Ecologia e terza sinistra   
         
        Luigi Manconi,
        Eligio Resta, Massimo Scalia, Giuseppe Onufrio, Vittorio Dini   
         
         
         
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        Forum/E'
        questa la strada giusta?  
         
         
            Questo documento è un contributo alla riflessione 
              che ormai da alcuni mesi attraversa le forze del centro-sinistra 
              sulla quale Caffè Europa vuole aprire un dibattito con i suoi lettori. 
               
         
        "C'è la bellezza e ci sono gli oppressi. Per quanto difficile possa essere, io
        vorrei essere fedele a entrambi" (Albert Camus) 
         
        1. Oltre i confini 
         
        Dobbiamo avere il coraggio di mettere in discussione alcuni "confini"
        dellosservazione e dellazione politica: rispetto al tempo, allo spazio, alla
        tradizione, allo stesso linguaggio. Pensare in chiave di "generazioni future" e
        di "esseri viventi" modifica il presente e allarga il concetto di
        "prossimo"; ma allude anche a uneconomia e a una demografia diverse. Ad
        esempio, mette in conto che, nel mondo, vivono circa sei miliardi di persone non
        appartenenti a paesi strutturalmente capitalistici. Di fronte a tali
        "inderogabilità" demografiche non cè utilitarismo economico che tenga e
        non cè politica nazionale che possa reggere. Il realismo e uno sguardo prospettico
        impongono altre dimensioni del discorso. 
         
        Qui, la nostra riflessione si lega al dibattito in corso in Europa, che verte, non a caso,
        sulle forme e sui contenuti di unazione politica nuova; e ci sembra di poter
        condividere una parte delle proposte di chi, come Daniel Cohn-Bendit
        ("Liberation", 22-2-2000), parla di una "terza sinistra" che si
        proponga come un luogo in cui "pensare e vivere diversamente la politica".
        Pensare e vivere, appunto, senza mai scindere luno dallaltro, significa non
        ridurre lo spazio pubblico a gioco di alleanze e a scacchiere di strategie, ma ampliarlo
        costantemente allascolto dei bisogni e delle domande degli attori sociali e alle
        prospettive di comune emancipazione di cui essi sono portatori. Una terza sinistra non è
        dunque né a destra né a sinistra della sinistra, ma è aperta allemancipazione,
        dovunque essa si esprima; e si batte contro tutte le forme di esclusione, dovunque esse si
        manifestino.  
         
        Mettere al centro il conflitto ecologico e sociale significa, appunto, dare profondità e
        spessore a un desiderio diffuso, latente e atomizzato, di emancipazione collettiva e a una
        irriducibile volontà di rivolta, latente e atomizzata, contro linaccettabile.
        Forse, in questo, cè la ricerca del senso dimenticato della sinistra e di un
        rapporto forte tra etica e politica, da rintracciare nelle forme sempre diverse in cui la
        società lo propone. Tali forme cambiano e invocano strumenti di comprensione sempre più
        raffinati. Non si possono cogliere la specificità e la complessità dei compiti della
        terza sinistra senza ripartire da fenomeni come la caduta del Muro e il vorticoso avanzare
        della globalizzazione economica e finanziaria. Questo significa che le formazioni
        economiche e gli assetti culturali complessivi sono mutati rispetto a quelli che la
        sinistra era abituata a trovarsi di fronte.  
         
        Non si può costruire azione politica se non si parte, in primo luogo, dalla natura
        profondamente mutata del capitalismo che, con una certa civettuola arroganza, si è
        auto-definito come capitalismo sapienziale. Al di là delle sue tante forme (renano,
        alpino, anglosassone, asiatico, ecc.), esso si fonda sullinformazione più che sulla
        produzione, sulla universalizzazione dei mercati più che sullaccumulazione a scala
        nazionale. Questo significa soltanto che esso è diverso da quello tradizionale, non che
        è migliore né che è peggiore. L'attuale capitalismo ha visto aumentare la sua
        ambivalenza, che bisogna prendere sul serio e su cui bisogna lavorare. Espandere i mercati
        può voler dire andare incontro a bisogni diffusi, ma imporre scelte e indurre desideri a
        fini di profitto vuol dire governare la vita degli individui. Qui la terza sinistra deve
        essere in grado di contrastare tutte le forme di fondamentalismo che finiscono per
        crescere intorno alleconomia capitalistica e la trasformano in imperativo modello
        etico-politico di vita.  
         
        Una politica dellemancipazione non deve essere soltanto agonistica e antagonistica,
        ma deve lavorare in positivo, per trasformare i vincoli in risorse. Per questo facciamo
        nostro il progetto (indicato ancora da Daniel Cohn Bendit) di elaborare quattro profili di
        riflessione e di azione politica: a) responsabilità per il lungo periodo (principio di
        precauzione); 
         
        b) superamento delle logiche binarie (stato-mercato, capitale-lavoro); 
         
        c) scelta di una democrazia degli individui contro ogni totalitarismo della vita;  
         
        d) valorizzazione del pluralismo sotto forma di società, economie, culture diverse, in
        stretta comunicazione e in rapporto costante.  
         
        La cornice di tutto questo è un'Europa che si ponga come sede di un comune patrimonio e
        di una cultura dei diritti umani e che combatta ogni totalitarismo, compresa la sua
        crescente tendenza a ridursi a "burocrazia autoritaria". 
         
        Tutto questo impone unauto-riflessione su cosa debba essere oggi un movimento
        ecologista e un movimento di sinistra radicalmente diversi dalle esperienze del passato. 
         
        2. Due sinistre, uno Stato 
         
        La sinistra è, innanzitutto, una "cultura" che si pensa orientata alla società
        (alloikos) piuttosto che alla politica (polis); ai bisogni e ai diritti piuttosto
        che ai poteri. Essa guarda allorganizzazione della vita civile come capacità di
        autonomia e autogoverno piuttosto che come sistema di più autorità, dotate di comandi e
        di competenze: in termini di responsabilità, pertanto, piuttosto che di esoneri. Ma
        questo significa mettere in discussione la forma tradizionale dellorganizzazione
        della vita collettiva modellata sullo Stato; forma solo raramente e solo superficialmente
        scalfita dalla tradizione dei movimenti emancipativi e diventata, piuttosto, precondizione
        di ogni discorso politico.  
         
        Il pregiudizio a favore dello Stato (ovvero della dimensione statale/istituzionale e del
        primato del centro e della mediazione pubblica) appartiene alla politica, soprattutto alla
        politica italiana, prima ancora che alla sinistra. Se appare proprio della sinistra, fino
        a connotarla in tutte le sue componenti, è perché la sinistra si è maggiormente
        identificata con la politica, con la funzione di mediazione/trasformazione che a essa è
        stata assegnata; e, progressivamente, con lo Stato, specie quello "nato dalla
        Resistenza". Qui rintracciamo, oggi, un elemento robustissimo e letale di
        continuità: l'attuale sinistra si configura, infatti, come esasperatamente politicista
        (anche quando risulta meno statalista), dal momento che pare incarnarsi - ci riferiamo,
        qui, alla cronaca recente - in un governo nato dalla "disperata" forzatura della
        politica come manovra tattica e contingenza pragmatica. 
         
        Ma le radici dello statalismo sono più profonde, assai più profonde, nella storia e
        nella cultura italiana: stanno, per esempio, nella vocazione cortigiana degli
        intellettuali, nella tradizione centralista dello Stato liberale, nell'organicismo dello
        Stato fascista, nel dirigismo democristiano. Siamo il paese in cui perfino la Chiesa si è
        fatta (il suo) Stato. 
         
        La ragione sta, sinteticamente, nel fatto che la pulsione individualista al
        "particulare", non incontrando la rete di una forte e autonoma società civile,
        è rifluita verso approdi familistici, corporativi, campanilistici; e in quegli approdi, a
        rendere per così dire "dialettico" il rapporto tra sfera pubblica e sfera
        privata, l'accaparramento privato (o di gruppi o di ceti ristretti) dei beni e delle
        risorse pubbliche, è stato la norma. 
         
        Nel campo della sinistra, quel pregiudizio a favore dello Stato, ha lavorato in
        profondità, sottilmente e tenacemente, accompagnandone le traversie ideologiche e le
        peripezie organizzative. Cosi che, oggi, quel pregiudizio si ritrova, inalterato, in
        pressochè tutta la sinistra: a dispetto delle divisioni che sembrano lacerarla.
        Attenzione: le divisioni ci sono, eccome, ma la loro cristallizzazione ha sortito
        l'effetto di rendere le diverse sinistre l'una rigidamente speculare all'altra, e l'una
        strettamente indispensabile all'altra. E, così, la scellerata teoria delle "due
        sinistre" è diventata - in breve tempo, e con poche eccezioni - opzione egemonica
        nel senso comune delle aree culturali e politiche che alla sinistra fanno, variamente,
        riferimento. 
         
