto sulla Coesione
Economica e Sociale da parte della Commissione,ha risvegliato le
preoccupazioni di quei cittadini che al momento si trovano nelle
regioni meno favorite dell’Unione davanti alla prossima entrata di
Paesi che ne raddoppierebbero (almeno) le disparità interne Come
sente di rispondere a queste preoccupazioni?
Ritengo che siano del tutto ingiustificate. L’allargamento dell’Unione
Europea è sicuramente una sfida di portata storica, ma credo che la
riunificazione del continente porterà con sé soprattutto vantaggi: l’ampliamento
del mercato, unito all’apporto di nuove idee e di innovazione, non
può che avere conseguenze positive per l’Unione. Le istituzioni
sono da sempre impegnate - e non si tireranno certo indietro in futuro
- a far sì che nessuno soffra a causa di tutti questi cambiamenti. In
particolare, l’impegno procede su due fronti: sia direttamente,
attraverso le politiche specifiche per la promozione della coesione
economica e sociale che, indirettamente, attraverso il coordinamento
di tutte le altre politiche comunitarie.
Nel suo libro “Una visione dell’Europa” lei accorda molta
importanza al ruolo del Mediterraneo nel futuro dell’UE. Tuttavia il
partenariato Euro-Mediterraneo sembra essersi arenato (e di
conseguenza il progetto di apertura di una Zona di libero Scambio per
il 2010), forse anche per l’attenzione verso la prossima apertura ad
Est, oltre che per la crisi del Medio Oriente. Come intende muoversi l’UE
in questa zona insieme strategica e nevralgica?
Io mi sono personalmente impegnato a rilanciare il partenariato
euro-mediterraneo. La Commissione ha recentemente avanzato diverse
proposte per “rinvigorire” il processo di Barcellona, a
testimonianza che il Mediterraneo è, per noi, una priorità politica
fondamentale. Anche le mie recenti visite nel Maghreb/Mashrek si
inseriscono in questo contesto, e sono servite proprio a sottolineare
l’importanza che il processo di Barcellona riveste per noi e ad
esplorare le possibilità di sviluppare nuove forme di cooperazione
sub-regionale. Ad esempio si potrebbe procedere sulla base di un
criterio geopolitico per incrementare la cooperazione tra i Paesi del
Maghreb, oppure si potrebbe procedere spingendo verso la maggiore
cooperazione tra i Paesi mediterranei che hanno già concluso un
accordo di associazione con l’Unione.
Non si può negare che esistano delle difficoltà, e che la crisi del
Medio Oriente abbia ostacolato la piena realizzazione degli obiettivi
insiti nel Processo di Barcellona ma, per fare un altro esempio, il
fatto stesso che siamo riusciti ad organizzare la Conferenza di
Marsiglia il 14/15 novembre, in un clima cosi difficile, conferma la
forte volontà dei paesi delle due rive del Mediterraneo di mantenere
e sviluppare il disegno di Barcellona e le forti potenzialità di tale
progetto politico.
Come si giustifica un’eventuale entrata della Turchia nel
progetto di “riunificazione” Europea, vista la sua la diversità
in termini di unità culturale, geografica, e di ispirazione religiosa
con gli altri Stati Membri?
Non si può negare che esistano differenze culturali e religiose tra
la Turchia e i Paesi membri dell’Unione… così come esistono
differenze tra l’Italia e la Finlandia piuttosto che tra l’Irlanda
e la Grecia. L’integrazione europea, del resto, non è, e non deve
essere, sinonimo di rinuncia ai valori e alla cultura che
contraddistinguono ogni paese membro. Al contrario, integrazione
significa arricchimento attraverso il confronto con le altre realtà,
nel rispetto delle specificità nazionali.
