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Ecologia e terza sinistra

Luigi Manconi, Eligio Resta, Massimo Scalia, Giuseppe Onufrio, Vittorio Dini



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Questo documento è un contributo alla riflessione che ormai da alcuni mesi attraversa le forze del centro-sinistra sulla quale Caffè Europa vuole aprire un dibattito con i suoi lettori.

"C'è la bellezza e ci sono gli oppressi. Per quanto difficile possa essere, io vorrei essere fedele a entrambi" (Albert Camus)

1. Oltre i confini

Dobbiamo avere il coraggio di mettere in discussione alcuni "confini" dell’osservazione e dell’azione politica: rispetto al tempo, allo spazio, alla tradizione, allo stesso linguaggio. Pensare in chiave di "generazioni future" e di "esseri viventi" modifica il presente e allarga il concetto di "prossimo"; ma allude anche a un’economia e a una demografia diverse. Ad esempio, mette in conto che, nel mondo, vivono circa sei miliardi di persone non appartenenti a paesi strutturalmente capitalistici. Di fronte a tali "inderogabilità" demografiche non c’è utilitarismo economico che tenga e non c’è politica nazionale che possa reggere. Il realismo e uno sguardo prospettico impongono altre dimensioni del discorso.

Qui, la nostra riflessione si lega al dibattito in corso in Europa, che verte, non a caso, sulle forme e sui contenuti di un’azione politica nuova; e ci sembra di poter condividere una parte delle proposte di chi, come Daniel Cohn-Bendit ("Liberation", 22-2-2000), parla di una "terza sinistra" che si proponga come un luogo in cui "pensare e vivere diversamente la politica". Pensare e vivere, appunto, senza mai scindere l’uno dall’altro, significa non ridurre lo spazio pubblico a gioco di alleanze e a scacchiere di strategie, ma ampliarlo costantemente all’ascolto dei bisogni e delle domande degli attori sociali e alle prospettive di comune emancipazione di cui essi sono portatori. Una terza sinistra non è dunque né a destra né a sinistra della sinistra, ma è aperta all’emancipazione, dovunque essa si esprima; e si batte contro tutte le forme di esclusione, dovunque esse si manifestino.

Mettere al centro il conflitto ecologico e sociale significa, appunto, dare profondità e spessore a un desiderio diffuso, latente e atomizzato, di emancipazione collettiva e a una irriducibile volontà di rivolta, latente e atomizzata, contro l’inaccettabile. Forse, in questo, c’è la ricerca del senso dimenticato della sinistra e di un rapporto forte tra etica e politica, da rintracciare nelle forme sempre diverse in cui la società lo propone. Tali forme cambiano e invocano strumenti di comprensione sempre più raffinati. Non si possono cogliere la specificità e la complessità dei compiti della terza sinistra senza ripartire da fenomeni come la caduta del Muro e il vorticoso avanzare della globalizzazione economica e finanziaria. Questo significa che le formazioni economiche e gli assetti culturali complessivi sono mutati rispetto a quelli che la sinistra era abituata a trovarsi di fronte.

Non si può costruire azione politica se non si parte, in primo luogo, dalla natura profondamente mutata del capitalismo che, con una certa civettuola arroganza, si è auto-definito come capitalismo sapienziale. Al di là delle sue tante forme (renano, alpino, anglosassone, asiatico, ecc.), esso si fonda sull’informazione più che sulla produzione, sulla universalizzazione dei mercati più che sull’accumulazione a scala nazionale. Questo significa soltanto che esso è diverso da quello tradizionale, non che è migliore né che è peggiore. L'attuale capitalismo ha visto aumentare la sua ambivalenza, che bisogna prendere sul serio e su cui bisogna lavorare. Espandere i mercati può voler dire andare incontro a bisogni diffusi, ma imporre scelte e indurre desideri a fini di profitto vuol dire governare la vita degli individui. Qui la terza sinistra deve essere in grado di contrastare tutte le forme di fondamentalismo che finiscono per crescere intorno all’economia capitalistica e la trasformano in imperativo modello etico-politico di vita.

Una politica dell’emancipazione non deve essere soltanto agonistica e antagonistica, ma deve lavorare in positivo, per trasformare i vincoli in risorse. Per questo facciamo nostro il progetto (indicato ancora da Daniel Cohn Bendit) di elaborare quattro profili di riflessione e di azione politica: a) responsabilità per il lungo periodo (principio di precauzione);

b) superamento delle logiche binarie (stato-mercato, capitale-lavoro);

c) scelta di una democrazia degli individui contro ogni totalitarismo della vita;

d) valorizzazione del pluralismo sotto forma di società, economie, culture diverse, in stretta comunicazione e in rapporto costante.

La cornice di tutto questo è un'Europa che si ponga come sede di un comune patrimonio e di una cultura dei diritti umani e che combatta ogni totalitarismo, compresa la sua crescente tendenza a ridursi a "burocrazia autoritaria".

Tutto questo impone un’auto-riflessione su cosa debba essere oggi un movimento ecologista e un movimento di sinistra radicalmente diversi dalle esperienze del passato.

2. Due sinistre, uno Stato

La sinistra è, innanzitutto, una "cultura" che si pensa orientata alla società (all’oikos) piuttosto che alla politica (polis); ai bisogni e ai diritti piuttosto che ai poteri. Essa guarda all’organizzazione della vita civile come capacità di autonomia e autogoverno piuttosto che come sistema di più autorità, dotate di comandi e di competenze: in termini di responsabilità, pertanto, piuttosto che di esoneri. Ma questo significa mettere in discussione la forma tradizionale dell’organizzazione della vita collettiva modellata sullo Stato; forma solo raramente e solo superficialmente scalfita dalla tradizione dei movimenti emancipativi e diventata, piuttosto, precondizione di ogni discorso politico.

Il pregiudizio a favore dello Stato (ovvero della dimensione statale/istituzionale e del primato del centro e della mediazione pubblica) appartiene alla politica, soprattutto alla politica italiana, prima ancora che alla sinistra. Se appare proprio della sinistra, fino a connotarla in tutte le sue componenti, è perché la sinistra si è maggiormente identificata con la politica, con la funzione di mediazione/trasformazione che a essa è stata assegnata; e, progressivamente, con lo Stato, specie quello "nato dalla Resistenza". Qui rintracciamo, oggi, un elemento robustissimo e letale di continuità: l'attuale sinistra si configura, infatti, come esasperatamente politicista (anche quando risulta meno statalista), dal momento che pare incarnarsi - ci riferiamo, qui, alla cronaca recente - in un governo nato dalla "disperata" forzatura della politica come manovra tattica e contingenza pragmatica.

Ma le radici dello statalismo sono più profonde, assai più profonde, nella storia e nella cultura italiana: stanno, per esempio, nella vocazione cortigiana degli intellettuali, nella tradizione centralista dello Stato liberale, nell'organicismo dello Stato fascista, nel dirigismo democristiano. Siamo il paese in cui perfino la Chiesa si è fatta (il suo) Stato.

La ragione sta, sinteticamente, nel fatto che la pulsione individualista al "particulare", non incontrando la rete di una forte e autonoma società civile, è rifluita verso approdi familistici, corporativi, campanilistici; e in quegli approdi, a rendere per così dire "dialettico" il rapporto tra sfera pubblica e sfera privata, l'accaparramento privato (o di gruppi o di ceti ristretti) dei beni e delle risorse pubbliche, è stato la norma.

Nel campo della sinistra, quel pregiudizio a favore dello Stato, ha lavorato in profondità, sottilmente e tenacemente, accompagnandone le traversie ideologiche e le peripezie organizzative. Cosi che, oggi, quel pregiudizio si ritrova, inalterato, in pressochè tutta la sinistra: a dispetto delle divisioni che sembrano lacerarla. Attenzione: le divisioni ci sono, eccome, ma la loro cristallizzazione ha sortito l'effetto di rendere le diverse sinistre l'una rigidamente speculare all'altra, e l'una strettamente indispensabile all'altra. E, così, la scellerata teoria delle "due sinistre" è diventata - in breve tempo, e con poche eccezioni - opzione egemonica nel senso comune delle aree culturali e politiche che alla sinistra fanno, variamente, riferimento.

In altri termini, quella teoria, di derivazione classicamente estremista, è stata introiettata nella mentalità e nei comportamenti e, perfino, nell'idea di sé che la gran parte dei militanti di sinistra coltiva: al punto da suggerire una sorta di "adeguamento" progressivo allo schema proposto, anche quando esso, formalmente, viene rifiutato. L'auto-identificazione rigidamente duale e l'aggressività polemica che contrappone le due aree, ha prodotto un ulteriore processo di semplificazione e di riduzione: esaltando , per un verso, le primarie opzioni di fondo (quelle che apparivano come le opzioni di fondo) e, per altro verso, le differenze in negativo. In altri termini, è come se l'alternativa fosse ancora: "Riforma sociale o rivoluzione".

Il carattere fallace di una tale contrapposizione non consiste solo nella sua sostanziale futilità: ma, ancor più, nel fatto di discendere e di dipendere da una e una sola cultura politica, di cui "riforma" e "rivoluzione" costituiscono la variabile "moderata" e quella "estremista".

Ma la cultura è e resta una e una sola, limitandosi a presentarsi, di volta in volta, come versione ragionevole o irragionevole, progressiva o accelerata e, ancora, moderata o estremista. Ma - al di là del peso, rilevantissimo, rappresentato dalle tradizioni e dai retaggi ideologici, e fin "antropologici" - qual è il fondamento che unifica quella cultura politica? E la unifica al punto da rendere meno significativa la diversità delle strategie politiche adottate rispetto all'opzione teorica che ispira entrambe? Crediamo che quel fondamento sia costituito appunto - in primo luogo - dalla concezione dello Stato, coltivata quasi uniformemente da tutte le componenti della sinistra.

Tale concezione può sintetizzarsi nei seguenti termini: primato dei diritti sociali su quelli individuali; primato della sfera pubblica su quella privata; primato del centro sulla periferia; primato dell'istituzione sul movimento; primato della mediazione sul conflitto. Evidentemente, la tensione tra queste cinque coppie di categorie si è col tempo attenuata o, in qualche caso, significativamente modificata, ma una concezione dello Stato affidata a quei cinque primati resta l'elemento qualificante e unificante di una teoria e di una strategia altrimenti destinate a disgregarsi.

