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Rai Educational/Filosofia e biologia

 

Ernst Mayr con Pietro Corsi

 

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Professor Mayr, per tradizione la filosofia della scienza ha sempre preso le mosse dagli sviluppi delle scienze fisiche e matematiche. Non è quasi mai capitato che la filosofia prendesse sul serio gli importantissimi sviluppi verificatisi nel corso dell'ultimo secolo in campo biologico. Tuttavia, le riflessioni sulla biologia possono a loro volta fornire nuove prospettive alla stessa filosofia. Qual è la Sua posizione riguardo alla questione del rapporto tra filosofia e biologia?  

A mio avviso negli ultimi anni la filosofia ha subito dei cambiamenti enormi perché per la prima volta, soprattutto nel campo della filosofia della scienza, è stata presa in considerazione anche la biologia. Questa tendenza ha avuto inizio con la pubblicazione di L'origine della specie di Darwin. Ma, mentre si è dato spesso rilievo al suo impatto  sulla religione, l'impatto fondamentale che quest'opera ha avuto sulla filosofia della scienza non è stato notato né tantomeno messo in rilievo. Come sicuramente lei ricorderà, fino a circa venti o trenta anni fa la filosofia della scienza si fondava interamente sulla fisica, sulla matematica e sulla logica. Aveva formulato un contesto teorico che dava molta importanza al determinismo e alle classi fisse di oggetti dalla definizione immutabile, nonché alla prevedibilità, all'esistenza  di leggi universali e ad altri aspetti che caratterizzavano questa filosofia della scienza., ora ci si è resi conto che tutto questo è validissimo nel caso della fisica anche se, a differenza del secolo scorso, la fisica moderna non è più deterministica. Ma quasi tutti gli altri aspetti della filosofia della scienza basati sulla fisica non erano strettamente applicabili alla biologia.  

Per dimostrare questa tesi possiamo prendere in considerazione numerosi aspetti diversi. In primo luogo Darwin riuscì a confutare implicitamente l'essenzialismo. Egli negava che la natura fosse costituita da classi di oggetti dotati di un'essenza fondamentale immutabile e che le loro relazioni fossero semplicemente delle manifestazioni imperfette di questa essenza. Darwin diceva: “No, la Natura, e in particolare la natura vivente, è costituita da popolazioni di individui unici e il valore medio che noi ne estrapoliamo è un'eccezione e non un'essenza costante”. Perciò il nesso è un dato di fatto reale e non semplicemente un riflesso imperfetto di un'essenza implicita. Un secondo errore che Darwin modificò in maniera sostanziale riguardava la teleologia. Nel campo di tutte le scienze fisiche, ogni volta che queste scienze venivano applicate a qualcosa di non fisico, c'era la tendenza ad affidarsi alla teleologia. Kant, nella sua Kritik der Urteilskraft, dedicata alla scienza della vita, si affidò completamente alla teleologia.

  Darwin invece affermava, e la biologia moderna concorda con lui, che i cosiddetti fenomeni teleologici relativi agli organismi non rispondono alla definizione che i filosofi teleologisti ne hanno dato: non sono, cioè, qualcosa che procede verso una meta, uno scopo ultimo, e dimostrò invece che la direzione della meta, che di fatto esiste nella natura vivente, dipende  da un programma genetico insito in ogni organismo. Se in autunno un particolare uccello migra verso l'Africa, lo fa perché è geneticamente programmato per farlo. La meta di questa migrazione è già presente nel suo programma genetico; non è la meta in sé a dirigere la migrazione, bensì il programma genetico. Lo stesso vale per una tartaruga marina che raggiunge a nuoto la costa americana dal centro dell'Atlantico per deporre le uova, o per un uccello maschio che corteggia la femmina. Benché tutto questo sia all'apparenza di natura teleologica, in realtà è stampato nel programma genetico dell'individuo. , questo concetto di programma che naturalmente al giorno d'oggi ogni operatore di computer conosce bene, era del tutto sconosciuto in tutta la letteratura e la filosofia della scienza fondate sulla fisica.