        In altri termini, quella teoria, di derivazione classicamente estremista, è stata
        introiettata nella mentalità e nei comportamenti e, perfino, nell'idea di sé che la gran
        parte dei militanti di sinistra coltiva: al punto da suggerire una sorta di
        "adeguamento" progressivo allo schema proposto, anche quando esso, formalmente,
        viene rifiutato. L'auto-identificazione rigidamente duale e l'aggressività polemica che
        contrappone le due aree, ha prodotto un ulteriore processo di semplificazione e di
        riduzione: esaltando , per un verso, le primarie opzioni di fondo (quelle che apparivano
        come le opzioni di fondo) e, per altro verso, le differenze in negativo. In altri termini,
        è come se l'alternativa fosse ancora: "Riforma sociale o rivoluzione". 
         
        Il carattere fallace di una tale contrapposizione non consiste solo nella sua sostanziale
        futilità: ma, ancor più, nel fatto di discendere e di dipendere da una e una sola
        cultura politica, di cui "riforma" e "rivoluzione" costituiscono la
        variabile "moderata" e quella "estremista". 
         
        Ma la cultura è e resta una e una sola, limitandosi a presentarsi, di volta in volta,
        come versione ragionevole o irragionevole, progressiva o accelerata e, ancora, moderata o
        estremista. Ma - al di là del peso, rilevantissimo, rappresentato dalle tradizioni e dai
        retaggi ideologici, e fin "antropologici" - qual è il fondamento che unifica
        quella cultura politica? E la unifica al punto da rendere meno significativa la diversità
        delle strategie politiche adottate rispetto all'opzione teorica che ispira entrambe?
        Crediamo che quel fondamento sia costituito appunto - in primo luogo - dalla concezione
        dello Stato, coltivata quasi uniformemente da tutte le componenti della sinistra. 
         
        Tale concezione può sintetizzarsi nei seguenti termini: primato dei diritti sociali su
        quelli individuali; primato della sfera pubblica su quella privata; primato del centro
        sulla periferia; primato dell'istituzione sul movimento; primato della mediazione sul
        conflitto. Evidentemente, la tensione tra queste cinque coppie di categorie si è col
        tempo attenuata o, in qualche caso, significativamente modificata, ma una concezione dello
        Stato affidata a quei cinque primati resta l'elemento qualificante e unificante di una
        teoria e di una strategia altrimenti destinate a disgregarsi. 
         
        Quelle coppie, come si è detto, oggi tendono a disporsi diversamente. Non c'è dubbio, in
        altre parole, che il secondo termine di tutte quelle coppie ha assunto una diversa
        pregnanza rispetto al passato, anche recente: e che, per intenderci, i diritti individuali
        o il federalismo ottengono, oggi, un maggiore interesse all'interno della sinistra. Ma
        restano inalterati l'approccio e la gerarchia delle priorità. E questi rimandano,
        infallibilmente, alla centralità dello Stato nella concezione del sistema politico e
        dell'azione pubblica elaborata dalla sinistra. Tutto ciò risulta ampiamente confermato
        anche dalla cronaca politica, che vede, a sinistra, una sottovalutazione nei confronti
        delle garanzie individuali e dei diritti della persona e una impostazione tuttora
        statalistico-autoritaria (ad esempio, del problema della propaganda politica televisiva). 
         
        Dunque, è proprio quella concezione statocentrica che va criticata, destrutturata e
        abbandonata. Ed è questa attività di critica, e di elaborazione di una concezione
        diversa, che può fondare un programma di sinistra terza, che trovi le sue ragioni
        costitutive altrove rispetto alla sua fondazione in capo allo Stato.  
        Le "due sinistre" - è agevolmente dimostrabile - mai hanno abbandonato
        quell'identità costitutiva. La concentrazione sullo Stato, da "abbattere" o da
        "conquistare", da "riformare" o da "amministrare", resta la
        vera (forse la sola) residuale radice "marxista" e "leninista" della
        strategia della sinistra nel suo complesso. 
         
        Unitamente a questo, e in conseguenza di questo, pesa (e molto) la persistenza di una
        concezione toponomastica dello spazio politico, dove - lungo la linea del continuum
        destra-sinistra - si disporrebbero le diverse formazioni, ordinate secondo una gerarchia
        di intensità della quota di sinisteritas che esprimono. E la sinisteritas presuppone un
        sistema politico costruito su una "rappresentazione lineare-assiale. In essa, ogni
        posizione ha un proprio topos, ben definito, è soggetto a un Nomos inflessibile. (
)
        L'intero sistema è interpretato misurando, di volta in volta, la distanza che separa le
        diverse forze da questo centro. Il tutto presuppone piena stabilità e trasparenza nei
        valori che caratterizzano i diversi topoi. Tali valori sono, per così dire, obbiettivati
        in questi luoghi, così che i diversi soggetti in movimento lungo l'asse del sistema si
        trovano ad assumerli, a seconda della propria collocazione". In estrema sintesi,
        l'intero sistema politico dipende dalla "obbiettivazione dei valori ai diversi topoi
        politici sistemati sull'asse destra-sinistra (sono di sinistra poiché qui mi colloco, e
        cesso di esserlo quando mi colloco altrove)" (Massimo Cacciari). 
         
        Quanto sia fragile una tale rappresentazione toponomastica e "obbiettivata" è
        dimostrato, in ultimo, da un esempio eloquentissimo: secondo quella scala di valutazione,
        un presunto indicatore della sinisteritas, come il rifiuto del rientro in Italia dei
        Savoia, collocherebbe nella casella estrema di quel continuum il partito della
        Rifondazione comunista, il partito Repubblicano e alcune componenti e alcuni esponenti
        della sinistra tradizionale. Ma, giusto per intenderci, il principio della responsabilità
        individuale - in una vicenda come quella dei Savoia - ci sembra assai più qualificante di
        una concezione matura di terza sinistra rispetto a quello della responsabilità dinastica
        ed ereditaria. L'esempio è più significativo di quanto si possa credere: anche in tal
        caso, infatti, a determinare la posizione di "falsa sinistra" (ci si passi la
        brutta formula), è la convinzione del primato dello Stato e dell'ideologia di Stato
        (nazional-repubblicana) sui diritti individuali della persona. E una seconda motivazione,
        più raffinata, rivela anch'essa la medesima radice statolatrica: ovvero l'attribuzione
        allo Stato e alle sue leggi (e ai suoi divieti) di un ruolo "pedagogico". Una
        "pedagogia" destinata, in questo caso, a perpetuare (normativamente) la memoria
        e a produrre (normativamente) informazione ed educazione (repubblicana) nei confronti dei
        cittadini. 
         
        Ed è la stessa opzione che determina un atteggiamento "laicista" in tema di
        parità scolastica. Assegnare allo Stato, com'è giusto, la funzione di garantire a tutti
        l'accesso a una istruzione libera e pluralista, non deve significare - in alcun modo -
        riconoscergli un proprio progetto pedagogico: appunto, statuale-nazionale-repubblicano. E,
        tanto meno, esigere che a quel progetto pedagogico si uniformino scuole, docenti e alunni.
        In estrema sintesi, si può ipotizzare un approccio alternativo che preveda: a) il primato
        dello Stato rispetto alla funzione di controllo delle regole e del rispetto di diritti; b)
        il primato dello Stato rispetto alla funzione di garanzia dell'universalità del diritto
        all'istruzione; c) il primato dello Stato rispetto alla funzione di tutela delle pari
        opportunità e dell'equità sociale. Ma tale approccio risulterà fecondo solo se saprà
        rifiutare il primato dello Stato rispetto alla funzione sociale della sfera
        educativo-formativa. 
         
        Ancora un esempio. Se costretti a scegliere, oggi, tra diritti individuali e diritti
        sociali all'interno del mercato del lavoro, nell'impossibilità di conciliare le due
        categorie (come vorremmo), riteniamo di dover privilegiare la prima. Per intenderci: tra
        l'estensione dello statuto dei lavoratori alle aziende con meno di quindici dipendenti e
        la piena parità salariale, è la prima rivendicazione quella maggiormente qualificante. 
         
        Si tratta, palesemente, di un esempio "estremo", ma che ci offre un
        efficacissimo criterio per definire una identità di nuova sinistra, capace di emanciparsi
        dai fondamenti culturali e di senso comune, propri della sinistra tradizionale. Da questo
        punto di vista, la critica di una impostazione economicista, che privilegia la parità
        salariale rispetto alla più ampia inclusione nel sistema dei diritti e delle garanzie, è
        utilmente "scandalosa": e significativa, appunto, di un approccio radicalmente
        diverso da quello convenzionale. 
         
        Un esempio altrettanto efficace è quello relativo all'abolizione della leva obbligatoria.
        Per decenni, a sinistra, ne è stato difeso il valore "nazionale" e
        "unitario-repubblicano": in altri termini, l'utilità della leva obbligatoria
        come funzione dello "Stato democratico". Oggi è "assai inquietante che la
        sinistra più radicale torni (
) a difendere quella forma di lavoro coatto al
        servizio dello Stato che è la coscrizione obbligatoria". E, d'altra parte,
        "anche il servizio civile, istituito come alternativa obbligatoria a quello militare,
        dev'essere inteso come un lavoro coatto, come sfruttamento e attentato alla libertà di
        scelta" (Marco Bascetta, il Manifesto, 4.9.1999). 
         