Quelle coppie, come si è detto, oggi tendono a disporsi diversamente. Non c'è dubbio, in altre parole, che il secondo termine di tutte quelle coppie ha assunto una diversa pregnanza rispetto al passato, anche recente: e che, per intenderci, i diritti individuali o il federalismo ottengono, oggi, un maggiore interesse all'interno della sinistra. Ma restano inalterati l'approccio e la gerarchia delle priorità. E questi rimandano, infallibilmente, alla centralità dello Stato nella concezione del sistema politico e dell'azione pubblica elaborata dalla sinistra. Tutto ciò risulta ampiamente confermato anche dalla cronaca politica, che vede, a sinistra, una sottovalutazione nei confronti delle garanzie individuali e dei diritti della persona e una impostazione tuttora statalistico-autoritaria (ad esempio, del problema della propaganda politica televisiva).

Dunque, è proprio quella concezione statocentrica che va criticata, destrutturata e abbandonata. Ed è questa attività di critica, e di elaborazione di una concezione diversa, che può fondare un programma di sinistra terza, che trovi le sue ragioni costitutive altrove rispetto alla sua fondazione in capo allo Stato.
Le "due sinistre" - è agevolmente dimostrabile - mai hanno abbandonato quell'identità costitutiva. La concentrazione sullo Stato, da "abbattere" o da "conquistare", da "riformare" o da "amministrare", resta la vera (forse la sola) residuale radice "marxista" e "leninista" della strategia della sinistra nel suo complesso.

Unitamente a questo, e in conseguenza di questo, pesa (e molto) la persistenza di una concezione toponomastica dello spazio politico, dove - lungo la linea del continuum destra-sinistra - si disporrebbero le diverse formazioni, ordinate secondo una gerarchia di intensità della quota di sinisteritas che esprimono. E la sinisteritas presuppone un sistema politico costruito su una "rappresentazione lineare-assiale. In essa, ogni posizione ha un proprio topos, ben definito, è soggetto a un Nomos inflessibile. (…) L'intero sistema è interpretato misurando, di volta in volta, la distanza che separa le diverse forze da questo centro. Il tutto presuppone piena stabilità e trasparenza nei valori che caratterizzano i diversi topoi. Tali valori sono, per così dire, obbiettivati in questi luoghi, così che i diversi soggetti in movimento lungo l'asse del sistema si trovano ad assumerli, a seconda della propria collocazione". In estrema sintesi, l'intero sistema politico dipende dalla "obbiettivazione dei valori ai diversi topoi politici sistemati sull'asse destra-sinistra (sono di sinistra poiché qui mi colloco, e cesso di esserlo quando mi colloco altrove)" (Massimo Cacciari).

Quanto sia fragile una tale rappresentazione toponomastica e "obbiettivata" è dimostrato, in ultimo, da un esempio eloquentissimo: secondo quella scala di valutazione, un presunto indicatore della sinisteritas, come il rifiuto del rientro in Italia dei Savoia, collocherebbe nella casella estrema di quel continuum il partito della Rifondazione comunista, il partito Repubblicano e alcune componenti e alcuni esponenti della sinistra tradizionale. Ma, giusto per intenderci, il principio della responsabilità individuale - in una vicenda come quella dei Savoia - ci sembra assai più qualificante di una concezione matura di terza sinistra rispetto a quello della responsabilità dinastica ed ereditaria. L'esempio è più significativo di quanto si possa credere: anche in tal caso, infatti, a determinare la posizione di "falsa sinistra" (ci si passi la brutta formula), è la convinzione del primato dello Stato e dell'ideologia di Stato (nazional-repubblicana) sui diritti individuali della persona. E una seconda motivazione, più raffinata, rivela anch'essa la medesima radice statolatrica: ovvero l'attribuzione allo Stato e alle sue leggi (e ai suoi divieti) di un ruolo "pedagogico". Una "pedagogia" destinata, in questo caso, a perpetuare (normativamente) la memoria e a produrre (normativamente) informazione ed educazione (repubblicana) nei confronti dei cittadini.

Ed è la stessa opzione che determina un atteggiamento "laicista" in tema di parità scolastica. Assegnare allo Stato, com'è giusto, la funzione di garantire a tutti l'accesso a una istruzione libera e pluralista, non deve significare - in alcun modo - riconoscergli un proprio progetto pedagogico: appunto, statuale-nazionale-repubblicano. E, tanto meno, esigere che a quel progetto pedagogico si uniformino scuole, docenti e alunni. In estrema sintesi, si può ipotizzare un approccio alternativo che preveda: a) il primato dello Stato rispetto alla funzione di controllo delle regole e del rispetto di diritti; b) il primato dello Stato rispetto alla funzione di garanzia dell'universalità del diritto all'istruzione; c) il primato dello Stato rispetto alla funzione di tutela delle pari opportunità e dell'equità sociale. Ma tale approccio risulterà fecondo solo se saprà rifiutare il primato dello Stato rispetto alla funzione sociale della sfera educativo-formativa.

Ancora un esempio. Se costretti a scegliere, oggi, tra diritti individuali e diritti sociali all'interno del mercato del lavoro, nell'impossibilità di conciliare le due categorie (come vorremmo), riteniamo di dover privilegiare la prima. Per intenderci: tra l'estensione dello statuto dei lavoratori alle aziende con meno di quindici dipendenti e la piena parità salariale, è la prima rivendicazione quella maggiormente qualificante.

Si tratta, palesemente, di un esempio "estremo", ma che ci offre un efficacissimo criterio per definire una identità di nuova sinistra, capace di emanciparsi dai fondamenti culturali e di senso comune, propri della sinistra tradizionale. Da questo punto di vista, la critica di una impostazione economicista, che privilegia la parità salariale rispetto alla più ampia inclusione nel sistema dei diritti e delle garanzie, è utilmente "scandalosa": e significativa, appunto, di un approccio radicalmente diverso da quello convenzionale.

Un esempio altrettanto efficace è quello relativo all'abolizione della leva obbligatoria. Per decenni, a sinistra, ne è stato difeso il valore "nazionale" e "unitario-repubblicano": in altri termini, l'utilità della leva obbligatoria come funzione dello "Stato democratico". Oggi è "assai inquietante che la sinistra più radicale torni (…) a difendere quella forma di lavoro coatto al servizio dello Stato che è la coscrizione obbligatoria". E, d'altra parte, "anche il servizio civile, istituito come alternativa obbligatoria a quello militare, dev'essere inteso come un lavoro coatto, come sfruttamento e attentato alla libertà di scelta" (Marco Bascetta, il Manifesto, 4.9.1999).

Lungo questa traccia di riflessione, va costruita una cultura diversa, a partire dall'elaborazione intorno a quelle coppie di concetti (diritti sociali/diritti individuali; sfera pubblica/sfera privata; centro/periferia; istituzione/movimento; mediazione/conflitto) e a un diverso equilibrio tra i termini che, quelle coppie, compongono. Dunque, in questo documento, svilupperemo alcuni dei punti più significativi di una proposta politica che, intorno a una possibile aggregazione di terza sinistra, prova a focalizzare la nuova tensione e il nuovo equilibrio tra la periferia e il centro, tra i diritti individuali e le garanzie sociali, tra la sfera privata e la sfera pubblica, tra il conflitto e la mediazione, tra il movimento e l'istituzione, tra la sperimentazione di nuovi sistemi di azione e le forme classiche della politica.

3. Centro e periferia, periferia e centro

La sinistra - sarebbe meglio usare il plurale, come si è detto - ha inseguito e finito per assumere come perno del proprio modello politico la forma e il sistema di Stato che hanno caratterizzato la storia del mondo dal '600 a tutto il '900. Lo sviluppo delle grandi identità politiche, innanzi tutto: le nazioni e gli stati nazionali come grandi costruzioni delle realtà territoriali, etniche, economiche e culturali. All'interno, un modello politico e amministrativo dominato da una forma di governo della società espressa nella rappresentanza e nella delega che assumono carattere assoluto. Il governante rappresenta il corpo dei governati. Sovranità e rappresentanza costituiscono il cuore della moderna politica: ogni forma di democrazia è all'interno di tale predominio. In nessun caso, la partecipazione attiva del cittadino può essere l'inizio e il fine della politica. E la sovranità è il centro, punto nevralgico di scelta e di decisione, e di sintesi delle dimensioni che la periferia del potere raccoglie ed esprime. Si può decentrare, vale a dire rimettere dal centro alla periferia alcune istanze di amministrazione, ma risulta eversiva ogni espressione autonoma della periferia.

Questo modello politico è stato dominante per tre secoli. La sinistra l'ha seguito e inseguito, nel tentativo di rovesciarne gli aspetti inaccettabili per le classi oppresse. Il modello fondato sulle grandi identità collettive - classe, partito, Stato - è stato così ribaltato. A classe, partito e Stato borghesi, si oppongono classe, partito e Stato di diversa qualificazione. Caso classico - per la sinistra, tanto rivoluzionaria che riformista - di inversione e scambio tra mezzi e fini. Dal momento che lo Stato moderno è la struttura del potere delle classi dominanti, è a quel livello - con la rottura radicale o con la riforma democratica - che deve rivolgersi l'azione delle classi subalterne. Il sostantivo nella sua potente rappresentazione di stabilità e di sicurezza - stato come participio passato del verbo essere - è indiscutibile; quello che si può modificare è l'aggettivo che lo accompagna: assoluto, liberale, proletario, socialista, democratico, eccetera. In ogni caso, il centro detiene sovranità e potere. Può, naturalmente, decentrare alcune delle sue prerogative. Può anche riconoscere e coordinare, con le proprie articolazioni, autonome forme di amministrazione che si esprimono nella periferia. E' il caso del federalismo, nelle sue diverse espressioni storiche (aggregazione di autonome sovranità locali; decentramento di funzioni e poteri).

Oggi, quel modello di Stato e di potere rivela irreversibili segni di crisi, che si manifestano sia nella difficoltà dello Stato-nazione ad affermare autonomia e prerogative rispetto ai processi di globalizzazione, sia nella crescente impotenza della politica a esprimere rappresentanza (basti pensare ai livelli sempre più ridotti di partecipazione politica). Ma crisi non comporta la conclusione di un'esperienza né un esito già prevedibile e, tanto meno, positivo. La terza sinistra deve agire proprio su questo terreno di crisi, individuandone i passaggi più acuti e fertili.

Soprattutto, si tratta di assumere un punto di vista radicale: non tanto sul terreno delle forme di lotta, quanto su quello della qualificazione ideale e materiale del modello politico. Occorre sostanziare le rivendicazioni di libertà e di eguaglianza sul piano dell'elaborazione, e della conquista, di una effettiva autonomia. Tutti i modelli di sviluppo guidato dal centro hanno esaurito la loro carica positiva (peraltro già scarsa e scadente); all'ordine del giorno è la costruzione e il riconoscimento di forme di autogoverno e di autogestione nei luoghi della periferia .