  C'è poi un altro elemento, al quale ho accennato di sfuggita, che caratterizzava questo stato anteriore della scienza, ossia il fisicismo estremo. Tutto era deterministico, prevedibile e basato su leggi universali. Il famoso principio della falsificazione di Popper si basava sull'idea che se veniva trovata un'eccezione, veniva falsata l'intera teoria. In realtà, la maggior parte delle teorie biologiche contengono delle eccezioni senza per questo risultare false, e quindi dobbiamo riconsiderare l'intero concetto di falsificazione basato sull'idea dell'esistenza di leggi universali. Quali altri elementi ha introdotto nella filosofia la biologia moderna? Uno è il grande ruolo attribuito al caso: la vecchia idea di Laplace, il quale sosteneva che se in un dato momento avesse saputo tutto, se gli fossero stati noti tutti i processi e tutte le condizioni, allora sarebbe stato in grado di prevedere quello che sarebbe successo sulla terra di lì all'eternità, è confutata tout court. Costantemente, in tutto ciò che accade fattori casuali si compongono in processi stocastici rendono praticamante impossibile una previsione totale.

  Un passo avanti molto importante introdotto dalla biologia è l'idea che, oltre alla singola causalità propria della natura inanimata dove ogni cosa è determinata in ultima istanza dalle leggi naturali universali, in biologia abbiamo sempre due causalità: una è quella che certamente prevale anche nella fisica, mentre l'altra è la causalità prodotta dai programmi genetici a cui ho già accennato. Pur mancando del tutto nel mondo della fisica, questo tipo di causalità è una parte importante della biologia e della filosofia della biologia, ma in passato non ha avuto alcun posto nella filosofia della scienza.  C'è un altro concetto che pian piano sta emergendo nella filosofia della biologia, un concetto che, lo riconosco, è in un certo senso difficile da capire. Prendiamo per esempio il fenomeno della selezione naturale. Una coppia di animali genera,  poniamo, una prole di mille individui, un numero frequente tra gli insetti e gli organismi marini, benché talvolta, per esempio nel caso delle ostriche, un'unica coppia di genitori può generare una prole di un milione di individui. Alla fine, quando arriva il momento in cui la prole si riproduce a sua volta, in media solo due di questi individui sono ancora in vita.

  Se si ha una concezione di tipo teleologico del futuro, si considera la selezione come qualcosa di preesistente che selezionerà i due organismi più adatti a diventare i progenitori della generazione successiva. In realtà le cose stanno diversamente. La vita delle migliaia o dei milioni di figli è esposta a ogni genere di fattori diretti e accidentali. Alla fine, dopo molti giorni, molte settimane, molti mesi o magari perfino molti anni, due di questi individui sono gli unici sopravvissuti. Ora, tutto quello che possiamo dire è che la selezione di questi due individui è stata semplicemente un risultato a posteriori di tutte le vicissitudini e di tutte le esperienze  per cui è passata questa prole. E così viene a cadere la sfumatura teleologica del termine selezione, e cominciamo a dirci che forse molti fenomeni del mondo vivente e addirittura di quello inanimato che noi attribuiamo a una causa - in realtà non parlo in senso stretto - non sono dovuti a una causa soltanto, a meno che non siano il risultato diretto di una legge universale, ma sono anche, per così dire, ciò che rimane, l'effetto a posteriori, di un'intera serie di eventi. Per esempio, se un organismo prende una certa decisione e nel corso della giornata decide dove cibarsi, dove andare, fin dove spingersi e via di seguito, compie una continua selezione tra una serie di scelte.

  Ovviamente, molte di queste selezioni non sono  altro che il risultato di fenomeni puramente casuali, di decisioni fortuite. Alla fine, quando abbiamo il risultato procedendo a ritroso possiamo ricostruire passo per passo queste decisioni e stabilire che una data successione di decisioni è stata la causa che ha determinato il risultato finale. Ma questo è un modo completamente diverso di considerare le causalità, il tipo di causalità che prima prevaleva nelle scienze fisiche, dove a monte di una catena di eventi c'era una causa determinata. Questo fatto ha molta importanza nella questione del libero arbitrio. Dimostra che di fatto il libero arbitrio è un concetto legittimo e non qualcosa di metafisico che dovrebbe essere escluso dai dibattiti sui progetti scientifici.