        Lungo questa traccia di riflessione, va costruita una cultura diversa, a partire
        dall'elaborazione intorno a quelle coppie di concetti (diritti sociali/diritti
        individuali; sfera pubblica/sfera privata; centro/periferia; istituzione/movimento;
        mediazione/conflitto) e a un diverso equilibrio tra i termini che, quelle coppie,
        compongono. Dunque, in questo documento, svilupperemo alcuni dei punti più significativi
        di una proposta politica che, intorno a una possibile aggregazione di terza sinistra,
        prova a focalizzare la nuova tensione e il nuovo equilibrio tra la periferia e il centro,
        tra i diritti individuali e le garanzie sociali, tra la sfera privata e la sfera pubblica,
        tra il conflitto e la mediazione, tra il movimento e l'istituzione, tra la sperimentazione
        di nuovi sistemi di azione e le forme classiche della politica. 
         
        3. Centro e periferia, periferia e centro 
         
        La sinistra - sarebbe meglio usare il plurale, come si è detto - ha inseguito e finito
        per assumere come perno del proprio modello politico la forma e il sistema di Stato che
        hanno caratterizzato la storia del mondo dal '600 a tutto il '900. Lo sviluppo delle
        grandi identità politiche, innanzi tutto: le nazioni e gli stati nazionali come grandi
        costruzioni delle realtà territoriali, etniche, economiche e culturali. All'interno, un
        modello politico e amministrativo dominato da una forma di governo della società espressa
        nella rappresentanza e nella delega che assumono carattere assoluto. Il governante
        rappresenta il corpo dei governati. Sovranità e rappresentanza costituiscono il cuore
        della moderna politica: ogni forma di democrazia è all'interno di tale predominio. In
        nessun caso, la partecipazione attiva del cittadino può essere l'inizio e il fine della
        politica. E la sovranità è il centro, punto nevralgico di scelta e di decisione, e di
        sintesi delle dimensioni che la periferia del potere raccoglie ed esprime. Si può
        decentrare, vale a dire rimettere dal centro alla periferia alcune istanze di
        amministrazione, ma risulta eversiva ogni espressione autonoma della periferia.  
         
        Questo modello politico è stato dominante per tre secoli. La sinistra l'ha seguito e
        inseguito, nel tentativo di rovesciarne gli aspetti inaccettabili per le classi oppresse.
        Il modello fondato sulle grandi identità collettive - classe, partito, Stato - è stato
        così ribaltato. A classe, partito e Stato borghesi, si oppongono classe, partito e Stato
        di diversa qualificazione. Caso classico - per la sinistra, tanto rivoluzionaria che
        riformista - di inversione e scambio tra mezzi e fini. Dal momento che lo Stato moderno è
        la struttura del potere delle classi dominanti, è a quel livello - con la rottura
        radicale o con la riforma democratica - che deve rivolgersi l'azione delle classi
        subalterne. Il sostantivo nella sua potente rappresentazione di stabilità e di sicurezza
        - stato come participio passato del verbo essere - è indiscutibile; quello che si può
        modificare è l'aggettivo che lo accompagna: assoluto, liberale, proletario, socialista,
        democratico, eccetera. In ogni caso, il centro detiene sovranità e potere. Può,
        naturalmente, decentrare alcune delle sue prerogative. Può anche riconoscere e
        coordinare, con le proprie articolazioni, autonome forme di amministrazione che si
        esprimono nella periferia. E' il caso del federalismo, nelle sue diverse espressioni
        storiche (aggregazione di autonome sovranità locali; decentramento di funzioni e poteri).
         
         
        Oggi, quel modello di Stato e di potere rivela irreversibili segni di crisi, che si
        manifestano sia nella difficoltà dello Stato-nazione ad affermare autonomia e prerogative
        rispetto ai processi di globalizzazione, sia nella crescente impotenza della politica a
        esprimere rappresentanza (basti pensare ai livelli sempre più ridotti di partecipazione
        politica). Ma crisi non comporta la conclusione di un'esperienza né un esito già
        prevedibile e, tanto meno, positivo. La terza sinistra deve agire proprio su questo
        terreno di crisi, individuandone i passaggi più acuti e fertili. 
         
        Soprattutto, si tratta di assumere un punto di vista radicale: non tanto sul terreno delle
        forme di lotta, quanto su quello della qualificazione ideale e materiale del modello
        politico. Occorre sostanziare le rivendicazioni di libertà e di eguaglianza sul piano
        dell'elaborazione, e della conquista, di una effettiva autonomia. Tutti i modelli di
        sviluppo guidato dal centro hanno esaurito la loro carica positiva (peraltro già scarsa e
        scadente); all'ordine del giorno è la costruzione e il riconoscimento di forme di
        autogoverno e di autogestione nei luoghi della periferia . 
         
        4. I diritti e la democrazia  
         
        La sinistra ha rappresentato il fattore più forte dei processi di emancipazione e di
        modernizzazione che si sviluppano a partire dal 18° secolo: ma, si diceva, dentro la
        cornice definita dall'idea di comunità politica, che si afferma in Europa dopo la pace di
        Westfalia (1648). 
         
        Di quella riorganizzazione dello spazio geo-politico europeo la sinistra è figlia, e il
        suo antagonismo è disegnato dentro quei confini. Questo significa che l'intero cammino
        dei diritti individuali (prima civili e politici, poi sociali e, oggi, della terza e della
        quarta generazione) era concepibile, e percorribile, soltanto allinterno dei giochi
        della rappresentanza e della governabilità degli spazi territoriali delle costruzioni
        statuali. Come sosteneva Marx, la "storia, quando arriva ad un bivio, prende spesso
        la strada sbagliata". Le condizioni della politica nellEuropa post-Westfalia
        hanno fatto sì che o si era cittadini di Stati o non si era soggetti: così i diritti
        risultavano, pur sempre, elargizione del potere statuale e, hegelianamente, dipendevano da
        esso. Tutto ciò ha prodotto importanti conseguenze in termini di spazi
        "pubblici" della vita collettiva, di realizzazione dei diritti, di immagini
        delle comunità politiche. Ma, soprattutto, quella dimensione configurava un modello di
        "mondo vitale" e di comunità politica sempre piccolo, locale, affrontabile e
        governabile con i limitati strumenti delle altrettanto piccole comunità di potere.  
         
        Qui il legame tra culture dei diritti, spazi pubblici della cittadinanza e modelli
        ambientali è visibile e molto forte. Tuttora la sinistra tende a dimenticarlo o,
        addirittura, a misconoscerlo: soprattutto oggi, quando le tematiche ambientali riportano
        il problema della tutela dei diritti individuali a dimensioni planetarie, non riducibili
        dentro il vestito stretto delle comunità statali. E vale per lambiente quello che,
        già da tempo, emerge in termini di politica delle risorse, di sostenibilità complessiva
        dello sviluppo e di equità sociale: bisogna fare i conti, sempre più, con alcune
        irriducibili variabili demografiche, che non consentiranno più di pensare nei termini
        etnocentrici consegnatici dalla tradizione della vecchia Europa: se non altro perché i
        flussi migratori imporranno la nascita di culture comunitarie diverse tra loro, e
        imporranno un nuovo "politeismo". 
         
        A tale "politeismo comunitario" si aggiunge una inattesa configurazione della
        geopolitica. Rispetto alla classica diarchia capitalismo/comunismo, che ha connotato larga
        parte della storia degli Stati moderni, la "caduta del Muro" ha prodotto una
        profonda alterazione culturale del quadro: venuto meno il mondo del comunismo organizzato,
        si sono riversati sul capitalismo bisogni, domande, aspettative di giustizia sociale che
        quel mondo scomparso, perlomeno, diceva di rappresentare. Così sono aumentati i compiti
        delle democrazie capitalistiche occidentali e si è enormemente complicata l'elaborazione
        di fini e strumenti per le sinistre che hanno assunto poteri di governo.  
         
        A questa analisi occorre aggiungere limportante capitolo dei conflitti generazionali
        - sempre più profondi e sempre più visibili - che dal terreno delleconomia si
        diffondono nelle altre sfere della società; e che appaiono come l'esito immediato di un
        idea e di una prassi dello sviluppo, costruiti intorno ai paradigmi, ormai inadeguati, di
        una vita produttiva imperniata su fabbrica e campagna. La dimensione del lavoro bodyless,
        timeless, deskless, cioè disancorato dal tempo misurato e dal luogo circoscritto, ne è
        soltanto la ricaduta evidente. Dal punto di vista della simbologia culturale, la
        centralità assunta dal corpo, dal tempo, dal genere, sia pure sotto forma di bisogni
        indotti dai cambiamenti tecnologici, è la spia - tra l'altro - dell'inadeguatezza della
        tradizionale elaborazione politico-culturale della sinistra.  
         
