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Professor
Mayr, per tradizione la filosofia della scienza ha sempre preso le
mosse dagli sviluppi delle scienze fisiche e matematiche. Non è quasi
mai capitato che la filosofia prendesse sul serio gli importantissimi
sviluppi verificatisi nel corso dell'ultimo secolo in campo biologico.
Tuttavia, le riflessioni sulla biologia possono a loro volta fornire
nuove prospettive alla stessa filosofia. Qual è la Sua posizione
riguardo alla questione del rapporto tra filosofia e biologia?
A mio
avviso negli ultimi anni la filosofia ha subito dei cambiamenti enormi
perché per la prima volta, soprattutto nel campo della filosofia
della scienza, è stata presa in considerazione anche la biologia.
Questa tendenza ha avuto inizio con la pubblicazione di L'origine
della specie di Darwin. Ma, mentre si è dato spesso rilievo al
suo impatto sulla
religione, l'impatto fondamentale che quest'opera ha avuto sulla
filosofia della scienza non è stato notato né tantomeno messo in
rilievo. Come sicuramente lei ricorderà, fino a circa venti o trenta
anni fa la filosofia della scienza si fondava interamente sulla
fisica, sulla matematica e sulla logica. Aveva formulato un contesto
teorico che dava molta importanza al determinismo e alle classi fisse
di oggetti dalla definizione immutabile, nonché alla prevedibilità,
all'esistenza di leggi
universali e ad altri aspetti che caratterizzavano questa filosofia
della scienza., ora ci si è resi conto che tutto questo è
validissimo nel caso della fisica anche se, a differenza del secolo
scorso, la fisica moderna non è più deterministica. Ma quasi tutti
gli altri aspetti della filosofia della scienza basati sulla fisica
non erano strettamente applicabili alla biologia.
Per
dimostrare questa tesi possiamo prendere in considerazione numerosi
aspetti diversi. In primo luogo Darwin riuscì a confutare
implicitamente l'essenzialismo. Egli negava che la natura fosse
costituita da classi di oggetti dotati di un'essenza fondamentale
immutabile e che le loro relazioni fossero semplicemente delle
manifestazioni imperfette di questa essenza. Darwin diceva: “No, la
Natura, e in particolare la natura vivente, è costituita da
popolazioni di individui unici e il valore medio che noi ne
estrapoliamo è un'eccezione e non un'essenza costante”. Perciò il
nesso è un dato di fatto reale e non semplicemente un riflesso
imperfetto di un'essenza implicita. Un secondo errore che Darwin
modificò in maniera sostanziale riguardava la teleologia. Nel campo
di tutte le scienze fisiche, ogni volta che queste scienze venivano
applicate a qualcosa di non fisico, c'era la tendenza ad affidarsi
alla teleologia. Kant, nella sua Kritik der Urteilskraft, dedicata
alla scienza della vita, si affidò completamente alla teleologia.
Darwin invece affermava,
e la biologia moderna concorda con lui, che i cosiddetti fenomeni
teleologici relativi agli organismi non rispondono alla definizione
che i filosofi teleologisti ne hanno dato: non sono, cioè, qualcosa
che procede verso una meta, uno scopo ultimo, e dimostrò invece che
la direzione della meta, che di fatto esiste nella natura vivente,
dipende da un programma
genetico insito in ogni organismo. Se in autunno un particolare
uccello migra verso l'Africa, lo fa perché è geneticamente
programmato per farlo. La meta di questa migrazione è già presente
nel suo programma genetico; non è la meta in sé a dirigere la
migrazione, bensì il programma genetico. Lo stesso vale per una
tartaruga marina che raggiunge a nuoto la costa americana dal centro
dell'Atlantico per deporre le uova, o per un uccello maschio che
corteggia la femmina. Benché tutto questo sia all'apparenza di natura
teleologica, in realtà è stampato nel programma genetico
dell'individuo. , questo concetto di programma che naturalmente al
giorno d'oggi ogni operatore di computer conosce bene, era del tutto
sconosciuto in tutta la letteratura e la filosofia della scienza
fondate sulla fisica.