  C'è un altro fenomeno che mi piacerebbe studiare: i fisicisti sostengono accanitamente e promuovono ciò che va sotto la definizione di riduzione. Amano ridurre qualsiasi fenomeno alle sue varie componenti e alle sue componenti ultime, e così facendo credono di poter ricostruire definitivamente l'intero fenomeno. , riguardo a questa teoria, ci sono molte prove e moltissime persone in grado di dimostrare che non è vero. Se prendiamo a esempio un oggetto semplicissimo, poniamo un martello, un utensile che usiamo tutti i giorni, e lo separiamo in due parti, nel manico e nella testa, nessuna di queste due parti ha in sé le proprietà di un martello. Ma nel momento in cui le mettiamo insieme, emergono le proprietà del martello. E questo vale per quasi tutti i sistemi. Già negli anni Ottanta del secolo scorso T.H. Huxley aveva fatto notare che anche se ci sono note le proprietà dell'idrogeno e dell'ossigeno non per questo conosciamo quelle dell'acqua: infatti, nel momento in cui l'idrogeno e l'ossigeno vengono mescolati in forma di H2O, di acqua, emergono nuove proprietà che sono le proprietà di un sistema in un certo senso più complesso. E  quest'osservazione si può generalizzare dicendo che nel momento in cui si costruisce o ci si trova davanti a un sistema più complesso, emergono delle proprietà che non erano presenti nelle componenti del sistema, né potevano essere previste mediante la conoscenza delle componenti del sistema.

  Dunque, se volessimo, per così dire, tentare di riassumere le differenze reali che corrono tra la biologia e le scienze fisiche, potremmo citare molti fattori. Ne ho appena menzionato uno: la frequenza molto maggiore dei fenomeni di derivazione in biologia rispetto alla fisica. In fisica, certo, abbiamo l'inerzia  e la molecola più complessa ha proprietà che non erano presenti nelle molecole più semplici o negli atomi di cui sono composte. , ho già accennato al fatto che forse una delle differenze decisive tra gli organismi viventi e la materia inanimata è la presenza di programmi genetici nei sistemi viventi. In nessun sistema inanimato esiste qualcosa di simile, né tantomeno di analogo, eccezion fatta per alcuni sistemi costruiti dall'uomo. Vi è una differenza notevole in metodologia: senz'altro l'esperimento è importante, e non solo nelle scienze fisiche, ma anche in quelle biologiche e soprattutto nelle scienze funzionali come la fisiologia.

  Tuttavia, in molte branche delle scienze biologiche l'osservazione e il confronto assumono un'importanza primaria per quanto riguarda la biologia evoluzionistica, non si può arrivare a spiegare in via sperimentale l'estinzione dei dinosauri o la scomparsa dei trilobiti alla fine del paleozoico; dobbiamo procedere per confronti e osservazioni e poi trarre le conclusioni. Questo è un metodo estremamente legittimo ormai pienamente riconosciuto dalla moderna filosofia della scienza. Nella fisica classica, per esempio, quella di Galileo e di Newton, il tempo non esisteva, mentre è molto importante nella fisica moderna. Invece per qualsiasi fenomeno biologico il tempo è un aspetto di importanza primaria. Come ha detto una volta Dobjansky, in biologia nulla si spiega se non  alla luce dell'evoluzione e l'evoluzione è un fenomeno legato al tempo.

  Nelle scienze fisiche le scoperte hanno un ruolo importante. Nel suo testamento Nobel disse che il Premio Nobel doveva essere assegnato alle scoperte in questa o quella scienza. Però, per esempio, anche se esistesse un Premio Nobel per la biologia, Darwin non lo avrebbe ricevuto perché di fatto non scoprì un bel niente: la selezione naturale era l'elaborazione di un nuovo concetto. E, infatti, in biologia l'elaborazione di nuovi concetti è probabilmente il più grande contributo che un biologo possa dare, in quanto qui ogni nuovo concetto provoca l'immediato fiorire di una nuova branca della biologia, di una nuova disciplina, grande o piccola che sia. Infine, nelle scienze fisiche, si dà molta importanza all'uniformità, alle leggi universali e così via; nelle scienze biologiche, invece, rimaniamo continuamente colpiti dall'unicità di tutto quello che osserviamo. Non ci sono due esseri umani uguali, perfino i gemelli monozigotici differiscono per molti aspetti, come è stato dimostrato a proposito della predisposizione alle malattie. Alcune persone sono arrivate addirittura a dire che con ogni probabilità nel corpo umano non ci sono due cellule perfettamente uguali tra loro. Quindi, l'unicità è davvero straordinaria.