4. I diritti e la democrazia

La sinistra ha rappresentato il fattore più forte dei processi di emancipazione e di modernizzazione che si sviluppano a partire dal 18° secolo: ma, si diceva, dentro la cornice definita dall'idea di comunità politica, che si afferma in Europa dopo la pace di Westfalia (1648).

Di quella riorganizzazione dello spazio geo-politico europeo la sinistra è figlia, e il suo antagonismo è disegnato dentro quei confini. Questo significa che l'intero cammino dei diritti individuali (prima civili e politici, poi sociali e, oggi, della terza e della quarta generazione) era concepibile, e percorribile, soltanto all’interno dei giochi della rappresentanza e della governabilità degli spazi territoriali delle costruzioni statuali. Come sosteneva Marx, la "storia, quando arriva ad un bivio, prende spesso la strada sbagliata". Le condizioni della politica nell’Europa post-Westfalia hanno fatto sì che o si era cittadini di Stati o non si era soggetti: così i diritti risultavano, pur sempre, elargizione del potere statuale e, hegelianamente, dipendevano da esso. Tutto ciò ha prodotto importanti conseguenze in termini di spazi "pubblici" della vita collettiva, di realizzazione dei diritti, di immagini delle comunità politiche. Ma, soprattutto, quella dimensione configurava un modello di "mondo vitale" e di comunità politica sempre piccolo, locale, affrontabile e governabile con i limitati strumenti delle altrettanto piccole comunità di potere.

Qui il legame tra culture dei diritti, spazi pubblici della cittadinanza e modelli ambientali è visibile e molto forte. Tuttora la sinistra tende a dimenticarlo o, addirittura, a misconoscerlo: soprattutto oggi, quando le tematiche ambientali riportano il problema della tutela dei diritti individuali a dimensioni planetarie, non riducibili dentro il vestito stretto delle comunità statali. E vale per l’ambiente quello che, già da tempo, emerge in termini di politica delle risorse, di sostenibilità complessiva dello sviluppo e di equità sociale: bisogna fare i conti, sempre più, con alcune irriducibili variabili demografiche, che non consentiranno più di pensare nei termini etnocentrici consegnatici dalla tradizione della vecchia Europa: se non altro perché i flussi migratori imporranno la nascita di culture comunitarie diverse tra loro, e imporranno un nuovo "politeismo".

A tale "politeismo comunitario" si aggiunge una inattesa configurazione della geopolitica. Rispetto alla classica diarchia capitalismo/comunismo, che ha connotato larga parte della storia degli Stati moderni, la "caduta del Muro" ha prodotto una profonda alterazione culturale del quadro: venuto meno il mondo del comunismo organizzato, si sono riversati sul capitalismo bisogni, domande, aspettative di giustizia sociale che quel mondo scomparso, perlomeno, diceva di rappresentare. Così sono aumentati i compiti delle democrazie capitalistiche occidentali e si è enormemente complicata l'elaborazione di fini e strumenti per le sinistre che hanno assunto poteri di governo.

A questa analisi occorre aggiungere l’importante capitolo dei conflitti generazionali - sempre più profondi e sempre più visibili - che dal terreno dell’economia si diffondono nelle altre sfere della società; e che appaiono come l'esito immediato di un idea e di una prassi dello sviluppo, costruiti intorno ai paradigmi, ormai inadeguati, di una vita produttiva imperniata su fabbrica e campagna. La dimensione del lavoro bodyless, timeless, deskless, cioè disancorato dal tempo misurato e dal luogo circoscritto, ne è soltanto la ricaduta evidente. Dal punto di vista della simbologia culturale, la centralità assunta dal corpo, dal tempo, dal genere, sia pure sotto forma di bisogni indotti dai cambiamenti tecnologici, è la spia - tra l'altro - dell'inadeguatezza della tradizionale elaborazione politico-culturale della sinistra.

Tutto questo mette in discussione non soltanto l’impianto etico-politico costruito intorno alla chiave di volta del "collettivo" e del "comunitario", sempre più conflittuali e sempre più attraversati dalla ricchezza (anche dissipativa) dei tanti collettivi e delle tante comunità. Tutto questo mette in discussione anche le forme dell'azione politica e l’impianto della comunicazione pubblica. C’è uno spazio importante, significativo e trascurato, che va ripensato: è lo spazio di una democrazia costruita sui diritti, innanzitutto individuali, il cui contrario è la democrazia costruita sui poteri. Uno spazio lasciato vuoto, nella tradizione post-Westfalia, tanto dalla destra quanto dalla sinistra. Dalla destra, che ha soltanto evocato libertà, ma non responsabilità e doveri connessi né tantomeno uguaglianza (e si trattava di libertà che avevano come perno il diritto di proprietà, affidato al mercato senza regole, e l’egoismo possessivo a esso correlato).

Ma anche la sinistra ha lasciato vuoto quello spazio: pur preoccupandosi dei diritti fondamentali e dell’uguaglianza a essi connessa, ha sempre dato una versione, per così dire, "doppia" e "giacobina" della democrazia dei diritti. Ha considerato i diritti, e le forme della democrazia su essi imperniate, come "corrente fredda", che aveva valore, ma fino a un certo punto: mentre la "corrente calda", quella che anima la storia e per cui è giusto e opportuno combattere, è rappresentata dalla politica. Va tutto bene quando la politica vince e quando socializza (meglio: universalizza) mezzi e fini; diventa un problema quando riduce tutto a logica di potere e a gestione dall’alto. La ricaduta si è vista, più di una volta, nella parabola dei governi europei ed è stata identificata con la formula "teoria conservatrice della crisi".

Detto ciò, emerge chiaramente che obiettivo della sinistra terza è quello di vivificare tale spazio "invisibile" che, come l’anello di Clarisse, attende di essere colmato. Quello spazio ha l’indubbio merito di costituire il punto di congiunzione tra liberalismo e comunitarismo e di rappresentare l'occasione di raccordo tra la dimensione privata e la dimensione pubblica. Il diritto di ognuno è bene comune di una comunità politica, che scommette sui patti e sui fini condivisi; e questo - va aggiunto - fa parte della storia, sempre evocata ma finora mai vincente, del grande costituzionalismo europeo. Valga l’esempio della Costituzione francese del 1793, che definiva le "garanzie sociali" di una comunità politica come risultato del doveri di tutti di rendere effettivo il diritto di ognuno, legando indissolubilmente diritti individuali e politica collettiva. Questa concezione, notoriamente, è sempre stata trascurata.

Per riprenderla con forza, l'attenzione va concentrata su soggetti e contenuti dei diritti. E qui l'innovazione deve essere radicale: soggetti non sono soltanto i cittadini, ma ognuno, indipendentemente da nascita, sangue, cultura, cittadinanza. Il nodo più ingarbugliato sta nello stabilire quali siano i diritti fondamentali che una comunità politica deve garantire come entitlement (titolarità) e come provisions (risorse): e che sono condizione necessaria, anche se non sufficiente, per una vita democratica. Qui la cultura della sinistra deve riscoprire un universalismo dimenticato: sono fondamentali quei diritti che comportano il massimo di inclusività, cioè quei diritti di cui il singolo non può isolatamente godere se contemporaneamente non ne godono tutti gli altri (come l'aria e l'acqua). Garantire tali diritti significa assicurare la base di un’uguaglianza complessa e di una libertà matura, che consentano a ognuno di esprimersi e di scegliere ulteriormente la propria personale dimensione di vita. Questo significa concretamente conoscere quello che si mangia e quello che si beve, le condizioni sanitarie e quelle abitative, le scelte educative e quelle sessuali. E qui si colloca il grande campo delle scelte bio-etiche, da considerare non soltanto nella chiave del rifiuto della "manipolazione", ma anche in quella della libertà di ognuno e della sovranità su se stesso.

Dal punto di vista teorico-politico, va detto che scegliere la via della sfera pubblica dei diritti individuali significa il deciso superamento del conflitto tra liberalismo e comunitarismo. Nella prospettiva della terza sinistra si guarda a una comunità come al luogo degli individui, dei loro bisogni e delle loro libertà, delle loro preferenze e dei loro desideri, che non possono che essere condivisi da tutti gli altri. Lo si può chiamare "egoismo maturo" o "individualismo generoso" o in mille altri modi, ma sempre esso vuole rappresentare l’universalismo che persegue la valorizzazione delle differenze e del "plurale": e non, certo, l'universalismo imposto dall’alto e inteso come sacrificio della individualità. Sappiamo, infatti, che l’universalismo astratto divide e che le differenze reali possono accomunare. Questa appare la prospettiva di una possibile emancipazione e questa si rivela una via politica da perseguire con intelligenza.

5. Sfera pubblica e sfera privata

La contrapposizione sfera pubblica/sfera privata è rivelatrice del robusto impianto comune che innerva "le due sinistre". Quella contrapposizione si manifesta attraverso due fondamentali riflessi condizionati: a) il pregiudizio positivo a favore dello Stato riguardo alle sue competenze economiche e sociali; b) l'attribuzione allo Stato della tutela del bene comune sul piano dei valori unificanti e dell'etica collettiva. Le "due sinistre" condividono tali riflessi condizionati: la sola differenza consiste nella diversa intensità con cui li avvertono e li manifestano. D'altra parte, ciò che qualifica una sinistra terza non è il fatto di nutrire un pregiudizio positivo nei confronti della sfera privata; e, tuttavia, essa paventa la fragilità di quella sfera privata nel confronto col potere statuale, ne valorizza la vitalità e l'iniziativa, ne difende le primarie e inviolabili garanzie costitutive. E, soprattutto, valuta l'utilità e l'efficacia delle prestazioni e dei servizi, delle risorse e delle competenze di quella sfera privata sulla sola ed esclusiva base dei risultati conseguiti. Per intenderci, sul piano delle politiche dell'occupazione, in alcun modo si può attribuire allo Stato-imprenditore un primato o un ruolo privilegiato rispetto ad altri soggetti imprenditoriali; nessuna esaltazione o assolutizzazione (tantomeno "ideologica") della libera iniziativa, ma nessuna compiacenza o protezionismo verso l'economia pubblica, se non sulla base dei risultati: ossia dei veri posti di lavoro effettivamente creati.