        Tutto questo mette in discussione non soltanto limpianto etico-politico costruito
        intorno alla chiave di volta del "collettivo" e del "comunitario",
        sempre più conflittuali e sempre più attraversati dalla ricchezza (anche dissipativa)
        dei tanti collettivi e delle tante comunità. Tutto questo mette in discussione anche le
        forme dell'azione politica e limpianto della comunicazione pubblica. Cè uno
        spazio importante, significativo e trascurato, che va ripensato: è lo spazio di una
        democrazia costruita sui diritti, innanzitutto individuali, il cui contrario è la
        democrazia costruita sui poteri. Uno spazio lasciato vuoto, nella tradizione
        post-Westfalia, tanto dalla destra quanto dalla sinistra. Dalla destra, che ha soltanto
        evocato libertà, ma non responsabilità e doveri connessi né tantomeno uguaglianza (e si
        trattava di libertà che avevano come perno il diritto di proprietà, affidato al mercato
        senza regole, e legoismo possessivo a esso correlato).  
         
        Ma anche la sinistra ha lasciato vuoto quello spazio: pur preoccupandosi dei diritti
        fondamentali e delluguaglianza a essi connessa, ha sempre dato una versione, per
        così dire, "doppia" e "giacobina" della democrazia dei diritti. Ha
        considerato i diritti, e le forme della democrazia su essi imperniate, come "corrente
        fredda", che aveva valore, ma fino a un certo punto: mentre la "corrente
        calda", quella che anima la storia e per cui è giusto e opportuno combattere, è
        rappresentata dalla politica. Va tutto bene quando la politica vince e quando socializza
        (meglio: universalizza) mezzi e fini; diventa un problema quando riduce tutto a logica di
        potere e a gestione dallalto. La ricaduta si è vista, più di una volta, nella
        parabola dei governi europei ed è stata identificata con la formula "teoria
        conservatrice della crisi". 
         
        Detto ciò, emerge chiaramente che obiettivo della sinistra terza è quello di vivificare
        tale spazio "invisibile" che, come lanello di Clarisse, attende di essere
        colmato. Quello spazio ha lindubbio merito di costituire il punto di congiunzione
        tra liberalismo e comunitarismo e di rappresentare l'occasione di raccordo tra la
        dimensione privata e la dimensione pubblica. Il diritto di ognuno è bene comune di una
        comunità politica, che scommette sui patti e sui fini condivisi; e questo - va aggiunto -
        fa parte della storia, sempre evocata ma finora mai vincente, del grande costituzionalismo
        europeo. Valga lesempio della Costituzione francese del 1793, che definiva le
        "garanzie sociali" di una comunità politica come risultato del doveri di tutti
        di rendere effettivo il diritto di ognuno, legando indissolubilmente diritti individuali e
        politica collettiva. Questa concezione, notoriamente, è sempre stata trascurata.  
         
        Per riprenderla con forza, l'attenzione va concentrata su soggetti e contenuti dei
        diritti. E qui l'innovazione deve essere radicale: soggetti non sono soltanto i cittadini,
        ma ognuno, indipendentemente da nascita, sangue, cultura, cittadinanza. Il nodo più
        ingarbugliato sta nello stabilire quali siano i diritti fondamentali che una comunità
        politica deve garantire come entitlement (titolarità) e come provisions (risorse): e che
        sono condizione necessaria, anche se non sufficiente, per una vita democratica. Qui la
        cultura della sinistra deve riscoprire un universalismo dimenticato: sono fondamentali
        quei diritti che comportano il massimo di inclusività, cioè quei diritti di cui il
        singolo non può isolatamente godere se contemporaneamente non ne godono tutti gli altri
        (come l'aria e l'acqua). Garantire tali diritti significa assicurare la base di
        unuguaglianza complessa e di una libertà matura, che consentano a ognuno di
        esprimersi e di scegliere ulteriormente la propria personale dimensione di vita. Questo
        significa concretamente conoscere quello che si mangia e quello che si beve, le condizioni
        sanitarie e quelle abitative, le scelte educative e quelle sessuali. E qui si colloca il
        grande campo delle scelte bio-etiche, da considerare non soltanto nella chiave del rifiuto
        della "manipolazione", ma anche in quella della libertà di ognuno e della
        sovranità su se stesso. 
         
        Dal punto di vista teorico-politico, va detto che scegliere la via della sfera pubblica
        dei diritti individuali significa il deciso superamento del conflitto tra liberalismo e
        comunitarismo. Nella prospettiva della terza sinistra si guarda a una comunità come al
        luogo degli individui, dei loro bisogni e delle loro libertà, delle loro preferenze e dei
        loro desideri, che non possono che essere condivisi da tutti gli altri. Lo si può
        chiamare "egoismo maturo" o "individualismo generoso" o in mille altri
        modi, ma sempre esso vuole rappresentare luniversalismo che persegue la
        valorizzazione delle differenze e del "plurale": e non, certo, l'universalismo
        imposto dallalto e inteso come sacrificio della individualità. Sappiamo, infatti,
        che luniversalismo astratto divide e che le differenze reali possono accomunare.
        Questa appare la prospettiva di una possibile emancipazione e questa si rivela una via
        politica da perseguire con intelligenza. 
         
        5. Sfera pubblica e sfera privata 
         
        La contrapposizione sfera pubblica/sfera privata è rivelatrice del robusto impianto
        comune che innerva "le due sinistre". Quella contrapposizione si manifesta
        attraverso due fondamentali riflessi condizionati: a) il pregiudizio positivo a favore
        dello Stato riguardo alle sue competenze economiche e sociali; b) l'attribuzione allo
        Stato della tutela del bene comune sul piano dei valori unificanti e dell'etica
        collettiva. Le "due sinistre" condividono tali riflessi condizionati: la sola
        differenza consiste nella diversa intensità con cui li avvertono e li manifestano.
        D'altra parte, ciò che qualifica una sinistra terza non è il fatto di nutrire un
        pregiudizio positivo nei confronti della sfera privata; e, tuttavia, essa paventa la
        fragilità di quella sfera privata nel confronto col potere statuale, ne valorizza la
        vitalità e l'iniziativa, ne difende le primarie e inviolabili garanzie costitutive. E,
        soprattutto, valuta l'utilità e l'efficacia delle prestazioni e dei servizi, delle
        risorse e delle competenze di quella sfera privata sulla sola ed esclusiva base dei
        risultati conseguiti. Per intenderci, sul piano delle politiche dell'occupazione, in alcun
        modo si può attribuire allo Stato-imprenditore un primato o un ruolo privilegiato
        rispetto ad altri soggetti imprenditoriali; nessuna esaltazione o assolutizzazione
        (tantomeno "ideologica") della libera iniziativa, ma nessuna compiacenza o
        protezionismo verso l'economia pubblica, se non sulla base dei risultati: ossia dei veri
        posti di lavoro effettivamente creati. 
         
        Il punto di partenza è, dunque, semplice: la sfera pubblica dell'economia non coincide
        né con la sfera dell'economia pubblica né con il pubblico della sfera economica. E'
        qualcosa di differente, coinvolge dimensioni della vita di ognuno, ma non si esaurisce
        nella contabilità del dare e dell'avere né nel bilancio di costi e benefici. La sfera
        pubblica valorizza le iniziative individuali, ma si preoccupa dell'accesso di tutti ai
        beni fondamentali; non si confonde con l'antitesi economia privata/economia pubblica, ma
        costruisce reti di tutela e di accesso per i diritti di ognuno. Libero, ognuno, di
        esercitare preferenze, ma libero, certo, di fruire di (e di contribuire a) risorse comuni,
        definite dagli ambiti dei beni comuni. E vale per i beni fondamentali quello che vale per
        i diritti fondamentali: si tratta di quei beni di cui non posso individualmente godere se
        nello stesso istante non ne godono tutti gli altri (la vita, l'ambiente, l'informazione,
        l'istruzione). Una sinistra terza deve recuperare questo universalismo e vincere
        quell'antropologia dell'invidia ("ne godo io perché non ne godono gli altri"),
        su cui poggia ogni manifestazione di fondamentalismo capitalista. Proprio nella sfera
        pubblica, va detto, non c'è spazio per quella "invidia", costruita sulle
        diverse forme di egoismo possessivo. La sfera pubblica è quella che meglio rappresenta e
        tutela le sfere private: ciascuna di esse e il loro complesso. Le politiche pubbliche,
        quindi, dovranno avere come obiettivo un allargamento della sfera pubblica e un suo
        maggiore consolidamento. Ciò anche in presenza di (se non grazie a) una limitazione
        quantitativa e qualitativa dell'intervento statuale. 
         
        In questo quadro, politica pubblica non deve comportare né l'abbassamento della soglia
        della ricchezza da redistribuire, né una scelta pauperista, affidata interamente a una
        strategia di sussidi e di "minimi vitali". 
         
        E tuttavia, precisato questo, resta da chiedersi se - su temi come la questione
        previdenziale e assistenziale e quella dei servizi sociali - sia possibile perseguire la
        riduzione della tutela pubblica, gestita dall'intervento statuale (centrale o decentrato),
        al minimo indispensabile. 
         
        Sia chiaro: la riduzione al minimo indispensabile va perseguita progressivamente, con la
        massima attenzione per l'equità sociale e per gli equilibri complessivi del sistema; e,
        soprattutto, va garantito che la tutela di tutti i bisogni primari sia sottratta
        all'arbitrio del mercato e dei rapporti dispari e asimmetrici tra i diversi soggetti che
        vi operano. 
         