  Se prendiamo in esame diverse specie, differenti faune e flore, restiamo continuamente colpiti dall'unicità di ogni essere vivente e, in conseguenza a questa unicità, della loro estrema diversità.. Nelle scienze fisiche non esiste nulla del genere: c'è un numero limitato di elementi, un numero limitato di particelle elementari, un numero limitato di quasi tutti i fenomeni, tanto diversi dall'unicità e dalla diversità del mondo vivente. In base a tutte queste differenze tra i fenomeni fisici e il mondo fisico e i fenomeni biologici e il mondo biologico, emergono ogni sorta di nuove generalizzazioni che insieme formano la filosofia della biologia e, combinate con la vecchia filosofia della fisica, una nuova filosofia generale.

  Nel suo libro The Growth of Biological Thought, si è concesso molto spazio per mettere in evidenza il modo in cui un particolare concetto filosofico, l'essenzialismo, ha influenzato il pensiero biologico dal punto di vista storico, e anche come in una certa misura alcuni elementi dell'essenzialismo sono rimasti presenti nel pensiero biologico. L'essenzialismo ha senza dubbio animato in misura ragguardevole le persone che osteggiavano lo stesso Darwin, ma è rimasto presente anche in seguito nel pensiero biologico. Potrebbe indicare qualche figura storica o qualche momento storico dell'essenzialismo, e dire in che modo, a Suo avviso, questi elementi propri dell'essenzialismo hanno ancora un ruolo in biologia?

  Dunque, l'influenza dell'essenzialismo fu talmente forte che, per esempio, si deve in gran parte a questo concetto se la selezione naturale non fu accettata. Infatti, se si ritiene che tutti gli individui di una specie sono essenzialmente la stessa cosa, che sono tutti dei meri riflessi del tipo di quella specie, allora selezionare alcuni individui all'interno di essa non cambierebbe nulla, non avrebbe alcun effetto sul tipo. Esistono intere branche della biologia, per esempio, la morfologia, che sono state fortemente tipologiche fino a pochissimo tempo fa, e perfino in paleontologia ci sono stati numerosi autori che hanno sostenuto la teoria dell'evoluzione saltazionale - dove per passare da un tipo all'altro si devono compiere dei veri e propri salti - perché il loro modo di pensare tipologico non era in grado di concepire l'avvento di un qualsiasi cambiamento graduale in una popolazione, perché erano del tutto incapaci di pensare in termini di popolazione.

  Ricordo un'interessante esperienza personale che ho avuto con il famoso genetista Richard Goldschmidt con cui una volta mi cimentai in una discussione sull'evoluzione. Mi parlò dei suoi mostri probabili, ovvero dei nuovi tipi che si formavano all'improvviso e, se si fossero rivelati migliori del tipo precedente, si sarebbero affermati nell'evoluzione. Allora gli dissi: “Ma professor Goldschmidt, come reagisce uno di questi mostri probabili rispetto agli altri membri della sua popolazione?” Mi lanciò un'occhiata assai perplessa e infine mi rispose: “Oh, non avevo mai pensato in questi termini”. Quindi, pensare in termini di popolazione era completamente estraneo alla sua forma mentis. E questo valeva anche per molte altre persone. Mi riferisco a molti degli studiosi dello sviluppo i quali, occupandosi di un unico ovulo che si sviluppa e diventa un organismo, tendevano a pensare secondo schemi tipologici. Non pensavano in termini di popolazioni di ovuli in via di sviluppo. Di conseguenza, la paleontologia, la morfologia e molte branche della biologia sono state caratterizzate da un metodo rigorosamente tipologico. Perfino negli studi del comportamento, il fatto che un elemento comportamentale, anche un meccanismo di stimolo specifico di una specie, possa presentare delle variazioni all'interno della specie, addirittura all'interno di una popolazione, non è stato mai preso in considerazione da alcuni di questi autori.