C'è poi un altro
elemento, al quale ho accennato di sfuggita, che caratterizzava questo
stato anteriore della scienza, ossia il fisicismo estremo. Tutto era
deterministico, prevedibile e basato su leggi universali. Il famoso
principio della falsificazione di Popper si basava sull'idea che se
veniva trovata un'eccezione, veniva falsata l'intera teoria. In realtà,
la maggior parte delle teorie biologiche contengono delle eccezioni
senza per questo risultare false, e quindi dobbiamo riconsiderare
l'intero concetto di falsificazione basato sull'idea dell'esistenza di
leggi universali. Quali altri elementi ha introdotto nella filosofia
la biologia moderna? Uno è il grande ruolo attribuito al caso: la
vecchia idea di Laplace, il quale sosteneva che se in un dato momento
avesse saputo tutto, se gli fossero stati noti tutti i processi e
tutte le condizioni, allora sarebbe stato in grado di prevedere quello
che sarebbe successo sulla terra di lì all'eternità, è confutata
tout court. Costantemente, in tutto ciò che accade fattori casuali si
compongono in processi stocastici rendono praticamante impossibile una
previsione totale.
Un passo avanti molto
importante introdotto dalla biologia è l'idea che, oltre alla singola
causalità propria della natura inanimata dove ogni cosa è
determinata in ultima istanza dalle leggi naturali universali, in
biologia abbiamo sempre due causalità: una è quella che certamente
prevale anche nella fisica, mentre l'altra è la causalità prodotta
dai programmi genetici a cui ho già accennato. Pur mancando del tutto
nel mondo della fisica, questo tipo di causalità è una parte
importante della biologia e della filosofia della biologia, ma in
passato non ha avuto alcun posto nella filosofia della scienza.
C'è un altro concetto che pian piano sta emergendo nella
filosofia della biologia, un concetto che, lo riconosco, è in un
certo senso difficile da capire. Prendiamo per esempio il fenomeno
della selezione naturale. Una coppia di animali genera,
poniamo, una prole di mille individui, un numero frequente tra
gli insetti e gli organismi marini, benché talvolta, per esempio nel
caso delle ostriche, un'unica coppia di genitori può generare una
prole di un milione di individui. Alla fine, quando arriva il momento
in cui la prole si riproduce a sua volta, in media solo due di questi
individui sono ancora in vita.
Se si ha una concezione
di tipo teleologico del futuro, si considera la selezione come
qualcosa di preesistente che selezionerà i due organismi più adatti
a diventare i progenitori della generazione successiva. In realtà le
cose stanno diversamente. La vita delle migliaia o dei milioni di
figli è esposta a ogni genere di fattori diretti e accidentali. Alla
fine, dopo molti giorni, molte settimane, molti mesi o magari perfino
molti anni, due di questi individui sono gli unici sopravvissuti. Ora,
tutto quello che possiamo dire è che la selezione di questi due
individui è stata semplicemente un risultato a posteriori di tutte le
vicissitudini e di tutte le esperienze
per cui è passata questa prole. E così viene a cadere la
sfumatura teleologica del termine selezione, e cominciamo a dirci che
forse molti fenomeni del mondo vivente e addirittura di quello
inanimato che noi attribuiamo a una causa - in realtà non parlo in
senso stretto - non sono dovuti a una causa soltanto, a meno che non
siano il risultato diretto di una legge universale, ma sono anche, per
così dire, ciò che rimane, l'effetto a posteriori, di un'intera
serie di eventi. Per esempio, se un organismo prende una certa
decisione e nel corso della giornata decide dove cibarsi, dove andare,
fin dove spingersi e via di seguito, compie una continua selezione tra
una serie di scelte.
Ovviamente, molte di
queste selezioni non sono altro
che il risultato di fenomeni puramente casuali, di decisioni fortuite.
Alla fine, quando abbiamo il risultato procedendo a ritroso possiamo
ricostruire passo per passo queste decisioni e stabilire che una data
successione di decisioni è stata la causa che ha determinato il
risultato finale. Ma questo è un modo completamente diverso di
considerare le causalità, il tipo di causalità che prima prevaleva
nelle scienze fisiche, dove a monte di una catena di eventi c'era una
causa determinata. Questo fatto ha molta importanza nella questione
del libero arbitrio. Dimostra che di fatto il libero arbitrio è un
concetto legittimo e non qualcosa di metafisico che dovrebbe essere
escluso dai dibattiti sui progetti scientifici.
