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Tra universalismo e comunità

Giorgio Mezzalira



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La densità del documento richiederebbe sicuramente un pensiero più articolato delle poche note che spedisco; sono sprazzi di riflessione un po' disordinata, che spero possano essere di un qualche aiuto (così almeno sono pensati): visto da questo mese di aprile - e mi scuso per il ritardo di questa mia comunicazione - il documento mostra, se ancora ce ne fosse il bisogno, l'urgenza di produrre analisi capaci di discutere alcuni nodi dell'azione politica;

la cosiddetta "società civile", richiamata ormai troppo spesso per legittimare operazioni politiche vendute per buone, pare più una società messa in libera uscita dalla crisi delle tradizionali culture politiche di riferimento;

e in libera uscita mi pare anche quel "senso dello Stato" - ma sarebbe meglio usare il plurale -, che era rimasto appeso alla cultura politica democristiana, quanto a quella comunista;

domande di emancipazione irrompono, anche confusamente, nel sostanziale vuoto politico, fatta eccezione per chi - pur non fornendo soddisfazione a tali domande e nemmeno proponendo alcunchè di nuovo - riesce ad intercettarne il peso, semplicemente facendo da contenitore.

Autonomie, diritti fondamentali dell'individuo e garanzie, auto-determinazione, sovranità, inclusivismo... sono termini che disegnano contenuti di una cultura che vale la pena di iniziare a coltivare. Sono anche termini, però, che disegnano un ponte assai lungo tra due sponde assai lontane: la sponda sovra-nazionale, da una parte, e quella della piccola comunità - o area territoriale - dall'altra. In mezzo, mi sembra di capire dal documento, ci sono i resti di uno stato in agonia e una idea di cittadinanza, che garantisce in quanto esclude.

Messi in discussione patti costitutivi e idea di comunità ritagliata sui confini dello stato-nazionale, si tratta di stringerne di nuovi e di capire anche dove possono venire rispettati.

Mi ha intrigato non poco un passaggio del documento dove si avanza un "esempio inequivocabile di comunità", laddove si dice che è "comunità dei confliggenti uniti da quello che li divide e accomunati da differenze
comuni".

Rendo espliciti una serie di pensieri che mi sono venuti in mente: mi pare ci sia in questa definizione più che un avanzamento nella riflessione sul concetto di comunità e di appartenenza, un vero e proprio rovesciamento in termini della questione, che paga un debito forse troppo alto rispetto alla cultura della sinistra storica; provo a spiegarmi meglio: se si tratta di superare un concetto di comunità che nella sinistra storica è stato coniugato con la società armonica e con lo Stato, non è con il suo esatto contrario che si riconosce l'essenza della comunità. Mi sembra a questo proposito di vederne più un'immagine ipostatizzata, che non la sua necessaria declinazione (l'uso degli ossimori può non essere casuale).

Ricordo uno scritto di Alex Langer a proposito della questione "immigrazioni"; sosteneva che la garanzia dell'accoglienza" ha bisogno di proporzioni non eccessivamente squilibranti. E continuava, riferendosi ad un esempio sudtirolese, esponendo il caso della clausola - caso unico in Italia - della residenza quadriennale in Alto Adige per esercitare il diritto all'elettorato attivo alle regionali ed alle comunali. Concludeva la sua riflessione affermando che, in questo specifico esempio, una minoranza minacciata da erosione e da assimilazione ha un qualche diritto a esigere un più alto radicamento da chi viene a stabilirsi in loco. L'esempio citato, per quanto specifico e limitato, mi pare alluda sufficientemente alla complessità che sta dietro alla questione dei diritti e delle garanzie, quando si confrontano nelle concrete dimensioni territoriali di una pur piccola comunità.

All'europeismo come cultura dei diritti umani e come luogo del "pluralismo" si può e si deve chiedere di diventare l'ossatura dell'Europa. Credo anche che potersi richiamare, per far valere questi primati, ad un'entità sovra-nazionale, possa rappresentare quel riferimento, in termini di cultura politica dell'appartenenza, che finora è mancato. Sono però altrettanto convinto che una tale cultura per crescere e radicarsi abbia bisogno di confrontarsi molto da vicino con i processi, tumultuosi e contraddittori, con cui avanzano le "autonomie" e le "periferie". Penso alle dinamiche che hanno già messo in moto forme di auto-determinazione soprattutto a livello di modelli di sviluppo territoriali (molti e diversi nei caratteri e nelle velocità), penso agli egoismi e agli esclusivismi culturali che li supportano, penso all'esercizio di forme di "sovranità" date dai rapporti di "politica estera " che talune regioni intrattengono con Bruxelles... È in queste realtà che il ruolo della cultura e l'azione politica della terza sinistra dovranno sapersi collocare.

Se "una politica dell'emancipazione non deve essere soltanto agonistica e antagonistica" e se intende non limitare a compiti di supplenza il suo "universalismo", forse si tratta anche di riconoscere nel criterio della "compatibilità" una strada per dirigere ed equilibrare le scelte (e non solo quelle che possono riguardare l'ambiente).



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