  Lei ha appena indicato alcuni argomenti di filosofia e di metodologia della scienza, o di epistemologia, che sono legati alla biologia. Negli ultimi anni, però, i filosofi hanno mostrato un interesse crescente nei confronti di un'altra dimensione, il cui carattere non è esplicitamente biologico, ma che ha certamente a che fare con la biologia, ovvero la biologia sociale. Pur essendo senz'altro un risultato importante del pensiero biologico, ha destato riflessioni, interesse e  discussioni anche tra i filosofi. Qual è la sua posizione in questo campo di studi e cosa ne pensa del contributo dei filosofi a questo dibattito?  

Per quanto riguarda la biologia sociale, mi sento molto ai margini. Infatti secondo me sia la letteratura dei sostenitori che quella degli oppositori è assai confusa. Se si riduce tutto ai minimi termini e si prendono le situazioni individuali descritte dai sociobiologi, si scopre che si riferiscono quasi sempre a casi di ciò che io ho definito vantaggio selettivo nella riproduzione. Si tratta di un campo scientifico perfettamente legittimo e i maggiori autori di questo campo, persone come Robert Trevis, Richard Alexander e qualche altro, non si definiscono neanche sociobiologi, né fanno alcun accenno alla parola biologia sociale nei loro scritti. Invece, gli oppositori, e soprattutto i marxisti, i quali per qualche strano motivo si sono opposti con veemenza alla biologia sociale, si rifanno al vecchio argomento natura-cultura, che tutti credevamo risolto in maniera approfondita e definitiva dal momento che praticamente non c'è una sola componente del fenotipo dei caratteri di una persona o di un animale che non subisca l'influenza sia dell'eredità sia dell'ambiente.

 

Se, per esempio, E.O. Wilson affermava che questo o quel fatto aveva una componente genetica, allora gli oppositori, i marxisti, immediatamente scrivevano che Wilson aveva affermato che quel dato comportamento era determinato dalla genetica. Questa non è una trascrizione corretta della sua affermazione, e ha portato una gran quantità di scalpore e di controversie inutili. A mio avviso alcune persone esagerano nell'interpretare i fenomeni che si verificano in natura secondo alcuni dei termini della selezione e della biologia sociale, ma in generale, i dati fondamentali presentati dagli esponenti maturi della sociobiologia sono fondati. E poi perché non dovrebbe aver luogo una selezione naturale di certi aspetti che favoriscono o non favoriscono il successo riproduttivo? Non riesco proprio a capire il perché di tante discussioni.

  Un altro campo che ha destato l'interesse dei filosofi è stato chiamato “epistemologia evoluzionistica”, ossia alcuni epistemologi hanno cercato di applicare determinate categorie e determinati concetti della biologia evoluzionistica per mettere a punto un approccio alla filosofia della scienza che tenti di utilizzare i risultati della biologia evoluzionistica. Lei si è occupato di questo problema nel suo recente libro sulla filosofia della biologia?

  Ho una gran quantità di libri, di ristampe e di altro materiale sull'epistemologia evoluzionistica a cui mi sono riproposto di dedicarmi l'estate prossima. Per il momento posso solo dire che la tesi fondamentale sostenuta da questi autori si rifà alle affermazioni che Konrad Lorenz ha fatto basandosi sulla lettura di Kant, secondo le quali certe caratteristiche del cervello predispongono le persone o gli altri animali a guardare le cose in un modo evoluzionistico. A mio parere, tutte queste affermazioni aprioristiche di Kant sono alquanto inconsistenti. A mio avviso le sue analoghe affermazioni in merito allo spazio e al tempo sono state in sommo grado confutate dagli psicologi, e penso che lo stesso valga per l'epistemologia evoluzionistica. È chiaro come il sole che le idee della moderna teoria evoluzionistica, fondata su Darwin, i concetti stessi di variazione, di selezione e così via, devono essere inclusi e presi in considerazione dall'epistemologia, ma la necessità di un'epistemologia evoluzionistica molto particolare, a sé stante, a mio avviso non è ben fondata.