        Questo può comportare (probabilmente deve comportare), e per una fase non breve, un
        sistema di welfare non più "corto" né meno "costoso". E, infatti, la
        riduzione al minimo indispensabile della tutela pubblica per i bisogni primari non
        comporta affatto minore tutela per ognuno di quei bisogni; e nemmeno significa che debba
        diminuire il numero dei bisogni primari tutelati o l'ampiezza della platea dei
        beneficiari. Al contrario. Il pacchetto di prerogative irrinunciabili tende ad allargarsi
        e a differenziarsi e richiede una protezione più complessa e sofisticata. 
        Esemplare il caso dell'assistenza sanitaria, dove - accanto alle terapie per la salute
        psicologica - vanno previste le cure e le medicine non convenzionali; e dove,
        indubbiamente, l'assunzione come essenziale del principio della libertà terapeutica può
        rivelarsi assai "costoso". 
         
        L'ampliarsi delle opportunità messe a disposizione dal riconoscimento della libertà
        terapeutica impone, per un verso, la diversificazione dei servizi accessibili dopo la
        soglia minima; e, per altro verso, esige selezione delle spese e ingenti risparmi. Il che
        sarà tanto più possibile quanto più si terrà conto dei mutamenti intercorsi nelle
        forme di vita e nelle stesse aspettative e modalità di cura (si pensi soltanto al
        passaggio dal ricovero e dalla permanenza in ospedale al ricorso al day hospital). 
         
        In questa prospettiva, va accolta la linea di politica della sanità disegnata dalla
        recente riforma, che differenzia la sanità pubblica da quella privata nella riserva di
        accesso universalistico e nella sottrazione del diritto alla salute a logiche di mercato
        relativamente a strutture, competenze e, non ultimo, fruizione. 
         
        Va ribadito, infatti, che l'attenzione per la sfera pubblica non si risolve in una singola
        scelta o nel primato di un elemento, ma è il risultato complessivo di politiche che
        attengono 
         
        a) alla definizione del bene, non privato e inclusivo; 
         
        b) alle modalità di accesso, uguali, informate, controllabili; 
         
        c) alla circolazione delle risorse e alla capacità di massimizzare i benefici sociali per
        la quota più ampia di popolazione. 
         
        Da questo punto di vista, andrebbero ripensati alcuni meccanismi di formazione e di
        erogazione di quote di servizi (dai trasporti alla scuola). Ma un esempio sugli altri va
        introdotto, ed è quello relativo alla politica di donazione degli organi. Per quanto sia
        apprezzabile il tentativo di ridurre la scarsità dei beni (pubblici) da destinare al
        trapianto non appare adeguato l'attuale meccanismo di "consenso informato"
        (opting in) o, peggio, di mancata manifestazione contraria di volontà (opting out). La
        donazione coinvolge quote di solidarietà (e di comunitarismo) molto alte e, perciò, va
        coltivata con il massimo dell'informazione partecipata, nel rispetto delle più diverse
        forme identitarie (etiche, culturali, religiose), e non attraverso il paradossale comando
        dell'obbligo a donare. Analogo discorso va fatto per la questione delicata delle
        informazioni genetiche: patrimonio importantissimo che può configurarsi come "bene
        comune". Va sottratto, quel bene, a logiche di appartenenza (di un individuo, di un
        gruppo etnico, di una entità territoriale) e va utilizzato ai fini della più estesa
        massimizzazione dei suoi risultati: per questo non va subordinato a mercati e a brevetti.
        Va valorizzato, piuttosto, l'aspetto di conoscenza sociale che quel bene contiene e, nello
        stesso tempo, va garantita l'effettiva tutela del singolo individuo che di quel bene
        partecipa. 
         
        In un tale contesto di espansione e qualificazione delle prestazioni, ridurre al minimo
        indispensabile la fornitura pubblica di servizi significa diversificare anche -
        soprattutto? - le fonti di loro finanziamento. In altri termini, come si è anticipato, la
        conformazione universalistica dei servizi non viene certo compromessa (e, sotto il profilo
        finanziario, può risultare rafforzata) dal fatto che, ad alimentare le risorse
        necessarie, concorrano - in misura che può risultare prevalente - i diversi soggetti,
        anche privati, del mercato. 
         
        I rischi di tale soluzione sono evidenti: il primo è che l'intervento pubblico si riduca,
        nonostante tutto, a una dimensione residuale, e che i suoi destinatari - residualmente,
        appunto - si limitino a essere "i poveri". E, poi, che la qualità anche delle
        prestazioni fondamentali possa risultare gravemente diseguale, discriminatoria e
        penalizzante per le fasce sociali meno garantite. Esistono, infine, rischi altrettanto
        gravi per l'equilibrio complessivo del sistema: "per aree strategiche del vivere
        civile - come scuola, previdenza, sanità - i mercati presentano elevati gradi di
        incompletezza o addirittura di inesistenza"; e "quand'anche esistenti e
        relativamente completi, essi spesso operano a costi e prezzi maggiori di quelli che
        sarebbe teoricamente possibile" (Laura Pennacchi). 
         
        Questi pericoli sono indubbiamente assai seri e non vanno sottovalutati, ma non sembrano
        tali da ridurre, di necessità, le "adeguate dosi di universalismo" che la
        Pennacchi rivendica, che riteniamo indispensabili e che ci sembrano conseguibili
        attraverso sistemi diversi da quelli tradizionali. Certo, si può ipotizzare che una nuova
        "crisi fiscale" dello Stato - evidentemente da scongiurare - possa essere
        l'esito dell'incremento di quelle "dosi", ovvero dell'espansione della platea
        dei destinatari di prestazioni universalistiche (gli immigrati non comunitari, ad esempio)
        e dell'allargamento del ventaglio delle prestazioni stesse. Ma è proprio qui che il
        ricorso all'alimentazione finanziaria offerta dalle imprese e da altri soggetti del
        mercato può risultare assai importante. Sotto il profilo teorico, la nostra attenzione si
        concentra su quella che abbiamo definito la sfera pubblica dell'economia: ovvero il
        complesso delle garanzie giuridiche e sociali e delle reti di tutela che assicurano
        l'accesso ai beni comuni. Questo ci interessa assai più di quanto ci prema sapere
        "chi paga" la costituzione e la fruizione di quei beni comuni. 
         
        Per altro verso, riteniamo prioritario, in questa fase, operare nel senso della riduzione
        e della selezione: individuare e circoscrivere, dunque, le aree di funzioni, competenze e
        servizi che devono restare proprie ed esclusive dello Stato, e "liberare" tutte
        le altre. Quest'opera di individuazione è appena agli inizi e non deve dare nulla per
        scontato. 
         
        6. L'eresia economica ecologista 
         
        Un approccio innovativo, per la sinistra, al rapporto pubblico/privato nel campo economico
        può intersecarsi efficacemente con la riflessione critica sui fondamenti dell'idea di
        sviluppo, come ci è stata trasmessa dall'intera cultura progressista e dall'economia
        classica. Non è una riflessione recente. 
         
        Il riferimento obbligato è il concetto di limite nello sviluppo. Ci riferiamo al rapporto
        Forrester del '68-69 che poi divenne, su commissione del Club di Roma al Mit, il famoso
        "World Dynamics", in cui - nell'affermare i "limiti dello sviluppo" -
        si illustrava come la crescita quantitativa e illimitata fosse incompatibile con la
        salvaguardia, non soltanto dellambiente, ma dellintera specie umana. Il
        dibattito si spostò poi sulla Z.e.g. (Zero economic growth): ed Herman Daly propose lo
        "stato stazionario" come punto di equilibrio, fornendo alcuni criteri di
        "sostenibilità" per il sistema economico. A proposito di "World
        dynamics", qualcuno ricorderà le famose "curve a campana" utilizzate in
        quella modellistica, a significare che o per fattori economici (risorse,
        approvvigionamenti, derrate alimentari, energia) o per fattori demografici o per
        inquinamento, se non si assume il concetto di limite e di controllo, il destino è
        segnato. Le "curve a campana" sono correlate, infatti, alle vecchie curve
        logistiche di Verhulst, che riguardano il "processamento" di stock: e se le
        risorse sono finite, la loro evoluzione nel tempo segna, con lintersezione della
        curva con lasse temporale, la "morte" del sistema. Possiamo perciò
        riproporre le "curve a campana", pur senza sposare quella modellistica, come un
        simbolo della contrapposizione con il pensiero economico classico.  
         