Il punto di partenza è, dunque, semplice: la sfera pubblica dell'economia non coincide né con la sfera dell'economia pubblica né con il pubblico della sfera economica. E' qualcosa di differente, coinvolge dimensioni della vita di ognuno, ma non si esaurisce nella contabilità del dare e dell'avere né nel bilancio di costi e benefici. La sfera pubblica valorizza le iniziative individuali, ma si preoccupa dell'accesso di tutti ai beni fondamentali; non si confonde con l'antitesi economia privata/economia pubblica, ma costruisce reti di tutela e di accesso per i diritti di ognuno. Libero, ognuno, di esercitare preferenze, ma libero, certo, di fruire di (e di contribuire a) risorse comuni, definite dagli ambiti dei beni comuni. E vale per i beni fondamentali quello che vale per i diritti fondamentali: si tratta di quei beni di cui non posso individualmente godere se nello stesso istante non ne godono tutti gli altri (la vita, l'ambiente, l'informazione, l'istruzione). Una sinistra terza deve recuperare questo universalismo e vincere quell'antropologia dell'invidia ("ne godo io perché non ne godono gli altri"), su cui poggia ogni manifestazione di fondamentalismo capitalista. Proprio nella sfera pubblica, va detto, non c'è spazio per quella "invidia", costruita sulle diverse forme di egoismo possessivo. La sfera pubblica è quella che meglio rappresenta e tutela le sfere private: ciascuna di esse e il loro complesso. Le politiche pubbliche, quindi, dovranno avere come obiettivo un allargamento della sfera pubblica e un suo maggiore consolidamento. Ciò anche in presenza di (se non grazie a) una limitazione quantitativa e qualitativa dell'intervento statuale.

In questo quadro, politica pubblica non deve comportare né l'abbassamento della soglia della ricchezza da redistribuire, né una scelta pauperista, affidata interamente a una strategia di sussidi e di "minimi vitali".

E tuttavia, precisato questo, resta da chiedersi se - su temi come la questione previdenziale e assistenziale e quella dei servizi sociali - sia possibile perseguire la riduzione della tutela pubblica, gestita dall'intervento statuale (centrale o decentrato), al minimo indispensabile.

Sia chiaro: la riduzione al minimo indispensabile va perseguita progressivamente, con la massima attenzione per l'equità sociale e per gli equilibri complessivi del sistema; e, soprattutto, va garantito che la tutela di tutti i bisogni primari sia sottratta all'arbitrio del mercato e dei rapporti dispari e asimmetrici tra i diversi soggetti che vi operano.

Questo può comportare (probabilmente deve comportare), e per una fase non breve, un sistema di welfare non più "corto" né meno "costoso". E, infatti, la riduzione al minimo indispensabile della tutela pubblica per i bisogni primari non comporta affatto minore tutela per ognuno di quei bisogni; e nemmeno significa che debba diminuire il numero dei bisogni primari tutelati o l'ampiezza della platea dei beneficiari. Al contrario. Il pacchetto di prerogative irrinunciabili tende ad allargarsi e a differenziarsi e richiede una protezione più complessa e sofisticata.
Esemplare il caso dell'assistenza sanitaria, dove - accanto alle terapie per la salute psicologica - vanno previste le cure e le medicine non convenzionali; e dove, indubbiamente, l'assunzione come essenziale del principio della libertà terapeutica può rivelarsi assai "costoso".

L'ampliarsi delle opportunità messe a disposizione dal riconoscimento della libertà terapeutica impone, per un verso, la diversificazione dei servizi accessibili dopo la soglia minima; e, per altro verso, esige selezione delle spese e ingenti risparmi. Il che sarà tanto più possibile quanto più si terrà conto dei mutamenti intercorsi nelle forme di vita e nelle stesse aspettative e modalità di cura (si pensi soltanto al passaggio dal ricovero e dalla permanenza in ospedale al ricorso al day hospital).

In questa prospettiva, va accolta la linea di politica della sanità disegnata dalla recente riforma, che differenzia la sanità pubblica da quella privata nella riserva di accesso universalistico e nella sottrazione del diritto alla salute a logiche di mercato relativamente a strutture, competenze e, non ultimo, fruizione.

Va ribadito, infatti, che l'attenzione per la sfera pubblica non si risolve in una singola scelta o nel primato di un elemento, ma è il risultato complessivo di politiche che attengono

a) alla definizione del bene, non privato e inclusivo;

b) alle modalità di accesso, uguali, informate, controllabili;

c) alla circolazione delle risorse e alla capacità di massimizzare i benefici sociali per la quota più ampia di popolazione.

Da questo punto di vista, andrebbero ripensati alcuni meccanismi di formazione e di erogazione di quote di servizi (dai trasporti alla scuola). Ma un esempio sugli altri va introdotto, ed è quello relativo alla politica di donazione degli organi. Per quanto sia apprezzabile il tentativo di ridurre la scarsità dei beni (pubblici) da destinare al trapianto non appare adeguato l'attuale meccanismo di "consenso informato" (opting in) o, peggio, di mancata manifestazione contraria di volontà (opting out). La donazione coinvolge quote di solidarietà (e di comunitarismo) molto alte e, perciò, va coltivata con il massimo dell'informazione partecipata, nel rispetto delle più diverse forme identitarie (etiche, culturali, religiose), e non attraverso il paradossale comando dell'obbligo a donare. Analogo discorso va fatto per la questione delicata delle informazioni genetiche: patrimonio importantissimo che può configurarsi come "bene comune". Va sottratto, quel bene, a logiche di appartenenza (di un individuo, di un gruppo etnico, di una entità territoriale) e va utilizzato ai fini della più estesa massimizzazione dei suoi risultati: per questo non va subordinato a mercati e a brevetti. Va valorizzato, piuttosto, l'aspetto di conoscenza sociale che quel bene contiene e, nello stesso tempo, va garantita l'effettiva tutela del singolo individuo che di quel bene partecipa.

In un tale contesto di espansione e qualificazione delle prestazioni, ridurre al minimo indispensabile la fornitura pubblica di servizi significa diversificare anche - soprattutto? - le fonti di loro finanziamento. In altri termini, come si è anticipato, la conformazione universalistica dei servizi non viene certo compromessa (e, sotto il profilo finanziario, può risultare rafforzata) dal fatto che, ad alimentare le risorse necessarie, concorrano - in misura che può risultare prevalente - i diversi soggetti, anche privati, del mercato.

I rischi di tale soluzione sono evidenti: il primo è che l'intervento pubblico si riduca, nonostante tutto, a una dimensione residuale, e che i suoi destinatari - residualmente, appunto - si limitino a essere "i poveri". E, poi, che la qualità anche delle prestazioni fondamentali possa risultare gravemente diseguale, discriminatoria e penalizzante per le fasce sociali meno garantite. Esistono, infine, rischi altrettanto gravi per l'equilibrio complessivo del sistema: "per aree strategiche del vivere civile - come scuola, previdenza, sanità - i mercati presentano elevati gradi di incompletezza o addirittura di inesistenza"; e "quand'anche esistenti e relativamente completi, essi spesso operano a costi e prezzi maggiori di quelli che sarebbe teoricamente possibile" (Laura Pennacchi).

Questi pericoli sono indubbiamente assai seri e non vanno sottovalutati, ma non sembrano tali da ridurre, di necessità, le "adeguate dosi di universalismo" che la Pennacchi rivendica, che riteniamo indispensabili e che ci sembrano conseguibili attraverso sistemi diversi da quelli tradizionali. Certo, si può ipotizzare che una nuova "crisi fiscale" dello Stato - evidentemente da scongiurare - possa essere l'esito dell'incremento di quelle "dosi", ovvero dell'espansione della platea dei destinatari di prestazioni universalistiche (gli immigrati non comunitari, ad esempio) e dell'allargamento del ventaglio delle prestazioni stesse. Ma è proprio qui che il ricorso all'alimentazione finanziaria offerta dalle imprese e da altri soggetti del mercato può risultare assai importante. Sotto il profilo teorico, la nostra attenzione si concentra su quella che abbiamo definito la sfera pubblica dell'economia: ovvero il complesso delle garanzie giuridiche e sociali e delle reti di tutela che assicurano l'accesso ai beni comuni. Questo ci interessa assai più di quanto ci prema sapere "chi paga" la costituzione e la fruizione di quei beni comuni.

Per altro verso, riteniamo prioritario, in questa fase, operare nel senso della riduzione e della selezione: individuare e circoscrivere, dunque, le aree di funzioni, competenze e servizi che devono restare proprie ed esclusive dello Stato, e "liberare" tutte le altre. Quest'opera di individuazione è appena agli inizi e non deve dare nulla per scontato.

6. L'eresia economica ecologista

Un approccio innovativo, per la sinistra, al rapporto pubblico/privato nel campo economico può intersecarsi efficacemente con la riflessione critica sui fondamenti dell'idea di sviluppo, come ci è stata trasmessa dall'intera cultura progressista e dall'economia classica. Non è una riflessione recente.

Il riferimento obbligato è il concetto di limite nello sviluppo. Ci riferiamo al rapporto Forrester del '68-69 che poi divenne, su commissione del Club di Roma al Mit, il famoso "World Dynamics", in cui - nell'affermare i "limiti dello sviluppo" - si illustrava come la crescita quantitativa e illimitata fosse incompatibile con la salvaguardia, non soltanto dell’ambiente, ma dell’intera specie umana. Il dibattito si spostò poi sulla Z.e.g. (Zero economic growth): ed Herman Daly propose lo "stato stazionario" come punto di equilibrio, fornendo alcuni criteri di "sostenibilità" per il sistema economico. A proposito di "World dynamics", qualcuno ricorderà le famose "curve a campana" utilizzate in quella modellistica, a significare che o per fattori economici (risorse, approvvigionamenti, derrate alimentari, energia) o per fattori demografici o per inquinamento, se non si assume il concetto di limite e di controllo, il destino è segnato. Le "curve a campana" sono correlate, infatti, alle vecchie curve logistiche di Verhulst, che riguardano il "processamento" di stock: e se le risorse sono finite, la loro evoluzione nel tempo segna, con l’intersezione della curva con l’asse temporale, la "morte" del sistema. Possiamo perciò riproporre le "curve a campana", pur senza sposare quella modellistica, come un simbolo della contrapposizione con il pensiero economico classico.