  Un altro argomento che vorrei affrontare con Lei è il seguente: prendendo l'ottica, o il metodo di indagine di certe categorie darwiniane oggi alcuni studiosi del cervello e neuroscienziati, come il professor Gerald Edelmann di New York, tentano di spiegare alcuni campi d'indagine per tradizione di competenza della filosofia, per esempio la coscienza. Lei si è occupato di tale questione e ha scritto dei commenti su questi sviluppi. Le chiederei di spiegarci cosa ne pensa di questo tentativo di estendere il paradigma darwiniano - forse è questo il termine giusto - alle nostre sfere di studio e di spiegare le funzioni del cervello mediante questo paradigma.

  In passato a New York ho partecipato a un convegno su questo argomento presieduto da Edelmann. Il mio compito era essenzialmente quello di presentare in primo luogo la definizione che l'evoluzionista dà di termini come selezione e altri che i neurofisiologi della scuola di Edelmann ora applicano al campo della neurofisiologia. Alla fine tutto si è ridotto alla questione di quando un neurone più o meno non specificato finisce per diventare altamente specifico nell'esecuzione di un particolare compito e stabilisce particolari collegamenti con altri neuroni entrando a far parte di una nuova rete di neuroni. I cambiamenti che hanno luogo in questo neurone sono dovuti alla selezione oppure all'induzione, a un impatto con gli altri neuroni? Il dibattito mi ha indotto a pensare che era molto difficile tracciare una linea netta tra le due cose.

  Certo, i neuroni che riuscivano meglio in un dato compito erano quelli che alla fine rimanevano mentre gli altri, che non avevano un compito specifico, venivano riassorbiti e sparivano. Quindi, come vede, qui entra in gioco la selezione. Ma d'altra parte viene da chiedersi perché questi particolari neuroni sono riusciti tanto bene nel loro compito. In che misura hanno ricevuto ordini dall'ambiente per diventare così specifici? Qualche anno fa, a Monaco, tenni una conferenza sul rapporto tra il darwinismo e la filosofia a un pubblico piuttosto ostile.  Una persona in sala mi domandò come si era sviluppata la coscienza nel genere umano. Io risposi: “Prima mi dimostri che un'ameba non è dotata di coscienza e poi sarò ben lieto di rispondere alla sua domanda”. Calò un silenzio assoluto e subito dopo il pubblico scoppiò in una fragorosa risata.

  La coscienza è una cosa difficilissima da definire. Un'ameba che reagisce a certi stimoli dell'ambiente: perché non possiamo chiamare coscienza questa capacità di reagire e di ricordare la circostanza, e poi di reagire in seguito nello stesso modo? Perché tutto questo non dovrebbe essere una sorta di coscienza? Se risaliamo la scala dei mammiferi, delle scimmie e delle scimmie antropomorfe e via di seguito, sono sicuro che in questa discendenza scopriremo in misura sempre maggiore la presenza di ciò che i filosofi chiamano “coscienza”. Sono sicuro che la coscienza è una caratteristica del sistema nervoso centrale che immagazzina, che acquisisce predisposizioni a determinati comportamenti, che acquisisce una memoria e tutta una gamma di reazioni siffatte all'ambiente: questo è ciò che chiamiamo “coscienza”.

  Quindi, secondo Lei, le neuroscienze potrebbero pervenire a un grado di precisione molto maggiore nella definizione della funzione del sistema nervoso. La sua risposta mi fa venire in mente quello che lo stesso Darwin disse a proposito, per esempio, delle proprietà della mente: ciò che distingue l'uomo dagli animali non è che una differenza di grado, e questo non costituisce un salto tra la coscienza o la capacità di calcolare l'input proveniente dall'ambiente di una scimmia e di un uomo.