        Il modo migliore di sintetizzare tutto questo, lo trovò Kenneth Boulding, un economista
        nord-americano, il quale, più di venti anni fa, compendiava tutto il ragionamento sul
        limite in una immagine molto semplice: "il mondo di oggi si trova a dover passare
        dall'economia del cowboy alleconomia della navicella spaziale". Il cowboy ha
        risorse illimitate a disposizione e né lui né il suo cavallo "consumano" la
        prateria e producono inquinamento. La navicella spaziale, al contrario, è uno spazio dove
        ogni risorsa, addirittura ogni elemento informativo, va programmato e gestito con cura
        meticolosa perché, altrimenti, i limiti della vivibilità vengono immediatamente
        raggiunti. Questa immagine è la più efficace per evidenziare la forte cesura
        registratasi rispetto al pensiero delleconomia classica. E' esattamente questo il
        nostro punto di riferimento iniziale; ed è esattamente per questo che siamo tacciati di
        malthusianesimo dagli odierni fautori della crescita illimitata. In effetti, Malthus aveva
        posto - proprio al sorgere della teoria economica classica, e in totale controtendenza -
        il problema della limitatezza delle risorse rispetto alla crescita in progressione
        geometrica della popolazione: e, perciò, può essere considerato a pieno titolo un
        precorritore della cultura del "limite". E proprio in questa prospettiva
        che Laura Conti sosteneva, alla fine degli anni 70, le ragioni di Malthus contro
        quella di Marx, per polemizzare con le posizioni "sviluppiste", proprie di gran
        parte della sinistra e dei suoi intellettuali.  
         
        Che campo di applicazione ha avuto questa concezione alternativa delleconomia, in
        particolare nellesperienza italiana? Il primo terreno sul quale si è misurata è
        stato proprio la battaglia sulle scelte energetiche, iniziata a metà degli anni 70
        e proseguita per tutto il decennio successivo. E interessante ricordare che uno
        degli elementi significativi di quella battaglia fu la demistificazione delle cifre
        fornite dagli enti ufficiali, tutte basate sulla forte correlazione tra crescita del
        prodotto interno lordo e crescita dei consumi energetici, a sostegno di un
        sovradimensionamento della domanda, che giustificasse gli enormi piani di offerta di
        energia, soprattutto elettrica (le venti centrali nucleari propugnate da Carlo Donat
        Cattin nel 1977). Altro elemento significativo di quella battaglia fu lelaborazione
        e la comunicazione di un modello energetico alternativo. 
         
        Nel merito delle scelte di politica energetica, lattuale sistema italiano, per
        quanto riguarda le fonti di approvvigionamento, corrisponde a quello indicato dagli
        ambientalisti ben prima del disastro di Cernobyl. Vale a dire: rinuncia al nucleare,
        ricorso al carbone entro i livelli dei primi anni 80, sostituzione del petrolio con
        il combustibile meno inquinante, il metano. Poi, cè tutta la parte dolente del
        ritardo sul risparmio energetico e sulle fonti rinnovabili, ma il punto che qui interessa
        è un altro. Ovvero, il fatto che quella battaglia riuscì a contrastare le previsioni
        ufficiali di incremento del Pil e dei consumi energetici (gonfiate secondo i precetti
        propri della crescita "illimitata"), contrapponendo loro un programma fondato
        sulluso efficiente dellenergia e sul risparmio, reso possibile
        dallinnovazione tecnologica. Sul limite, insomma. Un limite, è bene ricordarlo,
        inteso non come penuria e come decadimento della qualità della vita, ma come applicazione
        di un più intelligente utilizzo delle risorse. 
         
        Laltro punto che non va sottovalutato è quello relativo al piano politico-culturale
        e del senso comune. Nel referendum sul nucleare (novembre 1987), il Paese si espresse a
        stragrande maggioranza "contro" (anche se poi linterpretazione del governo
        fu di mantenere un "limitato presidio" nucleare), e quasi tutti i partiti furono
        costretti ad assumere la posizione indicata dal movimento antinucleare.  
         
        Da tale complesso di risultati deriva la valutazione dellesperienza antinucleare
        come la sola che ha saputo coniugare la capacità di trasformare battaglie di movimento in
        atti politico-culturali e quella di governare questioni cruciali (molte decisioni anche
        recenti, che hanno riguardato le politiche energetiche, sono lesito di quel
        patrimonio di mobilitazione). Puntare, poi, sulluso efficiente dellenergia o,
        se si vuole, sullaumento della produttività delle risorse materiali, costituisce
        unindicazione che ci sembra di fondamentale importanza nellera della
        "globalizzazione". 
         
        Ma, per tornare all'interrogativo sui risultati, in Italia, di una concezione alternativa
        a quella dell'economia classica, ricordiamo che l'elaborazione della categoria di limite
        non va considerata il solo segnale di forte discontinuità teorica e pratica. L'altro,
        analogamente significativo, è rappresentato dai tentativi di immaginare un diverso
        rapporto tra pubblico e privato e di elaborare una diversa concezione del ruolo del
        mercato. 
         
        A tutt'oggi, in gran parte della sinistra è dominante l'idea che pubblico sia sempre
        meglio di privato: in altri termini, prevale un robusto statalismo ideologico, che - già
        al suo nascere - lambientalismo provò a contestare; e che oggi, con più forza e
        con più solidi argomenti, può criticare radicalmente. E questo significa rinunciare,
        senza più esitazioni, a porre il problema delleconomia nei termini usuali della
        sinistra, per concentrare lattenzione e l'iniziativa sulla dimensione del mercato.
        Mercato che mostra una sua selvaggia vitalità darwiniana e che - lungi dall'essere il
        massimo regolatore della bontà delle merci e della correttezza della concorrenza - è lo
        spazio dove tutto è oggetto di scambio e di compravendita: le sostanze stupefacenti come
        gli organi dei bambini. E, tuttavia, il mercato esiste e in qualche modo funziona, con le
        sue patologie e le sue inefficienze: e, allora, il mandato degli ambientalisti è quello
        di porre vincoli ambientali e vincoli sociali sul mercato e al mercato. Una nozione,
        quella di vincolo, che consente di superare le secche della "pianificazione"
        centralizzata e della mitica "libera concorrenza" mai realizzata. Il vincolo, in
        particolare quello ambientale, costituisce l'utile snodo attraverso il quale le decisioni
        economiche assumono la natura di un'ampia e articolata di possibilità, opportunità,
        chances e di realizzazioni orientate ma non rigide. 
         
        Connessa a ciò, la prospettiva di una battaglia politica, sociale e culturale di lungo
        periodo, così riassumibile: se si vuole incidere sul mercato, si devono orientare le
        preferenze del consumatore. Ad esempio, la promozione di produzioni biologiche
        nellagricoltura ha esattamente questo senso: ovvero spostare il consumatore dai
        prodotti che richiedono fertilizzanti e pesticidi - quindi, un forte inquinamento a danno
        della salute - verso i prodotti "puliti", per arrivare a modificare le scelte
        produttive. Consideriamo l'ultimo decennio. Al di là delle valutazioni di merito, il
        percorso che dalla Conferenza di Rio de Janeiro del 92 porta alla Conferenza di
        Kyoto del 98 è quello che consente a parole vagamente esoteriche (come effetto
        serra e buco dellozono, desertificazione e distruzione della foresta pluviale) di
        venire percepite nella loro valenza anche economica. Sono, infatti, il come si produce,
        che cosa si produce e il come si consuma, che cosa si consuma che vengono messi in
        discussione e che vedono aprirsi conflitti tra gli Stati del pianeta: basta ricordare, per
        stare ai tempi più recenti, la vicenda della riduzione della CO2, alla Conferenza di
        Kyoto.  
         
        Quel percorso, Rio de Janeiro-Kyoto, esplicita molto bene come, a livello mondiale, la
        concezione ambientalista sia diventata elemento di conflitto molto aspro per le politiche
        economiche di governo (che devono tenere conto della pressione dei grandi gruppi
        multinazionali e delle industrie nazionali); e tutti i punti dellagenda 21 sono
        destinati a entrare in contrasto con questa o quella decisione dei governi nazionali o
        degli organismi di "governo planetario" (il Fmi o la Banca Mondiale). 
         
        Nell'esperienza italiana, poi, altra questione dirimente, a proposito del rapporto
        economia/ecologia, è l'atteggiamento verso le grandi opere pubbliche.  
         
        Non va dimenticato che nella prima legge finanziaria del governo Prodi, nei documenti
        della sessione di bilancio, si attribuiva ancora alle grandi opere pubbliche il ruolo di
        volano dello sviluppo. Dalla "variante di valico" al ponte sullo Stretto, questi
        progetti sono diventati simbolici di un conflitto che è riduttivo vedere solo nella sua
        dimensione ambientale, dal momento che prevede implicazioni, anche economiche e sociali,
        molto rilevanti. 
         
        Tra l'altro, ci riferiamo a un comparto capital intensive, mentre sarebbe necessario
        sostenere e valorizzare settori labour intensive. Ed è qui che si sviluppa l'ipotesi del
        "lavoro verde" come alternativa alle scelte sulle grandi opere pubbliche. 
         
        Quell'ipotesi, nata come esercizio accademico per dimostrare che, con i 40 mila mld
        destinati alle opere pubbliche dalle leggi finanziarie dei primi anni '90, si sarebbe
        potuto attivare un maggior numero di posti di lavoro in diversi settori (dai parchi al
        dissesto idrogeologico, dal turismo intelligente allartigianato e alle produzioni
        biologiche, dal risparmio energetico e dalle fonti rinnovabili alla ristrutturazione degli
        edifici e al recupero del degrado urbano) si è, poi, affinata e articolata; e ha
        determinato alcuni esiti positivi sul piano delle concrete scelte di governo.  
         