C'è un altro fenomeno
che mi piacerebbe studiare: i fisicisti sostengono accanitamente e
promuovono ciò che va sotto la definizione di riduzione. Amano
ridurre qualsiasi fenomeno alle sue varie componenti e alle sue
componenti ultime, e così facendo credono di poter ricostruire
definitivamente l'intero fenomeno. , riguardo a questa teoria, ci sono
molte prove e moltissime persone in grado di dimostrare che non è
vero. Se prendiamo a esempio un oggetto semplicissimo, poniamo un
martello, un utensile che usiamo tutti i giorni, e lo separiamo in due
parti, nel manico e nella testa, nessuna di queste due parti ha in sé
le proprietà di un martello. Ma nel momento in cui le mettiamo
insieme, emergono le proprietà del martello. E questo vale per quasi
tutti i sistemi. Già negli anni Ottanta del secolo scorso T.H. Huxley
aveva fatto notare che anche se ci sono note le proprietà
dell'idrogeno e dell'ossigeno non per questo conosciamo quelle
dell'acqua: infatti, nel momento in cui l'idrogeno e l'ossigeno
vengono mescolati in forma di H2O, di acqua, emergono nuove proprietà
che sono le proprietà di un sistema in un certo senso più complesso.
E quest'osservazione si
può generalizzare dicendo che nel momento in cui si costruisce o ci
si trova davanti a un sistema più complesso, emergono delle proprietà
che non erano presenti nelle componenti del sistema, né potevano
essere previste mediante la conoscenza delle componenti del sistema.
Dunque, se volessimo, per
così dire, tentare di riassumere le differenze reali che corrono tra
la biologia e le scienze fisiche, potremmo citare molti fattori. Ne ho
appena menzionato uno: la frequenza molto maggiore dei fenomeni di
derivazione in biologia rispetto alla fisica. In fisica, certo,
abbiamo l'inerzia e la
molecola più complessa ha proprietà che non erano presenti nelle
molecole più semplici o negli atomi di cui sono composte. , ho già
accennato al fatto che forse una delle differenze decisive tra gli
organismi viventi e la materia inanimata è la presenza di programmi
genetici nei sistemi viventi. In nessun sistema inanimato esiste
qualcosa di simile, né tantomeno di analogo, eccezion fatta per
alcuni sistemi costruiti dall'uomo. Vi è una differenza notevole in
metodologia: senz'altro l'esperimento è importante, e non solo nelle
scienze fisiche, ma anche in quelle biologiche e soprattutto nelle
scienze funzionali come la fisiologia.
Tuttavia, in molte
branche delle scienze biologiche l'osservazione e il confronto
assumono un'importanza primaria per quanto riguarda la biologia
evoluzionistica, non si può arrivare a spiegare in via sperimentale
l'estinzione dei dinosauri o la scomparsa dei trilobiti alla fine del
paleozoico; dobbiamo procedere per confronti e osservazioni e poi
trarre le conclusioni. Questo è un metodo estremamente legittimo
ormai pienamente riconosciuto dalla moderna filosofia della scienza.
Nella fisica classica, per esempio, quella di Galileo e di Newton, il
tempo non esisteva, mentre è molto importante nella fisica moderna.
Invece per qualsiasi fenomeno biologico il tempo è un aspetto di
importanza primaria. Come ha detto una volta Dobjansky, in biologia
nulla si spiega se non alla
luce dell'evoluzione e l'evoluzione è un fenomeno legato al tempo.
Nelle scienze fisiche le
scoperte hanno un ruolo importante. Nel suo testamento Nobel disse che
il Premio Nobel doveva essere assegnato alle scoperte in questa o
quella scienza. Però, per esempio, anche se esistesse un Premio Nobel
per la biologia, Darwin non lo avrebbe ricevuto perché di fatto non
scoprì un bel niente: la selezione naturale era l'elaborazione di un
nuovo concetto. E, infatti, in biologia l'elaborazione di nuovi
concetti è probabilmente il più grande contributo che un biologo
possa dare, in quanto qui ogni nuovo concetto provoca l'immediato
fiorire di una nuova branca della biologia, di una nuova disciplina,
grande o piccola che sia. Infine, nelle scienze fisiche, si dà molta
importanza all'uniformità, alle leggi universali e così via; nelle
scienze biologiche, invece, rimaniamo continuamente colpiti
dall'unicità di tutto quello che osserviamo. Non ci sono due esseri
umani uguali, perfino i gemelli monozigotici differiscono per molti
aspetti, come è stato dimostrato a proposito della predisposizione
alle malattie. Alcune persone sono arrivate addirittura a dire che con
ogni probabilità nel corpo umano non ci sono due cellule
perfettamente uguali tra loro. Quindi, l'unicità è davvero
straordinaria.