  Questo ci conduce a un fenomeno di cui i filosofi sono pienamente consapevoli. Ho scritto delle cose molto interessanti in proposito. Iniziamo da un termine affine, quello di mente. Che cos'è la mente? A rigore, non è che una parola che usiamo per designare l'insieme delle attività mentali di un organismo. Lo stesso vale per la vita. E' impossibile definire la vita. I primitivi pensavano che la vita fosse una sostanza definita che si trovava nel corpo e che fuggiva al momento della morte, ma ora sappiamo che non è altro che la parola con cui definiamo tutti i processi vitali che avvengono in un organismo. La mia concezione della coscienza è molto simile. Chiamano questo processo reificazione delle cose che in altre parole non sono che parole: non sono né un vero nome proprio, né una vera sostanza, né un vero corpo, niente di concreto, bensì qualcosa che descrive semplicemente l'insieme di determinati processi. Perciò questo è un campo di cui io, che non sono un filosofo, in realtà non dovrei parlare, dal momento che i filosofi dedicano molto del loro lavoro a questo problema della reificazione dei processi, e ne sanno molto di più di me. Tuttavia penso che molto spesso, per spiegare la vita, come ha detto qualcuno, si parte fin dall'inizio da una base che svia tutto il discorso. Dunque, è possibile descrivere i processi vitali, cos'è vivo eccetera, ma la parola vita implica l'esistenza di un oggetto definito e questo non è affatto vero. Un oggetto siffatto non esiste.

  Qual è la tesi principale della Sua escursione nella filosofia della biologia e il risultato delle Sue riflessioni come studioso di scienze applicate, storico e persona che ha avuto la modestia di dire di non essere un filosofo, ma che ha sempre partecipato attivamente nelle discussioni di carattere filosofico? In altri termini, qual è il tema centrale del suo libro sulla filosofia della biologia?

  Bene, mi considero come qualcuno che fa parte di una schiera di studiosi che hanno già riflettuto su tale questione: prima di tutto prendo coscienza di essere un membro del genere umano e del fatto che una delle preoccupazioni principali della mia vita dovrebbe essere il genere umano, inteso in senso lato nel suo complesso e in senso più specifico come quei particolari membri di esso con cui ho contatti più stretti: i miei amici, i miei studenti e così via. Penso che la mia filosofia di fondo sia di sforzarmi di fare tutto il possibile, dal momento che ho avuto la fortuna di entrare a far parte del genere umano, di ripagare il mio debito nei suoi confronti e di adoperarmi per il genere umano in tutti i modi possibili.

  Credo molto nell'affermazione fatta da Martin Luther King secondo cui non c'è privilegio senza dovere. Io ho il privilegio di essere un membro del genere umano e questo significa che ho il dovere di mostrarmi all'altezza di questo privilegio. Questo influisce su molte cose. Mia madre ha avuto una vita difficile perché è rimasta vedova quando era ancora giovane. Ha dovuto allevare tre figli piccoli, ma è sempre stata una persona allegra; non si è mai lamentata di nulla e aveva una filosofia stupenda, e cioè: bisogna sempre fare le cose per gli altri perché rende felici, ed era proprio quello che faceva. Questo fa parte anche della mia filosofia e concorda benissimo con la mia filosofia generale dei miei obblighi quale membro del genere umano. Ecco, questo secondo me è la base di tutto. Se utilizzo questa idea come parametro in tutte le situazioni che mi capitano nella vita privata, posso sempre applicarlo e arrivare alle decisioni che ritengo giuste.

  Qual è la linea principale del Suo libro sulla metodologia, o sulla filosofia della biologia? Quali questioni, a suo vedere, sono più importanti oggi tornando agli aspetti tecnici della filosofia della biologia?  