        Il "lavoro verde" è anche alla base del cosiddetto Salario di attività sociale
        (Sas), che tende, tra laltro, a superare gli aspetti assistenzialistici dei lavori
        socialmente utili, per creare piccole imprese, a partire dal sostegno erogato dalle
        istituzioni pubbliche. A condizioni rigorose: dopo un certo numero di anni,
        limpresa, oltre a funzionare, deve risultare autosufficiente; il che può
        contribuire a incentivare un mercato particolare ("terzo"), in parte già
        esistente. Questa tematica di "lavoro verde", "attività sociale" e
        "terzo mercato" è connessa, daltro canto, alla questione del welfare e
        può assumere una valenza più generale. Una volta riconosciuto il profondo modificarsi
        delle forme e della struttura stessa del lavoro, sono quelli gli strumenti utili (non
        certo i soli) per offrire una risposta efficace alla crisi occupazionale dell'Europa
        (diciotto milioni di senza lavoro nella UE e lItalia nei primi posti per numero di
        disoccupati). La prospettiva è quella di politiche occupazionali mirate, capaci di
        coniugare il fatto di essere labour intensive con quello di risultare ecosostenibili. Ma,
        palesemente, sono necessarie innovazione politica e audacia intellettuale.  
         
        Infine, sempre a proposito del confronto economia/ecologia nell'esperienza italiana, va
        ricordata l'introduzione della carbon tax. Quella che rappresenta una condizione
        essenziale dello sviluppo sostenibile, sin dalle analisi di von Weiszaeker, è diventata
        legge dello stato con la finanziaria del 1999. Si tratta di uno strumento migliorabile
        sotto vari profili, ma - senza dubbio - suscettibile di produrre un impatto significativo
        sul sistema economico 
         
        7. Economie locali e globalizzazione 
         
        Più controversa è la questione relativa ai nuovi strumenti di programmazione
        economica. E' sufficientemente condivisa lidea che i patti territoriali possano
        rappresentare, a determinate condizioni, una opportunità positiva; e questa problematica
        - il rapporto tra ecosostenibilità e politiche economiche "locali" - consente
        di riprendere la riflessione sul tema della globalizzazione. 
         
        Cè chi pensa alla globalizzazione come a un supermarket planetario, nel quale al
        cittadino sia consentita una sola dimensione, quella del consumatore. A questa pretesa, il
        pensiero ambientalista - che, tra i primi, parlò di globalizzazione - può rispondere
        esplorando le nuove opportunità offerte dalla dimensione locale. E la
        valorizzazione di questo livello decentrato, dove le scelte economiche e produttive
        possono essere praticate in forma sostenibile, che può fare della globalizzazione
        unoccasione, invece che soltanto una minaccia di "pensiero unico" e di
        "modello universale". Il circuito della globalizzazione, infatti, può
        consentire di mettere in rete e valorizzare, con unampiezza prima inconcepibile, i
        prodotti, inclusi quelli culturali, che denotano la specificità di unarea, di una
        regione, di una comunità. 
         
        Certo, lo scenario non è neutrale: e non è certo facile contrapporre l'utilizzo più
        efficiente e più intelligente delle risorse alla rincorsa ad aumentare la produttività
        del lavoro, cui assistiamo in tutti i paesi economicamente più forti. 
         
        Quanto detto consente di riprendere, brevemente, due punti che emergono dal "libro
        bianco" di Jacques Delors (1993). Il modello lì esposto prevede di relegare, anche
        se questo aspetto non viene esplicitato, nei paesi del Terzo, Quarto e Quinto mondo le
        produzioni di base - quelle pesanti e inquinanti - mentre il mondo "avanzato" si
        dedica alla telematica, allinformatica e ai servizi.  
         
        Quel modello - oltre che radicalizzare e rendere permanente la divisione internazionale
        del lavoro - finirebbe con l'incrementare i colossali flussi di merci e con l'aggravare,
        pertanto, il problema dei trasporti di materiali lavorati e pesanti dai luoghi di
        produzione a quelli di utilizzo, con conseguenze ambientali non certo trascurabili.  
         
        Infine, ancora una considerazione va fatta sul contrasto irriducibile tra quanto finora
        esposto e le visioni sviluppiste e industrialiste, che vedono nella crescita quantitativa
        dei consumi il volano dello sviluppo. Contrasto irriducibile innanzitutto perché, quella
        della "crescita illimitata", è una concezione eco-insostenibile: come tutto il
        movimento ambientalista, e non solo, ha ritenuto in questi 30 anni (a partire dal rapporto
        del Mit sui "limiti dello sviluppo"). E, poi, perché è dimostrabile che la
        crescita quantitativa, tutta a spese delle risorse del pianeta, mentre crea
        linsostenibilità della crescita stessa, non risolve i problemi
        delloccupazione. Non sembra acquisire maggiore credibilità, infatti, la tesi
        secondo la quale se cresce il Pil, cresce loccupazione: per il banale motivo che
        linnovazione tecnologica favorisce così intensamente i processi di ristrutturazione
        che, per quanto possa crescere il Pil, l'incremento dell'occupazione è una lenta
        tartaruga rispetto alla lepre degli incrementi di produttività del lavoro. 
         
        Questo solleva un interrogativo radicale: esiste un concetto di crescita economica che, al
        di là dei nominalismi, non sia in contrasto con i criteri di sostenibilità? 
        La nostra risposta è - nonostante tutto - positiva: quella compatibilità può essere
        perseguita in termini di aumento della produttività delle risorse, di spostamento della
        domanda dalla quantità alla qualità, di innovazione tecnologica che sempre più promuova
        la crescita di beni immateriali sostitutivi dei beni materiali tradizionali. 
         
        8. Gli esiti della crisi ambientale 
         
        In tutta evidenza, la questione ambientale ha assunto, oggi, uno statuto di grande
        rilievo, fino a rientrare nelle priorità di quasi tutti i governi delle democrazie
        avanzate. E tuttavia, pur avendo registrato alcuni successi (dagli esiti del Protocollo di
        Montreal sull'ozonosfera al primo Protocollo di Kyoto sul clima globale), la questione
        della riforma delle strategie di sviluppo in senso ecologicamente sostenibile rimane
        largamente disattesa. E, per quanto nuove paure e nuove emergenze possano ridurre la
        percezione dei temi in questione, la crisi ambientale globale rimane e non accenna a
        risolversi. Alla questione dell'accesso alle risorse naturali, tema da sempre oggetto di
        contenzioso geopolitico e di conflitti bellici, si aggiunge quella della conservazione di
        beni ambientali (come il clima), per così dire "immateriali", e che rimanda al
        problema della gestione intelligente delle risorse energetiche e delle conoscenze
        tecnologiche.  
         
        Resta il fatto che gli esiti della crisi ambientale possono essere diversi. Innanzitutto,
        una parte della crisi ambientale può (e, bisognerebbe dire, deve) essere assorbita dall'
        evoluzione della società tardo-industriale. Lo spostamento dell'attenzione dalla
        produttività del lavoro all'uso razionale delle risorse, incorporando nella logica
        economica la questione ambientale - attraverso una maggiore efficienza nel ricorso a
        materie prime, energia, acqua, suolo - può dare una prima risposta, ancorchè assai
        parziale. In questa ottica, l'economia di mercato può assorbire una parte della crisi
        ambientale, attraverso un incremento di tecnologia e di organizzazione (eco-efficienza)
        e/o commercializzando i "diritti di inquinamento". Si deve evitare che tali
        possibili sviluppi vengano "tecnicizzati" e si deve tenere ben fermo il
        presupposto fondamentale: i conflitti sulla questione ambientale riguardano, in primo
        luogo, i diritti di accesso alle risorse naturali e alle conoscenze tecnologiche. A tale
        proposito, la questione dell'ingegneria genetica è rivelatrice: il Sud ha la
        "materia prima", ovvero la biodiversità; il Nord ha la tecnica e i capitali. Se
        questi vengono usati per controllare i mercati a scapito del Sud, la questione è, prima
        che ambientale, politica. La definizione degli interessi generali deve indirizzare l'uso
        della tecnologia e la distribuzione dei benefici deve essere equa: questo è l'obiettivo
        politico di un ecologismo critico; questo è lo spazio di una sinistra nuova. 
         