Se prendiamo in esame
diverse specie, differenti faune e flore, restiamo continuamente
colpiti dall'unicità di ogni essere vivente e, in conseguenza a
questa unicità, della loro estrema diversità.. Nelle scienze fisiche
non esiste nulla del genere: c'è un numero limitato di elementi, un
numero limitato di particelle elementari, un numero limitato di quasi
tutti i fenomeni, tanto diversi dall'unicità e dalla diversità del
mondo vivente. In base a tutte queste differenze tra i fenomeni fisici
e il mondo fisico e i fenomeni biologici e il mondo biologico,
emergono ogni sorta di nuove generalizzazioni che insieme formano la
filosofia della biologia e, combinate con la vecchia filosofia della
fisica, una nuova filosofia generale.
Nel
suo libro The Growth of Biological Thought, si è concesso molto
spazio per mettere in evidenza il modo in cui un particolare concetto
filosofico, l'essenzialismo, ha influenzato il pensiero biologico dal
punto di vista storico, e anche come in una certa misura alcuni
elementi dell'essenzialismo sono rimasti presenti nel pensiero
biologico. L'essenzialismo ha senza dubbio animato in misura
ragguardevole le persone che osteggiavano lo stesso Darwin, ma è
rimasto presente anche in seguito nel pensiero biologico. Potrebbe
indicare qualche figura storica o qualche momento storico
dell'essenzialismo, e dire in che modo, a Suo avviso, questi elementi
propri dell'essenzialismo hanno ancora un ruolo in biologia?
Dunque, l'influenza
dell'essenzialismo fu talmente forte che, per esempio, si deve in gran
parte a questo concetto se la selezione naturale non fu accettata.
Infatti, se si ritiene che tutti gli individui di una specie sono
essenzialmente la stessa cosa, che sono tutti dei meri riflessi del
tipo di quella specie, allora selezionare alcuni individui all'interno
di essa non cambierebbe nulla, non avrebbe alcun effetto sul tipo.
Esistono intere branche della biologia, per esempio, la morfologia,
che sono state fortemente tipologiche fino a pochissimo tempo fa, e
perfino in paleontologia ci sono stati numerosi autori che hanno
sostenuto la teoria dell'evoluzione saltazionale - dove per passare da
un tipo all'altro si devono compiere dei veri e propri salti - perché
il loro modo di pensare tipologico non era in grado di concepire
l'avvento di un qualsiasi cambiamento graduale in una popolazione,
perché erano del tutto incapaci di pensare in termini di popolazione.
Ricordo un'interessante
esperienza personale che ho avuto con il famoso genetista Richard
Goldschmidt con cui una volta mi cimentai in una discussione
sull'evoluzione. Mi parlò dei suoi mostri probabili, ovvero dei nuovi
tipi che si formavano all'improvviso e, se si fossero rivelati
migliori del tipo precedente, si sarebbero affermati nell'evoluzione.
Allora gli dissi: “Ma professor Goldschmidt, come reagisce uno di
questi mostri probabili rispetto agli altri membri della sua
popolazione?” Mi lanciò un'occhiata assai perplessa e infine mi
rispose: “Oh, non avevo mai pensato in questi termini”. Quindi,
pensare in termini di popolazione era completamente estraneo alla sua
forma mentis. E questo valeva anche per molte altre persone. Mi
riferisco a molti degli studiosi dello sviluppo i quali, occupandosi
di un unico ovulo che si sviluppa e diventa un organismo, tendevano a
pensare secondo schemi tipologici. Non pensavano in termini di
popolazioni di ovuli in via di sviluppo. Di conseguenza, la
paleontologia, la morfologia e molte branche della biologia sono state
caratterizzate da un metodo rigorosamente tipologico. Perfino negli
studi del comportamento, il fatto che un elemento comportamentale,
anche un meccanismo di stimolo specifico di una specie, possa
presentare delle variazioni all'interno della specie, addirittura
all'interno di una popolazione, non è stato mai preso in
considerazione da alcuni di questi autori.