Il modo migliore di sintetizzare tutto questo, lo trovò Kenneth Boulding, un economista nord-americano, il quale, più di venti anni fa, compendiava tutto il ragionamento sul limite in una immagine molto semplice: "il mondo di oggi si trova a dover passare dall'economia del cowboy all’economia della navicella spaziale". Il cowboy ha risorse illimitate a disposizione e né lui né il suo cavallo "consumano" la prateria e producono inquinamento. La navicella spaziale, al contrario, è uno spazio dove ogni risorsa, addirittura ogni elemento informativo, va programmato e gestito con cura meticolosa perché, altrimenti, i limiti della vivibilità vengono immediatamente raggiunti. Questa immagine è la più efficace per evidenziare la forte cesura registratasi rispetto al pensiero dell’economia classica. E' esattamente questo il nostro punto di riferimento iniziale; ed è esattamente per questo che siamo tacciati di malthusianesimo dagli odierni fautori della crescita illimitata. In effetti, Malthus aveva posto - proprio al sorgere della teoria economica classica, e in totale controtendenza - il problema della limitatezza delle risorse rispetto alla crescita in progressione geometrica della popolazione: e, perciò, può essere considerato a pieno titolo un precorritore della cultura del "limite". E’ proprio in questa prospettiva che Laura Conti sosteneva, alla fine degli anni ’70, le ragioni di Malthus contro quella di Marx, per polemizzare con le posizioni "sviluppiste", proprie di gran parte della sinistra e dei suoi intellettuali.

Che campo di applicazione ha avuto questa concezione alternativa dell’economia, in particolare nell’esperienza italiana? Il primo terreno sul quale si è misurata è stato proprio la battaglia sulle scelte energetiche, iniziata a metà degli anni ’70 e proseguita per tutto il decennio successivo. E’ interessante ricordare che uno degli elementi significativi di quella battaglia fu la demistificazione delle cifre fornite dagli enti ufficiali, tutte basate sulla forte correlazione tra crescita del prodotto interno lordo e crescita dei consumi energetici, a sostegno di un sovradimensionamento della domanda, che giustificasse gli enormi piani di offerta di energia, soprattutto elettrica (le venti centrali nucleari propugnate da Carlo Donat Cattin nel 1977). Altro elemento significativo di quella battaglia fu l’elaborazione e la comunicazione di un modello energetico alternativo.

Nel merito delle scelte di politica energetica, l’attuale sistema italiano, per quanto riguarda le fonti di approvvigionamento, corrisponde a quello indicato dagli ambientalisti ben prima del disastro di Cernobyl. Vale a dire: rinuncia al nucleare, ricorso al carbone entro i livelli dei primi anni ’80, sostituzione del petrolio con il combustibile meno inquinante, il metano. Poi, c’è tutta la parte dolente del ritardo sul risparmio energetico e sulle fonti rinnovabili, ma il punto che qui interessa è un altro. Ovvero, il fatto che quella battaglia riuscì a contrastare le previsioni ufficiali di incremento del Pil e dei consumi energetici (gonfiate secondo i precetti propri della crescita "illimitata"), contrapponendo loro un programma fondato sull’uso efficiente dell’energia e sul risparmio, reso possibile dall’innovazione tecnologica. Sul limite, insomma. Un limite, è bene ricordarlo, inteso non come penuria e come decadimento della qualità della vita, ma come applicazione di un più intelligente utilizzo delle risorse.

L’altro punto che non va sottovalutato è quello relativo al piano politico-culturale e del senso comune. Nel referendum sul nucleare (novembre 1987), il Paese si espresse a stragrande maggioranza "contro" (anche se poi l’interpretazione del governo fu di mantenere un "limitato presidio" nucleare), e quasi tutti i partiti furono costretti ad assumere la posizione indicata dal movimento antinucleare.

Da tale complesso di risultati deriva la valutazione dell’esperienza antinucleare come la sola che ha saputo coniugare la capacità di trasformare battaglie di movimento in atti politico-culturali e quella di governare questioni cruciali (molte decisioni anche recenti, che hanno riguardato le politiche energetiche, sono l’esito di quel patrimonio di mobilitazione). Puntare, poi, sull’uso efficiente dell’energia o, se si vuole, sull’aumento della produttività delle risorse materiali, costituisce un’indicazione che ci sembra di fondamentale importanza nell’era della "globalizzazione".

Ma, per tornare all'interrogativo sui risultati, in Italia, di una concezione alternativa a quella dell'economia classica, ricordiamo che l'elaborazione della categoria di limite non va considerata il solo segnale di forte discontinuità teorica e pratica. L'altro, analogamente significativo, è rappresentato dai tentativi di immaginare un diverso rapporto tra pubblico e privato e di elaborare una diversa concezione del ruolo del mercato.

A tutt'oggi, in gran parte della sinistra è dominante l'idea che pubblico sia sempre meglio di privato: in altri termini, prevale un robusto statalismo ideologico, che - già al suo nascere - l’ambientalismo provò a contestare; e che oggi, con più forza e con più solidi argomenti, può criticare radicalmente. E questo significa rinunciare, senza più esitazioni, a porre il problema dell’economia nei termini usuali della sinistra, per concentrare l’attenzione e l'iniziativa sulla dimensione del mercato. Mercato che mostra una sua selvaggia vitalità darwiniana e che - lungi dall'essere il massimo regolatore della bontà delle merci e della correttezza della concorrenza - è lo spazio dove tutto è oggetto di scambio e di compravendita: le sostanze stupefacenti come gli organi dei bambini. E, tuttavia, il mercato esiste e in qualche modo funziona, con le sue patologie e le sue inefficienze: e, allora, il mandato degli ambientalisti è quello di porre vincoli ambientali e vincoli sociali sul mercato e al mercato. Una nozione, quella di vincolo, che consente di superare le secche della "pianificazione" centralizzata e della mitica "libera concorrenza" mai realizzata. Il vincolo, in particolare quello ambientale, costituisce l'utile snodo attraverso il quale le decisioni economiche assumono la natura di un'ampia e articolata di possibilità, opportunità, chances e di realizzazioni orientate ma non rigide.

Connessa a ciò, la prospettiva di una battaglia politica, sociale e culturale di lungo periodo, così riassumibile: se si vuole incidere sul mercato, si devono orientare le preferenze del consumatore. Ad esempio, la promozione di produzioni biologiche nell’agricoltura ha esattamente questo senso: ovvero spostare il consumatore dai prodotti che richiedono fertilizzanti e pesticidi - quindi, un forte inquinamento a danno della salute - verso i prodotti "puliti", per arrivare a modificare le scelte produttive. Consideriamo l'ultimo decennio. Al di là delle valutazioni di merito, il percorso che dalla Conferenza di Rio de Janeiro del ’92 porta alla Conferenza di Kyoto del ’98 è quello che consente a parole vagamente esoteriche (come effetto serra e buco dell’ozono, desertificazione e distruzione della foresta pluviale) di venire percepite nella loro valenza anche economica. Sono, infatti, il come si produce, che cosa si produce e il come si consuma, che cosa si consuma che vengono messi in discussione e che vedono aprirsi conflitti tra gli Stati del pianeta: basta ricordare, per stare ai tempi più recenti, la vicenda della riduzione della CO2, alla Conferenza di Kyoto.

Quel percorso, Rio de Janeiro-Kyoto, esplicita molto bene come, a livello mondiale, la concezione ambientalista sia diventata elemento di conflitto molto aspro per le politiche economiche di governo (che devono tenere conto della pressione dei grandi gruppi multinazionali e delle industrie nazionali); e tutti i punti dell’agenda 21 sono destinati a entrare in contrasto con questa o quella decisione dei governi nazionali o degli organismi di "governo planetario" (il Fmi o la Banca Mondiale).

Nell'esperienza italiana, poi, altra questione dirimente, a proposito del rapporto economia/ecologia, è l'atteggiamento verso le grandi opere pubbliche.

Non va dimenticato che nella prima legge finanziaria del governo Prodi, nei documenti della sessione di bilancio, si attribuiva ancora alle grandi opere pubbliche il ruolo di volano dello sviluppo. Dalla "variante di valico" al ponte sullo Stretto, questi progetti sono diventati simbolici di un conflitto che è riduttivo vedere solo nella sua dimensione ambientale, dal momento che prevede implicazioni, anche economiche e sociali, molto rilevanti.

Tra l'altro, ci riferiamo a un comparto capital intensive, mentre sarebbe necessario sostenere e valorizzare settori labour intensive. Ed è qui che si sviluppa l'ipotesi del "lavoro verde" come alternativa alle scelte sulle grandi opere pubbliche.

Quell'ipotesi, nata come esercizio accademico per dimostrare che, con i 40 mila mld destinati alle opere pubbliche dalle leggi finanziarie dei primi anni '90, si sarebbe potuto attivare un maggior numero di posti di lavoro in diversi settori (dai parchi al dissesto idrogeologico, dal turismo intelligente all’artigianato e alle produzioni biologiche, dal risparmio energetico e dalle fonti rinnovabili alla ristrutturazione degli edifici e al recupero del degrado urbano) si è, poi, affinata e articolata; e ha determinato alcuni esiti positivi sul piano delle concrete scelte di governo.

Il "lavoro verde" è anche alla base del cosiddetto Salario di attività sociale (Sas), che tende, tra l’altro, a superare gli aspetti assistenzialistici dei lavori socialmente utili, per creare piccole imprese, a partire dal sostegno erogato dalle istituzioni pubbliche. A condizioni rigorose: dopo un certo numero di anni, l’impresa, oltre a funzionare, deve risultare autosufficiente; il che può contribuire a incentivare un mercato particolare ("terzo"), in parte già esistente. Questa tematica di "lavoro verde", "attività sociale" e "terzo mercato" è connessa, d’altro canto, alla questione del welfare e può assumere una valenza più generale. Una volta riconosciuto il profondo modificarsi delle forme e della struttura stessa del lavoro, sono quelli gli strumenti utili (non certo i soli) per offrire una risposta efficace alla crisi occupazionale dell'Europa (diciotto milioni di senza lavoro nella UE e l’Italia nei primi posti per numero di disoccupati). La prospettiva è quella di politiche occupazionali mirate, capaci di coniugare il fatto di essere labour intensive con quello di risultare ecosostenibili. Ma, palesemente, sono necessarie innovazione politica e audacia intellettuale.

Infine, sempre a proposito del confronto economia/ecologia nell'esperienza italiana, va ricordata l'introduzione della carbon tax. Quella che rappresenta una condizione essenziale dello sviluppo sostenibile, sin dalle analisi di von Weiszaeker, è diventata legge dello stato con la finanziaria del 1999. Si tratta di uno strumento migliorabile sotto vari profili, ma - senza dubbio - suscettibile di produrre un impatto significativo sul sistema economico

7. Economie locali e globalizzazione

Più controversa è la questione relativa ai nuovi strumenti di programmazione economica. E' sufficientemente condivisa l’idea che i patti territoriali possano rappresentare, a determinate condizioni, una opportunità positiva; e questa problematica - il rapporto tra ecosostenibilità e politiche economiche "locali" - consente di riprendere la riflessione sul tema della globalizzazione.