Certamente noi insisteremo sul rispetto di tre principi fondamentali:
il rifiuto dell'uso della violenza nella risoluzione delle
controversie internazionali; il rispetto dei diritti umani e il
rispetto dei principi della democrazia rappresentativa. Detto questo,
ritengo però che una realtà importante come l’Unione Europea non
possa e non debba adottare un atteggiamento miope di chiusura e di
contrapposizione né dal punto di vista culturale e religioso né
geografico. A mio avviso, la nostra principale ricchezza è proprio la
valorizzazione di queste diversità, che ci consentirà di affrontare
quelli che al momento sembrano problemi per poi trasformarli in
opportunità di crescita, a vantaggio di una società europea aperta
e, proprio per questo, sempre più ricca.
Il progetto di riforma della governance nell’UE vuole una
Commissione che si concentri soprattutto sulle sue “funzioni
fondamentali” quali la concezione e l’iniziativa politica,
riducendo l’importanza della cogestione a favore di una delegazione
dei poteri. Ma cosi facendo non si rischia di trasformarla in una
sorta di OCSE, visto che gran parte del suo valore aggiunto rispetto a
queste organizzazioni mondiali per lo sviluppo risiede proprio nel suo
gestire le azioni comunitarie on the ground, calandosi nelle
realtà socioeconomiche e amministrative degli Stati Membri?
Assolutamente no. L’idea alla base della riforma della governance
è di rendere più efficiente e trasparente il metodo comunitario,
senza per questo rinunciare ai poteri legislativi ed esecutivi
previsti dal sistema. Vogliamo modernizzare un metodo che, però,
intendiamo mantenere. Vogliamo una maggiore apertura verso la società
civile, ovvero più trasparenza, e vogliamo ritornare allo spirito
originario della “legislazione quadro”, dando più spazio alle
realtà nazionali e locali. Così facendo potremo concentrare le
nostre energie su obiettivi di più ampio respiro, a reale valore
aggiunto.
Occorre assolutamente semplificare sia il processo legislativo che
quello di esecuzione, evitando la frammentazione. Tutto questo non
dipenderà solo dalla Commissione, ma anche dalle altre istituzioni
comunitarie, dai governi e dai parlamenti nazionali. E’ in
particolare necessario un chiarimento e una migliore ripartizione
delle funzione legislative ed esecutiva, a livello comunitario e, nel
rispetto delle diverse scelte e dei diversi modelli costituzionali
degli Stati membri, un maggiore coinvolgimento degli attori regionali
e locali che, in ultima istanza, sono responsabili dell’esecuzione
degli atti e delle politiche comunitarie.
Il suo discorso al Parlamento del 3 Ottobre 2000, che ha ribadito
il "no" deciso della Commissione ad un’Europa dei governi,
è stato salutato dalla stampa come un “risveglio”, suo e della
sua Commissione: era la vostra strategia a non essere troppo chiara
all'inizio, oppure ci è solo voluto tempo per farla passare?
Il discorso al Parlamento a cui lei fa riferimento mi ha dato l’occasione
di riaffermare i punti fondamentali del programma della Commissione.
Ho voluto rilanciare ed espandere il dibattito sulla riforma
istituzionale dell’Unione, riaffermando da un lato i capisaldi del
sistema e, dall’altro, indicando le sue difficoltà, come la
frammentazione dell’azione esecutiva. Tale discorso si inserisce
ovviamente in una strategia volta a esaltare i punti di forza del
sistema comunitario e a eliminarne le debolezze per permettere all’Unione
di rispondere alle esigenze dei cittadini europei e di essere una
reale protagonista della politica mondiale.
Lei ha detto di aver dovuto imparare a fare il politico di
professione: lezione di umiltà o questione di orgoglio e
testardaggine?
E’ vero, non è stato facile. Del resto tutti abbiamo dovuto
imparare. Mi piace ricordare un episodio che risale alla mia
gioventù, quando andavo allo stadio a veder giocare il Bologna. La
squadra non andava tanto bene, ma dagli spalti il sostegno era forte:
“Pivatelli, insistisci!” [Gino Pivatelli era un giocatore del
Bologna, nda]. Dopo qualche anno il Bologna vinse lo scudetto: allora
“insistisco” anch’io!
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