Lei
ha appena indicato alcuni argomenti di filosofia e di metodologia
della scienza, o di epistemologia, che sono legati alla biologia.
Negli ultimi anni, però, i filosofi hanno mostrato un interesse
crescente nei confronti di un'altra dimensione, il cui carattere non
è esplicitamente biologico, ma che ha certamente a che fare con la
biologia, ovvero la biologia sociale. Pur essendo senz'altro un
risultato importante del pensiero biologico, ha destato riflessioni,
interesse e discussioni
anche tra i filosofi. Qual è la sua posizione in questo campo di
studi e cosa ne pensa del contributo dei filosofi a questo dibattito?
Per quanto
riguarda la biologia sociale, mi sento molto ai margini. Infatti
secondo me sia la letteratura dei sostenitori che quella degli
oppositori è assai confusa. Se si riduce tutto ai minimi termini e si
prendono le situazioni individuali descritte dai sociobiologi, si
scopre che si riferiscono quasi sempre a casi di ciò che io ho
definito vantaggio selettivo nella riproduzione. Si tratta di un campo
scientifico perfettamente legittimo e i maggiori autori di questo
campo, persone come Robert Trevis, Richard Alexander e qualche altro,
non si definiscono neanche sociobiologi, né fanno alcun accenno alla
parola biologia sociale nei loro scritti. Invece, gli oppositori, e
soprattutto i marxisti, i quali per qualche strano motivo si sono
opposti con veemenza alla biologia sociale, si rifanno al vecchio
argomento natura-cultura, che tutti credevamo risolto in maniera
approfondita e definitiva dal momento che praticamente non c'è una
sola componente del fenotipo dei caratteri di una persona o di un
animale che non subisca l'influenza sia dell'eredità sia
dell'ambiente.
Se, per
esempio, E.O. Wilson affermava che questo o quel fatto aveva una
componente genetica, allora gli oppositori, i marxisti, immediatamente
scrivevano che Wilson aveva affermato che quel dato comportamento era
determinato dalla genetica. Questa non è una trascrizione corretta
della sua affermazione, e ha portato una gran quantità di scalpore e
di controversie inutili. A mio avviso alcune persone esagerano
nell'interpretare i fenomeni che si verificano in natura secondo
alcuni dei termini della selezione e della biologia sociale, ma in
generale, i dati fondamentali presentati dagli esponenti maturi della
sociobiologia sono fondati. E poi perché non dovrebbe aver luogo una
selezione naturale di certi aspetti che favoriscono o non favoriscono
il successo riproduttivo? Non riesco proprio a capire il perché di
tante discussioni.
Un
altro campo che ha destato l'interesse dei filosofi è stato chiamato
“epistemologia evoluzionistica”, ossia alcuni epistemologi hanno
cercato di applicare determinate categorie e determinati concetti
della biologia evoluzionistica per mettere a punto un approccio alla
filosofia della scienza che tenti di utilizzare i risultati della
biologia evoluzionistica. Lei si è occupato di questo problema nel
suo recente libro sulla filosofia della biologia?
Ho una gran quantità
di libri, di ristampe e di altro materiale sull'epistemologia
evoluzionistica a cui mi sono riproposto di dedicarmi l'estate
prossima. Per il momento posso solo dire che la tesi fondamentale
sostenuta da questi autori si rifà alle affermazioni che Konrad
Lorenz ha fatto basandosi sulla lettura di Kant, secondo le quali
certe caratteristiche del cervello predispongono le persone o gli
altri animali a guardare le cose in un modo evoluzionistico. A mio
parere, tutte queste affermazioni aprioristiche di Kant sono alquanto
inconsistenti. A mio avviso le sue analoghe affermazioni in merito
allo spazio e al tempo sono state in sommo grado confutate dagli
psicologi, e penso che lo stesso valga per l'epistemologia
evoluzionistica. È chiaro come il sole che le idee della moderna
teoria evoluzionistica, fondata su Darwin, i concetti stessi di
variazione, di selezione e così via, devono essere inclusi e presi in
considerazione dall'epistemologia, ma la necessità di
un'epistemologia evoluzionistica molto particolare, a sé stante, a
mio avviso non è ben fondata.