C’è chi pensa alla globalizzazione come a un supermarket planetario, nel quale al cittadino sia consentita una sola dimensione, quella del consumatore. A questa pretesa, il pensiero ambientalista - che, tra i primi, parlò di globalizzazione - può rispondere esplorando le nuove opportunità offerte dalla dimensione locale. E’ la valorizzazione di questo livello decentrato, dove le scelte economiche e produttive possono essere praticate in forma sostenibile, che può fare della globalizzazione un’occasione, invece che soltanto una minaccia di "pensiero unico" e di "modello universale". Il circuito della globalizzazione, infatti, può consentire di mettere in rete e valorizzare, con un’ampiezza prima inconcepibile, i prodotti, inclusi quelli culturali, che denotano la specificità di un’area, di una regione, di una comunità.

Certo, lo scenario non è neutrale: e non è certo facile contrapporre l'utilizzo più efficiente e più intelligente delle risorse alla rincorsa ad aumentare la produttività del lavoro, cui assistiamo in tutti i paesi economicamente più forti.

Quanto detto consente di riprendere, brevemente, due punti che emergono dal "libro bianco" di Jacques Delors (1993). Il modello lì esposto prevede di relegare, anche se questo aspetto non viene esplicitato, nei paesi del Terzo, Quarto e Quinto mondo le produzioni di base - quelle pesanti e inquinanti - mentre il mondo "avanzato" si dedica alla telematica, all’informatica e ai servizi.

Quel modello - oltre che radicalizzare e rendere permanente la divisione internazionale del lavoro - finirebbe con l'incrementare i colossali flussi di merci e con l'aggravare, pertanto, il problema dei trasporti di materiali lavorati e pesanti dai luoghi di produzione a quelli di utilizzo, con conseguenze ambientali non certo trascurabili.

Infine, ancora una considerazione va fatta sul contrasto irriducibile tra quanto finora esposto e le visioni sviluppiste e industrialiste, che vedono nella crescita quantitativa dei consumi il volano dello sviluppo. Contrasto irriducibile innanzitutto perché, quella della "crescita illimitata", è una concezione eco-insostenibile: come tutto il movimento ambientalista, e non solo, ha ritenuto in questi 30 anni (a partire dal rapporto del Mit sui "limiti dello sviluppo"). E, poi, perché è dimostrabile che la crescita quantitativa, tutta a spese delle risorse del pianeta, mentre crea l’insostenibilità della crescita stessa, non risolve i problemi dell’occupazione. Non sembra acquisire maggiore credibilità, infatti, la tesi secondo la quale se cresce il Pil, cresce l’occupazione: per il banale motivo che l’innovazione tecnologica favorisce così intensamente i processi di ristrutturazione che, per quanto possa crescere il Pil, l'incremento dell'occupazione è una lenta tartaruga rispetto alla lepre degli incrementi di produttività del lavoro.

Questo solleva un interrogativo radicale: esiste un concetto di crescita economica che, al di là dei nominalismi, non sia in contrasto con i criteri di sostenibilità?
La nostra risposta è - nonostante tutto - positiva: quella compatibilità può essere perseguita in termini di aumento della produttività delle risorse, di spostamento della domanda dalla quantità alla qualità, di innovazione tecnologica che sempre più promuova la crescita di beni immateriali sostitutivi dei beni materiali tradizionali.

8. Gli esiti della crisi ambientale

In tutta evidenza, la questione ambientale ha assunto, oggi, uno statuto di grande rilievo, fino a rientrare nelle priorità di quasi tutti i governi delle democrazie avanzate. E tuttavia, pur avendo registrato alcuni successi (dagli esiti del Protocollo di Montreal sull'ozonosfera al primo Protocollo di Kyoto sul clima globale), la questione della riforma delle strategie di sviluppo in senso ecologicamente sostenibile rimane largamente disattesa. E, per quanto nuove paure e nuove emergenze possano ridurre la percezione dei temi in questione, la crisi ambientale globale rimane e non accenna a risolversi. Alla questione dell'accesso alle risorse naturali, tema da sempre oggetto di contenzioso geopolitico e di conflitti bellici, si aggiunge quella della conservazione di beni ambientali (come il clima), per così dire "immateriali", e che rimanda al problema della gestione intelligente delle risorse energetiche e delle conoscenze tecnologiche.

Resta il fatto che gli esiti della crisi ambientale possono essere diversi. Innanzitutto, una parte della crisi ambientale può (e, bisognerebbe dire, deve) essere assorbita dall' evoluzione della società tardo-industriale. Lo spostamento dell'attenzione dalla produttività del lavoro all'uso razionale delle risorse, incorporando nella logica economica la questione ambientale - attraverso una maggiore efficienza nel ricorso a materie prime, energia, acqua, suolo - può dare una prima risposta, ancorchè assai parziale. In questa ottica, l'economia di mercato può assorbire una parte della crisi ambientale, attraverso un incremento di tecnologia e di organizzazione (eco-efficienza) e/o commercializzando i "diritti di inquinamento". Si deve evitare che tali possibili sviluppi vengano "tecnicizzati" e si deve tenere ben fermo il presupposto fondamentale: i conflitti sulla questione ambientale riguardano, in primo luogo, i diritti di accesso alle risorse naturali e alle conoscenze tecnologiche. A tale proposito, la questione dell'ingegneria genetica è rivelatrice: il Sud ha la "materia prima", ovvero la biodiversità; il Nord ha la tecnica e i capitali. Se questi vengono usati per controllare i mercati a scapito del Sud, la questione è, prima che ambientale, politica. La definizione degli interessi generali deve indirizzare l'uso della tecnologia e la distribuzione dei benefici deve essere equa: questo è l'obiettivo politico di un ecologismo critico; questo è lo spazio di una sinistra nuova.

Al contrario, da parte dei cosiddetti "interessi forti" e corporati, vi è la tendenza a rendere indifferente la localizzazione degli investimenti, attraverso una sorta di "dumping dei diritti". Il messaggio inviato alla parte ricca del globo è chiaro: se si vogliono mantenere imprese e produzioni, bisogna ridurre la domanda di diritti individuali e sociali. Altrimenti, la localizzazione in aree con tutele minori o nulle sarà inevitabile. Questi progetti (come il Multilateral Agreement on Investmens, in sede OCSE), anche se falliti nel breve periodo, inevitabilmente verranno riproposti. E la globalizzazione, spostando tendenzialmente il baricentro dei mercati verso l'Asia, richiederà una risposta diversa, capace di alleanze inedite e transnazionali che, nonostante "i fatti di Seattle", sono tutt'altro che facili. In altri termini, non ci si potrà basare su una occidentalizzazione progressiva delle culture (come dimostra il caso del Giappone), ma si dovrà puntare su una cooperazione attiva e dinamica. La capacità di tradurre in termini nazionali l'esigenza (la necessità, ma anche la convenienza) di una solidarietà internazionale, è il primo banco di prova.

a. Il ruolo dello Stato

Se l'erosione-impoverimento dei ceti medi nelle società industriali mature è un processo in atto da tempo, che può modificare in modo significativo la composizione sociale e le aspettative delle diverse generazioni, il ruolo dello Stato va radicalmente ripensato. Oltre alla stabilità dei bilanci pubblici, un principio di equità intergenerazionale impone il rifiuto di scaricare sul debito i costi dell'attuale assetto socio-economico e le sue sperequazioni. Sia la questione delle pensioni che quella della disoccupazione richiedono una trasformazione radicale del ruolo dello Stato: da mero redistributore di ricchezza a redistributore di opportunità (ecco una delle funzioni che, come si diceva, restano irrinunciabili). Ciò implica la capacità di sostegno istituzionale, normativo e finanziario a quei settori no-profit che consentono la creazione di nuova occupazione. Senza nulla togliere alla funzione direttamente redistributiva che, comunque, non riesce più a "coprire" l'intera organizzazione sociale, si chiede allo Stato di aumentare i gradi di libertà della società, al fine di aumentarne la capacità di iniziativa autonoma..

Al centro della questione della riforma dello Stato, dunque, c'è l'autonomia della società. Tutte le politiche che vanno nella direzione di incrementare la capacità della società di soddisfare le proprie esigenze senza un intervento diretto dello Stato, vanno incentivate. Ciò non significa in alcun modo "privatizzare tutto": come si è detto, sanità, istruzione e altri servizi possono essere trasferiti al mercato (salvo restando il discorso sulla "sfera pubblica dell'economia") solo in parte. Si richiede, pertanto, uno Stato autorevole nel far rispettare le regole e agile nel facilitare le condizioni perché le regole siano rispettate. In questo quadro, il rafforzamento del "terzo settore" appare, dunque, come un passaggio strategico, destinato ad avere un ulteriore sviluppo, _nche a causa della debolezza delle politiche di welfare.

b. Comunicazione e forma della politica

L'analisi ecologista porta a una ridefinizione di cosa è sinistra a partire dalla rappresentazione degli interessi collettivi da affermare e dei soggetti da tutelare: i popoli lontani, le generazioni future, gli esclusi (le giovani generazioni, innanzitutto). Dalla sommatoria di sensibilità - come viene convenzionalmente rappresentata: ambientalismo più terzomondismo più femminismo, ecc - si deve passare a una riformulazione complessiva della mappa delle relazioni tra i diversi soggetti e tra i rispettivi sistemi di diritti rivendicati. Il che comporta la (faticosa, parziale e provvisoria) formulazione di patti tra le generazioni, tra le classi, tra le aree del mondo, tra i generi. In questo senso va combattuta la riproposizione, comunque camuffata, degli stereotipi della sinistra "terzomondialista", che rimangono dominanti in Italia.

Tutela dei diritti universali della persona e assunzione di responsabilità individuale e sociale verso i beni collettivi (l'ambiente, in primo luogo): può essere l'asse di una nuova politica sovranazionale. Comunicazione e organizzazione sono il terreno su cui si gioca l'efficacia - e, dunque, la necessità - di una forza politica. La forma dell'una e dell'altra dipendono, in misura rilevante, dal sistema politico e istituzionale e dal contesto sociale in cui si opera: l' ecologia, quale forza fondata su idee e opzioni, su istanze morali e scelte radicali - espressione, in parte, della società civile organizzata - ha operato come "lobby multicanale", avente come riferimento movimenti "single-issue". La questione della sostenibilità dello sviluppo economico e sociale richiede un salto di qualità: dalle singole "tribù" a una rete multicentrica di relazioni, che produca alleanze e vertenze e che costruisca il discorso pubblico dei diritti. Ciò richiede la capacità di mettere in rapporto i diversi segmenti sociali, di individuare poste in gioco e di aprire conflitti, di proporre nuove mediazioni e nuovi patti, di elaborare e divulgare messaggi e parole d'ordine. Il "movimento" di Seattle coinvolge settori esigui delle società, ma ha quella capacità di evocazione che può risultare una importante risorsa politica per promuovere coscienza, indicare obiettivi, costruire senso. Questo fa sì che la questione dell'organizzazione si ponga in termini affatto inediti, come capacità di essere "agenti di collegamento" e "mezzi di comunicazione", senza sostituirsi alle forme autorganizzate della società, ma contribuendo a incentivarle e a dare loro nuove valenze e nuovi significati. Ciò richiede la disponibilità di risorse umane e tecniche, per trasformare l'azione della "lobby multicanale" in quello che potremmo definire un'agenzia politica a rete.