Non posso dire che ci sia un unico aspetto specifico da isolare e indicare come linea principale, ma senz'altro la linea principale è questa: nello momento stesso in cui ci allontaniamo dalla filosofia basata interamente sulla fisica, ci addentriamo in  un tipo di filosofia applicabile all'uomo. C'è un abisso enorme tra la filosofia della fisica di persone come Carnap o Hempel o Naegele. Ricordo un libro famoso di C. P. Snow che parlava delle due culture; affermava che da una parte c'è la scienza e dall'altra gli studi umanistici, e che vi è un abisso incolmabile tra le due sfere. In realtà Snow si riferiva alla fisica e alle scienze umanistiche, ed è vero che c'è un abisso incolmabile. Ma nel momento stesso in cui si estende il discorso alla biologia, entrano in campo numerose branche della biologia come la biologia evoluzionistica che per molti aspetti si avvicina di più alle materie umanistiche che alla fisica. Perciò, a mio vedere, questa è l'idea fondamentale del mio pensiero sulla filosofia della biologia e getta un ponte non solo verso gli studi umanistici in generale, ma anche verso i doveri e le azioni di ciascun individuo. Ci dà la possibilità di avere una Weltanschauung personale, una nostra filosofia, che per contro ci è impossibile trarre dalle scienze fisiche. Ed è proprio per questo motivo che do tanta importanza alla filosofia della biologia, perché è di gran lunga più significativa, pratica e applicabile di quella derivata dalla fisica.

  C'è un uso della parola "biovita" che attualmente interessa moltissime persone, ossia l'uso in un contesto filosofico come categoria della bioetica, ossia il tentativo di spiegare alla gente certe questioni inerenti alla biologia e i modi in cui esse incidono sulle persone e sulle loro vite. Come cittadino e grande scienziato, ha un'opinione in fatto di bioetica?

  L'etica umana, a mio parere, consiste di due aspetti, ha due radici: una, naturalmente, deriva direttamente dalla nostra origine animale -per esempio l'amore di una madre per il figlio è qualcosa di non acquisito, è presente in tutte le madri- e questo tipo di etica dell'idoneità insita è importante, ma probabilmente è una componente minima della nostra etica totale. L'altra è l'etica appresa, l'etica acquisita durante l'infanzia e durante la crescita a contatto con gli amici e gli insegnanti e così via. Questo tipo varia da una cultura all'altra: ogni cultura ha la propria etica. Alcune culture hanno un'etica molto valida, molto sana e queste culture sopravvivono a lungo; altre invece hanno un'etica malsana e, prima o poi, colano a picco. Secondo me la cosa importante è adoperarsi per un'etica che sia sana per l'intera comunità, e penso che in questo momento abbiamo qualche difficoltà al proposito. Per esempio, su cosa si basa l'etica cristiana? Fu formulata, per così dire, dai pastori, dalle comunità di allevatori del Medio Oriente che non vivevano in grandi città e ignoravano del tutto la cultura di massa o la tecnologia.

  A mio avviso un'applicazione troppo ristretta dei principii di quella particolare cultura alla nostra società moderna è controproducente e ci porterà al disastro. Penso che dobbiamo formulare dei nuovi principii etici: diverse persone lo hanno già fatto, ma trovano ancora molta resistenza. Per esempio, il più grande problema, il più grande guaio del genere umano è la sovrappopolazione, perciò dobbiamo formulare un'etica che prevenga il problema. Ma se, per esempio, alcuni leader religiosi o filosofi negano questo fatto e incoraggiano le donne ad avere quanti più figli possibile, questo, secondo me, è praticamente un crimine ai danni dell'umanità e dimostra che queste persone non hanno un'etica reale perché non hanno riflettuto a fondo su quello che succede agli altri e al genere umano nel suo insieme. La sovrappopolazione causa morte e sofferenza a milioni di persone ogni anno. Perciò coloro che incoraggiano la sovrappopolazione sono responsabili in prima persona di questa sofferenza e di queste morti. Ho detto queste cose in un programma radiofonico a Boston molti anni fa e sono ancora vere.

  Quindi l'etica deve fare i conti con la situazione reale e fare in modo che l'interesse collettivo non venga trascurato?

  L'etica deve andare di pari passo con i tempi. In ogni periodo insorgono nuove esigenze in fatto di etica. Come ho detto, in una grande società urbanizzata di massa c'è semplicemente bisogno di un tipo diverso di etica da quella di una zona rurale poco popolata. Questa flessibilità, che dovrebbe caratterizzare la nostra etica, è qualcosa che pochissimi etnologi hanno pienamente compreso.

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