Un
altro argomento che vorrei affrontare con Lei è il seguente:
prendendo l'ottica, o il metodo di indagine di certe categorie
darwiniane oggi alcuni studiosi del cervello e neuroscienziati, come
il professor Gerald Edelmann di New York, tentano di spiegare alcuni
campi d'indagine per tradizione di competenza della filosofia, per
esempio la coscienza. Lei si è occupato di tale questione e ha
scritto dei commenti su questi sviluppi. Le chiederei di spiegarci
cosa ne pensa di questo tentativo di estendere il paradigma darwiniano
- forse è questo il termine giusto - alle nostre sfere di studio e di
spiegare le funzioni del cervello mediante questo paradigma.
In passato a New York
ho partecipato a un convegno su questo argomento presieduto da
Edelmann. Il mio compito era essenzialmente quello di presentare in
primo luogo la definizione che l'evoluzionista dà di termini come
selezione e altri che i neurofisiologi della scuola di Edelmann ora
applicano al campo della neurofisiologia. Alla fine tutto si è
ridotto alla questione di quando un neurone più o meno non
specificato finisce per diventare altamente specifico nell'esecuzione
di un particolare compito e stabilisce particolari collegamenti con
altri neuroni entrando a far parte di una nuova rete di neuroni. I
cambiamenti che hanno luogo in questo neurone sono dovuti alla
selezione oppure all'induzione, a un impatto con gli altri neuroni? Il
dibattito mi ha indotto a pensare che era molto difficile tracciare
una linea netta tra le due cose.
Certo, i neuroni che
riuscivano meglio in un dato compito erano quelli che alla fine
rimanevano mentre gli altri, che non avevano un compito specifico,
venivano riassorbiti e sparivano. Quindi, come vede, qui entra in
gioco la selezione. Ma d'altra parte viene da chiedersi perché questi
particolari neuroni sono riusciti tanto bene nel loro compito. In che
misura hanno ricevuto ordini dall'ambiente per diventare così
specifici? Qualche anno fa, a Monaco, tenni una conferenza sul
rapporto tra il darwinismo e la filosofia a un pubblico piuttosto
ostile. Una persona in
sala mi domandò come si era sviluppata la coscienza nel genere umano.
Io risposi: “Prima mi dimostri che un'ameba non è dotata di
coscienza e poi sarò ben lieto di rispondere alla sua domanda”. Calò
un silenzio assoluto e subito dopo il pubblico scoppiò in una
fragorosa risata.
La coscienza è una cosa
difficilissima da definire. Un'ameba che reagisce a certi stimoli
dell'ambiente: perché non possiamo chiamare coscienza questa capacità
di reagire e di ricordare la circostanza, e poi di reagire in seguito
nello stesso modo? Perché tutto questo non dovrebbe essere una sorta
di coscienza? Se risaliamo la scala dei mammiferi, delle scimmie e
delle scimmie antropomorfe e via di seguito, sono sicuro che in questa
discendenza scopriremo in misura sempre maggiore la presenza di ciò
che i filosofi chiamano “coscienza”. Sono sicuro che la coscienza
è una caratteristica del sistema nervoso centrale che immagazzina,
che acquisisce predisposizioni a determinati comportamenti, che
acquisisce una memoria e tutta una gamma di reazioni siffatte
all'ambiente: questo è ciò che chiamiamo “coscienza”.
Quindi,
secondo Lei, le neuroscienze potrebbero pervenire a un grado di
precisione molto maggiore nella definizione della funzione del sistema
nervoso. La sua risposta mi fa venire in mente quello che lo stesso
Darwin disse a proposito, per esempio, delle proprietà della mente:
ciò che distingue l'uomo dagli animali non è che una differenza di
grado, e questo non costituisce un salto tra la coscienza o la capacità
di calcolare l'input proveniente dall'ambiente di una scimmia e di un
uomo.