9. Mediare i conflitti

Guardare alla sfera pubblica, dove le differenze individuali si propongono e si confrontano, significa mettere in conto non una comunità idilliaca e pacificata, ma una società attraversata da conflitti. La loro vitalità va compresa e valorizzata, ma anche incanalata. L’interpretazione e la rappresentazione che, nella tradizione della sinistra, se ne sono date, vanno ridiscusse. In quella tradizione, ogni conflitto (e ogni movimento) veniva ricondotto alla centralità di Stato e di partiti, di quel modello di sovranità e di mediazione centralistica, che dovrebbe tenere, hegelianamente, tutto. E, invece, basti pensare al conflitto ecologico e all’impossibilità che esso sia ricondotto a uno Stato o dentro un solo partito, per cogliere tutta la debolezza di quella interpretazione. Ed è proprio nella lettura dei conflitti che si impone la ridefinizione di molte delle categorie di pensiero dei movimenti di emancipazione tradizionali. Costruiti intorno alle identità forti e oppositive (classe, sindacato, partito) che il sistema economico e lo spazio statuale generavano, essi hanno elaborato un modello di conflitto politico-sociale, figlio di quella forma dell’economia e dello Stato. Ma questo terreno, come vediamo, è cambiato radicalmente e continua a cambiare, tanto da imporre una mappa sempre diversa delle identità e una nuova rappresentazione dei conflitti dentro i quali si esprimono e agiscono.

E vanno tenuti presenti almeno due grandi processi che modificano il quadro complessivo.

1. Il primo è quello rappresentato dal progressivo emergere della cosiddetta silent revolution, che ha segnalato il ruolo crescente di dimensioni post-materialistiche nella formazione delle soggettività e dei loro ambiti di vita. Questo significa che, accanto all’economia e alle sue dimensioni materiali, hanno acquistato spessore dimensioni identitarie (etniche, sessuali, ideologiche, religiose, etiche, generazionali, persino biologiche ecc.), che richiedono forme e spazi di riconoscimento. Tutto questo esige dai movimenti di emancipazione (e dalla sinistra terza, in particolare) l’elaborazione di strategie relative a tematiche quali:

a) l'uguaglianza complessa, finalizzata alla costruzione di uno spazio pubblico della vita civile, più ampio e più sofisticato della sfera statuale;

b) i diritti individuali, capaci di declinare soggettività e appartenenza, affidati alla sovranità di ognuno su se stesso e non alla legittimazione di una sovranità centrale. Si tratta, dunque, di diritti orientati in funzione dell’auto-determinazione piuttosto che del riconoscimento statuale (vedi le tematiche identitarie, del corpo, della sessualità); quindi, meno cittadinanza e più sovranità;

c) l'azione politica rivolta a conflitti non dicotomici (come quelli classici: ricchi-poveri, capitalisti-comunisti, ceti medi-classe operaia, struttura-sovrastruttura).

2. Il secondo processo è quello determinato dalla ridefinizione costante della geopolitica, che mette in crisi la dimensione "territorialistica" della comunità politico-statuale. Lo si può dire in molti modi. Hobsbawm parla di scomposizione tra globalizzazione e cosmopolitismo; Habermas analizza gli effetti del mutamento politico intervenuto in Europa, e non soltanto, grazie alle costellazioni post-nazionali nate dalle dissoluzione dei vecchi imperi statuali. Questo produce la revoca del rapporto tradizionale tra polis e oikos e richiede spazi e strumenti nuovi di intervento politico-sociale sul versante dei diritti, della reciprocità e della convivenza, all’interno degli ambiti nazionali. Non si tratta più soltanto di affrontare il multiculturalismo delle immigrazioni classiche, ma di rimescolare le dimensioni di ethnos (appartenenza etnica) e di demos (appartenenza politica) delle nostre società occidentali. Per questo, già l’istituzionalizzazione dell’Europa ha imposto qualche ripensamento. La domanda che si pone è se l’Europa abbia bisogno di una Costituzione, considerato che non solo non c’è un ethnos comune, ma lo stesso demos ha ancora bisogno degli spazi tradizionali della cittadinanza statuale. A questa tesi si oppone - e la sinistra terza deve farsi più decisamente portavoce di questa tesi - un’idea diversa di patto costituente, fondato sul primato dei diritti fondamentali, svincolati dalla cittadinanza e dalla sua dipendenza dall'ordinamento statuale.

Peraltro, non stupisce che, proprio su questo versante in cui la resistenza dell' idea di cittadinanza è forte, riemerga un modello di conflitto identitario nel senso regressivo del termine, fondato su un rinnovato ius sanguinis. Qui la cittadinanza diventa il veicolo di chiusure culturali e di egoismi sociali. Di conseguenza, la sinistra deve ridisegnare il proprio ruolo rispetto ai nuovi conflitti. Ovvero:

a) definire la differenza tra dissidio (come scissione) e conflitto (come confronto); il dissidio indica l’impossibilità della comunicazione e l'incommensurabilità dei linguaggi (affetto-argomentazione, fede-ragione…), mentre il conflitto presuppone la (ed è alimentato dalla) condivisione del linguaggio; e richiede la comune appartenenza dei confliggenti. Quelli fra culture (capitalismo-comunismo, liberalismo-comunitarismo, islamismo-cristianesimo, persino fondamentalismo-laicismo) sono conflitti e non dissidi. In altri termini, se c’è un esempio inequivocabile di comunità, questo è dato dalla comunità dei confliggenti, uniti da ciò che li divide e accomunati da "differenze comuni";

b) valorizzare gli spazi di comunicazione politica del conflitto; nel conflitto, infatti, si registra o interruzione o ricerca della comunicazione: e questa viene riattivata attraverso tecniche discorsive. Si tratta di un terreno squisitamente politico;

c) produrre una nuova normatività politica, in cui gli spazi siano negoziati dai soggetti politici, ma dentro la cornice dei diritti fondamentali;

d) sperimentare strategie per la soluzione dei conflitti, affidati a meccanismi non violenti e non autoritari. Tali strategie devono puntare su meccanismi di mediazione culturale e sociale, prima che su dispositivi istituzionali e statuali. Per questo, si deve investire sulla figura del mediatore, considerato che la mediazione è capace di funzioni comunicative e che il mediatore è colui che sa mettersi in mezzo e valorizzare le differenze comuni.

La mediazione ha un grande valore simbolico emancipativo. Lontana dalla forma del diritto paterno, che conserva - in particolare nei conflitti culturali - una quota di arbitrio e di intolleranza, la mediazione appare strumento più vicino a una politica fraterna, capace di considerare la differenza una risorsa. La mediazione, qui, non si pone in alcun modo come mezzo per rimuovere o per neutralizzare il conflitto. Al contrario: la mediazione può costituire una strategia per valorizzare il conflitto stesso come opportunità di pluralismo e per tradurlo in strumento di democratizzazione dei rapporti sociali.

La sinistra terza può farsi portavoce di questa moderna forma di solidarietà-reciprocità.

10. I soggetti, il mercato, le libertà. Ovvero cosa è stato veramente Seattle

Come prima conclusione e, insieme, come punto di partenza per un percorso successivo, ribadiamo che la divisione di campo tra sinistra riformista e sinistra antagonista non risponde, in alcun modo, alla crisi della sinistra tutta intera. Si può dire, anzi, che la "specializzazione" che esaspera i rispettivi ruoli (tra chi dimentica troppo in fretta e chi non smette mai di ricordare di essere stato comunista) produca due risposte entrambe "estremiste" ed entrambe tragicamente insufficienti (ad esempio, tutto mercato o niente mercato).

Basti un esempio: per quanto riguarda l'attività sindacale, una occasione importante - anche di "creatività lavorativa" - come la contrattazione dei modi della produzione, è stata abbandonata, per motivi opposti, da entrambe le sinistre. Il risultato è che a un sindacato organicamente legato alle "due sinistre", com'è quello maggioritario, non rimane che la concertazione centralizzata o l'opposizione radicale a essa; ma, in entrambi i casi, manca una piattaforma concreta, legata alle condizioni di lavoro, alla loro trasformazione e agli effetti (non solo organizzativi, ma anche sociali) delle innovazioni tecnologiche. Di conseguenza, risulta ancora più importante estendere anche a questo campo la critica nei confronti della concezione statocentrica dell'agire pubblico, capace di uniformare le modalità di azione e la stessa forma associativa dell'organizzazione del lavoro dipendente. Tutto ciò mentre si accentua la crisi degli Stati nazionali, a causa, per un verso, del ruolo sempre più autonomo assunto dal mercato e dalla finanza e, per l'altro, a causa dell'enfasi posta sull'identificazione nelle "piccole patrie" in cui si fanno convergere le identità etniche, culturali e religiose.

Sembra importante, allora, partire dalla questione del lavoro, della sua trasformazione, del suo impatto sulle risorse e sull'ambiente e del suo futuro, per ragionare di un programma possibile.

E' prioritario, intanto, capire se il lavoro "finisce", "non finisce" o semplicemente cambia. Rifkin dice che finisce, Rojas che non finisce (che la fase del post-fordismo, anzi, produce più lavoro, in rapporto al prodotto interno lordo). Certamente il lavoro cambia: per effetto delle tecnologie e dei nuovi bisogni, in particolare di quelli legati ai servizi. Questo cambiamento porta con sé anche un modo nuovo di lavorare (meglio: modi nuovi di lavorare): e qui può inserirsi, anche nelle sue valenze positive, la questione della flessibilità.

Se, nei paesi sviluppati, la trasformazione del lavoro - basata su tecnologie avanzate, nuovi consumi e nuovi bisogni - presuppone altri saperi e maggiore duttilità (adattamento, mobilità, disponibilità al cambiamento), allora va posto, tra le priorità, il problema del rapporto tra libertà e autonomia. Se l'autonomia, come sappiamo, è la condizione per farsene qualcosa della libertà, la garanzia dei diritti individuali all'interno del mercato del lavoro, anche per affrontare i costanti mutamenti che l'attraversano, è un requisito fondamentale.