Questo ci conduce a un
fenomeno di cui i filosofi sono pienamente consapevoli. Ho scritto
delle cose molto interessanti in proposito. Iniziamo da un termine
affine, quello di mente. Che cos'è la mente? A rigore, non è che una
parola che usiamo per designare l'insieme delle attività mentali di
un organismo. Lo stesso vale per la vita. E' impossibile definire la
vita. I primitivi pensavano che la vita fosse una sostanza definita
che si trovava nel corpo e che fuggiva al momento della morte, ma ora
sappiamo che non è altro che la parola con cui definiamo tutti i
processi vitali che avvengono in un organismo. La mia concezione della
coscienza è molto simile. Chiamano questo processo reificazione delle
cose che in altre parole non sono che parole: non sono né un vero
nome proprio, né una vera sostanza, né un vero corpo, niente di
concreto, bensì qualcosa che descrive semplicemente l'insieme di
determinati processi. Perciò questo è un campo di cui io, che non
sono un filosofo, in realtà non dovrei parlare, dal momento che i
filosofi dedicano molto del loro lavoro a questo problema della
reificazione dei processi, e ne sanno molto di più di me. Tuttavia
penso che molto spesso, per spiegare la vita, come ha detto qualcuno,
si parte fin dall'inizio da una base che svia tutto il discorso.
Dunque, è possibile descrivere i processi vitali, cos'è vivo
eccetera, ma la parola vita implica l'esistenza di un oggetto definito
e questo non è affatto vero. Un oggetto siffatto non esiste.
Qual
è la tesi principale della Sua escursione nella filosofia della
biologia e il risultato delle Sue riflessioni come studioso di scienze
applicate, storico e persona che ha avuto la modestia di dire di non
essere un filosofo, ma che ha sempre partecipato attivamente nelle
discussioni di carattere filosofico? In altri termini, qual è il tema
centrale del suo libro sulla filosofia della biologia?
Bene, mi considero come
qualcuno che fa parte di una schiera di studiosi che hanno già
riflettuto su tale questione: prima di tutto prendo coscienza di
essere un membro del genere umano e del fatto che una delle
preoccupazioni principali della mia vita dovrebbe essere il genere
umano, inteso in senso lato nel suo complesso e in senso più
specifico come quei particolari membri di esso con cui ho contatti più
stretti: i miei amici, i miei studenti e così via. Penso che la mia
filosofia di fondo sia di sforzarmi di fare tutto il possibile, dal
momento che ho avuto la fortuna di entrare a far parte del genere
umano, di ripagare il mio debito nei suoi confronti e di adoperarmi
per il genere umano in tutti i modi possibili.
Credo molto
nell'affermazione fatta da Martin Luther King secondo cui non c'è
privilegio senza dovere. Io ho il privilegio di essere un membro del
genere umano e questo significa che ho il dovere di mostrarmi
all'altezza di questo privilegio. Questo influisce su molte cose. Mia
madre ha avuto una vita difficile perché è rimasta vedova quando era
ancora giovane. Ha dovuto allevare tre figli piccoli, ma è sempre
stata una persona allegra; non si è mai lamentata di nulla e aveva
una filosofia stupenda, e cioè: bisogna sempre fare le cose per gli
altri perché rende felici, ed era proprio quello che faceva. Questo
fa parte anche della mia filosofia e concorda benissimo con la mia
filosofia generale dei miei obblighi quale membro del genere umano.
Ecco, questo secondo me è la base di tutto. Se utilizzo questa idea
come parametro in tutte le situazioni che mi capitano nella vita
privata, posso sempre applicarlo e arrivare alle decisioni che ritengo
giuste.
Qual
è la linea principale del Suo libro sulla metodologia, o sulla
filosofia della biologia? Quali questioni, a suo vedere, sono più
importanti oggi tornando agli aspetti tecnici della filosofia della
biologia?
Non posso
dire che ci sia un unico aspetto specifico da isolare e indicare come
linea principale, ma senz'altro la linea principale è questa: nello
momento stesso in cui ci allontaniamo dalla filosofia basata
interamente sulla fisica, ci addentriamo in
un tipo di filosofia applicabile all'uomo. C'è un abisso
enorme tra la filosofia della fisica di persone come Carnap o Hempel o
Naegele. Ricordo un libro famoso di C. P. Snow che parlava delle due
culture; affermava che da una parte c'è la scienza e dall'altra gli
studi umanistici, e che vi è un abisso incolmabile tra le due sfere.
In realtà Snow si riferiva alla fisica e alle scienze umanistiche, ed
è vero che c'è un abisso incolmabile. Ma nel momento stesso in cui
si estende il discorso alla biologia, entrano in campo numerose
branche della biologia come la biologia evoluzionistica che per molti
aspetti si avvicina di più alle materie umanistiche che alla fisica.
Perciò, a mio vedere, questa è l'idea fondamentale del mio pensiero
sulla filosofia della biologia e getta un ponte non solo verso gli
studi umanistici in generale, ma anche verso i doveri e le azioni di
ciascun individuo. Ci dà la possibilità di avere una Weltanschauung
personale, una nostra filosofia, che per contro ci è impossibile
trarre dalle scienze fisiche. Ed è proprio per questo motivo che do
tanta importanza alla filosofia della biologia, perché è di gran
lunga più significativa, pratica e applicabile di quella derivata
dalla fisica.
C'è
un uso della parola "biovita" che attualmente interessa
moltissime persone, ossia l'uso in un contesto filosofico come
categoria della bioetica, ossia il tentativo di spiegare alla gente
certe questioni inerenti alla biologia e i modi in cui esse incidono
sulle persone e sulle loro vite. Come cittadino e grande scienziato,
ha un'opinione in fatto di bioetica?
L'etica umana, a mio
parere, consiste di due aspetti, ha due radici: una, naturalmente,
deriva direttamente dalla nostra origine animale -per esempio l'amore
di una madre per il figlio è qualcosa di non acquisito, è presente
in tutte le madri- e questo tipo di etica dell'idoneità insita è
importante, ma probabilmente è una componente minima della nostra
etica totale. L'altra è l'etica appresa, l'etica acquisita durante
l'infanzia e durante la crescita a contatto con gli amici e gli
insegnanti e così via. Questo tipo varia da una cultura all'altra:
ogni cultura ha la propria etica. Alcune culture hanno un'etica molto
valida, molto sana e queste culture sopravvivono a lungo; altre invece
hanno un'etica malsana e, prima o poi, colano a picco. Secondo me la
cosa importante è adoperarsi per un'etica che sia sana per l'intera
comunità, e penso che in questo momento abbiamo qualche difficoltà
al proposito. Per esempio, su cosa si basa l'etica cristiana? Fu
formulata, per così dire, dai pastori, dalle comunità di allevatori
del Medio Oriente che non vivevano in grandi città e ignoravano del
tutto la cultura di massa o la tecnologia.
A mio avviso
un'applicazione troppo ristretta dei principii di quella particolare
cultura alla nostra società moderna è controproducente e ci porterà
al disastro. Penso che dobbiamo formulare dei nuovi principii etici:
diverse persone lo hanno già fatto, ma trovano ancora molta
resistenza. Per esempio, il più grande problema, il più grande guaio
del genere umano è la sovrappopolazione, perciò dobbiamo formulare
un'etica che prevenga il problema. Ma se, per esempio, alcuni leader
religiosi o filosofi negano questo fatto e incoraggiano le donne ad
avere quanti più figli possibile, questo, secondo me, è praticamente
un crimine ai danni dell'umanità e dimostra che queste persone non
hanno un'etica reale perché non hanno riflettuto a fondo su quello
che succede agli altri e al genere umano nel suo insieme. La
sovrappopolazione causa morte e sofferenza a milioni di persone ogni
anno. Perciò coloro che incoraggiano la sovrappopolazione sono
responsabili in prima persona di questa sofferenza e di queste morti.
Ho detto queste cose in un programma radiofonico a Boston molti anni
fa e sono ancora vere.
Quindi
l'etica deve fare i conti con la situazione reale e fare in modo che
l'interesse collettivo non venga trascurato?
L'etica deve andare di
pari passo con i tempi. In ogni periodo insorgono nuove esigenze in
fatto di etica. Come ho detto, in una grande società urbanizzata di
massa c'è semplicemente bisogno di un tipo diverso di etica da quella
di una zona rurale poco popolata. Questa flessibilità, che dovrebbe
caratterizzare la nostra etica, è qualcosa che pochissimi etnologi
hanno pienamente compreso.
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ricerca"
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