Ma questo discorso - qui riferito, come si diceva, ai paesi sviluppati - assume un rilievo ancora maggiore, e una maggiore complessità, se considerato nella sua dimensione planetaria. A quel livello - oggi ineludibile - lo scontro vero è tra chi vuole globalizzare, riducendo i diritti a un minimo comune denominatore (peggiorando, quindi, gli standard nelle società democratiche) e chi vuole globalizzare, estendendo quei diritti oltre i confini e le compatibilità, i vincoli dei mercati e i meccanismi degli scambi ineguali.

E, allora, cos'è stata veramente Seattle?

In una scena di "Butch Cassidy", dopo la rapina al treno, lo sceriffo cerca di convincere i concittadini ad accompagnarlo nell’inseguimento dei banditi. I passanti, tra l’incuriosito e l’annoiato, si radunano fino a formare una piccola folla. A quel punto, arriva un tale che vende biciclette e si mette a decantarne le qualità, dopo aver scostato lo sceriffo: «lei ha fatto la sua parte, ha raccolto gente, ora tocca a me».

Ecco: questa è l’efficacia (e queste le modalità possibili) della politica nell’epoca della globalizzazione. Scostare dalla scena i poteri forti, che, soli, possono determinare gli eventi e sottoporli allo sguardo del mondo; incunearsi nelle contraddizioni economiche complessive e nelle loro articolazioni locali; introdursi negli spazi giuridico-formali, con intelligenza e mezzi di "guerriglia" (tematico-comunicativa) e, naturalmente, con buone e "oggettive" ragioni: cioè sapendo e facendo sapere di aver ragione. Perché se il "prodotto" non vale, non c’è "pubblicità" che tenga. E, viceversa, se non c’è forza comunicativa, anche il miglior "prodotto" non può affermarsi e convincere. (Sia chiaro: è mille volte più importante la prima affermazione rispetto alla seconda).

Detto ciò, resta ancora interamente inevasa la domanda: oggi, cosa aggrega, transitoriamente, i movimenti; cosa determina, o contribuisce a determinare, le condizioni per l’azione collettiva?

L'errore più grave che si potrebbe fare dopo Seattle (e che molti sembrano propensi a fare) è immaginare la rinascita di un movimento omogeneo, riproducibile e stabilizzabile, in quanto a ragione sociale, interessi, finalità e linguaggi. Il modello-movimento operaio (strutturato per rappresentare interessi, che si assumono come stabili e dotati di un base produttiva e sociale definita) non funziona più né può essere risuscitato. Né esiste soggetto o classe generale, titolare di interessi generali. Gli interessi che ci riguardano non sono solo differenziati: sono spesso confliggenti gli uni con gli altri. Da qui bisogna partire, perché ne deriva la centralità e la mutevolezza delle alleanze (se tali possono essere definiti le aggregazioni e i patti cui lavorare).

Se pensiamo che l'ecologia (ovvero una cultura e un punto di vista ecologici) possa rappresentare un approccio innovativo, adeguato e, tendenzialmente, complessivo a tali questioni, è proprio perché (e fintanto che) l'ecologia si autodefinisce e si autolimita come approccio. Il più lungimirante ed efficace, certo: e, tuttavia, una cultura e un punto di vista, non un sistema organico di idee e di valori; piuttosto, una generale funzione critica e una radicale pars denstruens, capace di affrontare nodi antichi e irrisolti: a cominciare, come suggerisce Stefano Rodotà, dalla questione proprietaria.

E, infatti, nessuno tra gli approcci culturali alla modernità poteva immaginare che la logica del possesso si trasferisse così rapidamente dal controllo sulle risorse della produzione materiale al controllo sulle risorse della natura e, infine, su quelle della genetica. E che tale logica si manifestasse, tuttavia, attraverso le procedure più classiche del diritto di proprietà (basti pensare alle controversie in materia di brevetti). E' l'ecologia (e, direi, solo l'ecologia) che permette di individuare le nuove aree di prerogative e di diritti (corposamente materiali) intaccate, se non erose, dalle nuove forme di sfruttamento proprietario.

Il mercato internazionale delle "quote di emissioni" (che consente ai paesi ricchi di acquistare maggiore "libertà di inquinamento" dai paesi poveri) evoca, non a caso, quella tendenza proprietaria (in qualche misura già post-fordista e, comunque, neo-capitalista) a "monetizzare la salute", che fu la posta in gioco di importantissimi conflitti nel corso degli anni '70. Conflitti intorno alla possibilità di sussumere dentro il concetto di forza lavoro, e di sua compravendita, altre componenti della persona del lavoratore (la salute, l'integrità, le aspettative di vita, l'equilibrio psico-fisico). Tale processo conosce un' ulteriore fase quando, con la generalizzazione della produzione di merci, all'interno della categoria di forze produttive - e dentro i percorsi della loro mondializzazione - vengono riassunti e calcolati, e resi merce, altri fattori. E già nei primi anni '40, Karl Polanyi osservava che, con la diffusione del modo di produzione capitalistico, la persona, il tempo e la natura stessa diventavano merci. E questa riduzione a merce riguarda fattori, in tutta evidenza, naturali e universalistici e - per definizione, direi - indisponibili.

Ecco il punto cruciale: i diritti di cui stiamo parlando sono finalizzati a tutelare beni non disponibili. E' questo che può attribuire una forza dirompente a un discorso, e a un conflitto, sui limiti dell'appropriazione: ovvero sulle categorie di beni le cui regole d'uso devono essere diverse da quelle della proprietà privata; e da quelle della proprietà di Stato. Da qui la definizione di "patrimonio comune dell'umanità" per beni che non possono essere oggetto di utilizzazione esclusiva né di negoziazione a contenuto economico. Proprio perché il "contenuto" dell'isola di Budelli o di un gene umano non è riducibile a valore di scambio.

E, allora, buttiamola in politica.

a. La "lezione di Seattle" è assai più complicata da decifrare e da utilizzare di quanto sembrasse a una prima lettura.

b. L'approccio offerto dall'ecologia consente, più di qualunque altro, di leggere la complessiva e articolata mappa delle diverse iniquità, ambientali e sociali, che si consumano sul pianeta.

c. L'ecologia come cultura e come strumento di interpretazione è più grande, assai più grande, dei Verdi. I Verdi ne hanno, per così dire, la gestione, ma non, certo, l'esclusiva proprietà. Ed è vano e, forse, perfino controproducente, ambire ad averne la rappresentatività generale. I Verdi devono mettersi a disposizione (e mettere l'ecologia a disposizione) di altri soggetti e di altri conflitti. L'errore più grave sarebbe voler stabilizzare e formalizzare (a livello mondiale, addirittura) la rappresentanza di interessi assai diversi, anziché giocare e giocarsi in singole battaglie con interlocutori, alleanze e avversari, a loro volta mutevoli.

d. Se l'ecologia è il discorso sui beni indisponibili - quelli relativi alle strutture fondative della persona umana e del mondo fisico - essa può rinnovare il senso profondo dell'antica questione proprietaria. Questo può consentire che, a determinate condizioni, conflitti ambientali e conflitti sociali tendano a coincidere.

e. La problematica dei diritti ne può risultare radicalmente modificata. Non più un catalogo di diritti che si allarga periodicamente, addizionando nuove prerogative e nuove titolarità a quelle antiche. E non più, dunque, un diritto all'ambiente che va ad aggiungersi a quello alla salute, a quello al lavoro, e così via, a ritroso nel tempo e nel progresso sociale. Bensì, i diritti come fondamento costitutivo e ineludibile della sovranità.

Appendice. Nota 1. In Italia parlare di (e lavorare per) una terza sinistra è ancora più importante e urgente. Qui domina, infatti, una teoria delle "due sinistre", costruita su un falso storico. Ovvero sull'ipotesi che sia esistita, dagli anni '60 alla fine degli anni '80, una sola sinistra, pressochè interamente rappresentata dal PCI; che questa sinistra si sia separata dopo il 1989; e che si riproponga, oggi, nella sua netta duplicità: come partito dei Democratici di sinistra e come partito della Rifondazione comunista.
Anche chi non condivide la prima parte di questa improbabile ricostruzione della vicenda storica (una sola sinistra tra gli anni '60 e la fine degli anni'80), è incline ad accettarne la drastica semplificazione successiva: oggi, a competere, sarebbero due sinistre. L'una "antagonista" e l'altra "moderata" (definizioni di Fausto Bertinotti, ovviamente) ; oppure l'una "anti-sistema " e l'altra "europea" (definizioni di Walter Veltroni, ovviamente ).
Ma quella lotta per l'egemonia ha senso in quanto entrambi i competitori coltivano un'idea (tendenzialmente) totalizzante della rappresentanza politica a sinistra, dove lo spazio lasciato libero dall'uno - come in un gioco a somma zero - viene occupato dall'altro. E ciò proprio perché lo spazio della sinistra sarebbe - nell'interpretazione che qui contestiamo - uno e prevedibile, sostanzialmente immobile e immutabile, ripartito tra la sinistra "antagonista" ("antisistema", secondo i detrattori) e la sinistra "europea" ("moderata", secondo i detrattori). Col che si producono due effetti, entrambi negativi: intanto si cancellano o si trascurano esperienze e culture, non assimilate e non assimilabili ai Ds e al Prc. In sintesi: esperienze e culture ambientaliste e radicali, antiproibizioniste e garantiste, libertarie e antistataliste, sindacaliste e pacifiste. Esperienze e culture sempre presenti nella storia italiana di questo dopoguerra e che hanno svolto il ruolo, preziosissimo, delle minoranze critiche. A limitarne l'attività e a mortificarne la vitalità è stato il peso preponderante del Partito comunista italiano, costretto a essere (da cause che qui non possiamo esporre) "stalinista" e "conservatore", insieme, verso le minoranze critiche e radicali. Ora, a svolgere lo stesso ruolo, riducente e omologante, sono le formazioni politiche derivate da quello stesso partito. Nel caso dei Ds, la "volontà omologante" ha assunto anche una forma organizzativa (la Cosa 2); nel caso del Prc, la "volontà omologante" si manifesta, in primo luogo, come presunzione di totalità nei confronti del "pensiero critico". Nell'un caso come nell'altro, emerge insofferenza verso le minoranze; nell'un caso come nell'altro, la premessa per non agevolare quella "volontà omologante" è il rifiuto di teorie infondate e puerili, come quella delle "due sinistre". Le sinistre sono molte e differenti, organizzate e non; e tali, fortunatamente, sono destinate a rimanere.



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