        Al contrario, da parte dei cosiddetti "interessi forti" e corporati, vi è la
        tendenza a rendere indifferente la localizzazione degli investimenti, attraverso una sorta
        di "dumping dei diritti". Il messaggio inviato alla parte ricca del globo è
        chiaro: se si vogliono mantenere imprese e produzioni, bisogna ridurre la domanda di
        diritti individuali e sociali. Altrimenti, la localizzazione in aree con tutele minori o
        nulle sarà inevitabile. Questi progetti (come il Multilateral Agreement on Investmens, in
        sede OCSE), anche se falliti nel breve periodo, inevitabilmente verranno riproposti. E la
        globalizzazione, spostando tendenzialmente il baricentro dei mercati verso l'Asia,
        richiederà una risposta diversa, capace di alleanze inedite e transnazionali che,
        nonostante "i fatti di Seattle", sono tutt'altro che facili. In altri termini,
        non ci si potrà basare su una occidentalizzazione progressiva delle culture (come
        dimostra il caso del Giappone), ma si dovrà puntare su una cooperazione attiva e
        dinamica. La capacità di tradurre in termini nazionali l'esigenza (la necessità, ma
        anche la convenienza) di una solidarietà internazionale, è il primo banco di prova. 
         
        a. Il ruolo dello Stato 
         
        Se l'erosione-impoverimento dei ceti medi nelle società industriali mature è un processo
        in atto da tempo, che può modificare in modo significativo la composizione sociale e le
        aspettative delle diverse generazioni, il ruolo dello Stato va radicalmente ripensato.
        Oltre alla stabilità dei bilanci pubblici, un principio di equità intergenerazionale
        impone il rifiuto di scaricare sul debito i costi dell'attuale assetto socio-economico e
        le sue sperequazioni. Sia la questione delle pensioni che quella della disoccupazione
        richiedono una trasformazione radicale del ruolo dello Stato: da mero redistributore di
        ricchezza a redistributore di opportunità (ecco una delle funzioni che, come si diceva,
        restano irrinunciabili). Ciò implica la capacità di sostegno istituzionale, normativo e
        finanziario a quei settori no-profit che consentono la creazione di nuova occupazione.
        Senza nulla togliere alla funzione direttamente redistributiva che, comunque, non riesce
        più a "coprire" l'intera organizzazione sociale, si chiede allo Stato di
        aumentare i gradi di libertà della società, al fine di aumentarne la capacità di
        iniziativa autonoma.. 
         
        Al centro della questione della riforma dello Stato, dunque, c'è l'autonomia della
        società. Tutte le politiche che vanno nella direzione di incrementare la capacità della
        società di soddisfare le proprie esigenze senza un intervento diretto dello Stato, vanno
        incentivate. Ciò non significa in alcun modo "privatizzare tutto": come si è
        detto, sanità, istruzione e altri servizi possono essere trasferiti al mercato (salvo
        restando il discorso sulla "sfera pubblica dell'economia") solo in parte. Si
        richiede, pertanto, uno Stato autorevole nel far rispettare le regole e agile nel
        facilitare le condizioni perché le regole siano rispettate. In questo quadro, il
        rafforzamento del "terzo settore" appare, dunque, come un passaggio strategico,
        destinato ad avere un ulteriore sviluppo, _nche a causa della debolezza delle politiche di
        welfare. 
         
        b. Comunicazione e forma della politica 
         
        L'analisi ecologista porta a una ridefinizione di cosa è sinistra a partire dalla
        rappresentazione degli interessi collettivi da affermare e dei soggetti da tutelare: i
        popoli lontani, le generazioni future, gli esclusi (le giovani generazioni, innanzitutto).
        Dalla sommatoria di sensibilità - come viene convenzionalmente rappresentata:
        ambientalismo più terzomondismo più femminismo, ecc - si deve passare a una
        riformulazione complessiva della mappa delle relazioni tra i diversi soggetti e tra i
        rispettivi sistemi di diritti rivendicati. Il che comporta la (faticosa, parziale e
        provvisoria) formulazione di patti tra le generazioni, tra le classi, tra le aree del
        mondo, tra i generi. In questo senso va combattuta la riproposizione, comunque camuffata,
        degli stereotipi della sinistra "terzomondialista", che rimangono dominanti in
        Italia.  
         
        Tutela dei diritti universali della persona e assunzione di responsabilità individuale e
        sociale verso i beni collettivi (l'ambiente, in primo luogo): può essere l'asse di una
        nuova politica sovranazionale. Comunicazione e organizzazione sono il terreno su cui si
        gioca l'efficacia - e, dunque, la necessità - di una forza politica. La forma dell'una e
        dell'altra dipendono, in misura rilevante, dal sistema politico e istituzionale e dal
        contesto sociale in cui si opera: l' ecologia, quale forza fondata su idee e opzioni, su
        istanze morali e scelte radicali - espressione, in parte, della società civile
        organizzata - ha operato come "lobby multicanale", avente come riferimento
        movimenti "single-issue". La questione della sostenibilità dello sviluppo
        economico e sociale richiede un salto di qualità: dalle singole "tribù" a una
        rete multicentrica di relazioni, che produca alleanze e vertenze e che costruisca il
        discorso pubblico dei diritti. Ciò richiede la capacità di mettere in rapporto i diversi
        segmenti sociali, di individuare poste in gioco e di aprire conflitti, di proporre nuove
        mediazioni e nuovi patti, di elaborare e divulgare messaggi e parole d'ordine. Il
        "movimento" di Seattle coinvolge settori esigui delle società, ma ha quella
        capacità di evocazione che può risultare una importante risorsa politica per promuovere
        coscienza, indicare obiettivi, costruire senso. Questo fa sì che la questione
        dell'organizzazione si ponga in termini affatto inediti, come capacità di essere
        "agenti di collegamento" e "mezzi di comunicazione", senza sostituirsi
        alle forme autorganizzate della società, ma contribuendo a incentivarle e a dare loro
        nuove valenze e nuovi significati. Ciò richiede la disponibilità di risorse umane e
        tecniche, per trasformare l'azione della "lobby multicanale" in quello che
        potremmo definire un'agenzia politica a rete. 
         
        9. Mediare i conflitti 
         
        Guardare alla sfera pubblica, dove le differenze individuali si propongono e si
        confrontano, significa mettere in conto non una comunità idilliaca e pacificata, ma una
        società attraversata da conflitti. La loro vitalità va compresa e valorizzata, ma anche
        incanalata. Linterpretazione e la rappresentazione che, nella tradizione della
        sinistra, se ne sono date, vanno ridiscusse. In quella tradizione, ogni conflitto (e ogni
        movimento) veniva ricondotto alla centralità di Stato e di partiti, di quel modello di
        sovranità e di mediazione centralistica, che dovrebbe tenere, hegelianamente, tutto. E,
        invece, basti pensare al conflitto ecologico e allimpossibilità che esso sia
        ricondotto a uno Stato o dentro un solo partito, per cogliere tutta la debolezza di quella
        interpretazione. Ed è proprio nella lettura dei conflitti che si impone la ridefinizione
        di molte delle categorie di pensiero dei movimenti di emancipazione tradizionali.
        Costruiti intorno alle identità forti e oppositive (classe, sindacato, partito) che il
        sistema economico e lo spazio statuale generavano, essi hanno elaborato un modello di
        conflitto politico-sociale, figlio di quella forma delleconomia e dello Stato. Ma
        questo terreno, come vediamo, è cambiato radicalmente e continua a cambiare, tanto da
        imporre una mappa sempre diversa delle identità e una nuova rappresentazione dei
        conflitti dentro i quali si esprimono e agiscono.  
         
        E vanno tenuti presenti almeno due grandi processi che modificano il quadro complessivo. 
         
        1. Il primo è quello rappresentato dal progressivo emergere della cosiddetta silent
        revolution, che ha segnalato il ruolo crescente di dimensioni post-materialistiche nella
        formazione delle soggettività e dei loro ambiti di vita. Questo significa che, accanto
        alleconomia e alle sue dimensioni materiali, hanno acquistato spessore dimensioni
        identitarie (etniche, sessuali, ideologiche, religiose, etiche, generazionali, persino
        biologiche ecc.), che richiedono forme e spazi di riconoscimento. Tutto questo esige dai
        movimenti di emancipazione (e dalla sinistra terza, in particolare) lelaborazione di
        strategie relative a tematiche quali:  
         
        a) l'uguaglianza complessa, finalizzata alla costruzione di uno spazio pubblico della vita
        civile, più ampio e più sofisticato della sfera statuale; 
         
        b) i diritti individuali, capaci di declinare soggettività e appartenenza, affidati alla
        sovranità di ognuno su se stesso e non alla legittimazione di una sovranità centrale. Si
        tratta, dunque, di diritti orientati in funzione dellauto-determinazione piuttosto
        che del riconoscimento statuale (vedi le tematiche identitarie, del corpo, della
        sessualità); quindi, meno cittadinanza e più sovranità; 
         
        c) l'azione politica rivolta a conflitti non dicotomici (come quelli classici:
        ricchi-poveri, capitalisti-comunisti, ceti medi-classe operaia, struttura-sovrastruttura). 
         
        2. Il secondo processo è quello determinato dalla ridefinizione costante della
        geopolitica, che mette in crisi la dimensione "territorialistica" della
        comunità politico-statuale. Lo si può dire in molti modi. Hobsbawm parla di
        scomposizione tra globalizzazione e cosmopolitismo; Habermas analizza gli effetti del
        mutamento politico intervenuto in Europa, e non soltanto, grazie alle costellazioni
        post-nazionali nate dalle dissoluzione dei vecchi imperi statuali. Questo produce la
        revoca del rapporto tradizionale tra polis e oikos e richiede spazi e strumenti nuovi di
        intervento politico-sociale sul versante dei diritti, della reciprocità e della
        convivenza, allinterno degli ambiti nazionali. Non si tratta più soltanto di
        affrontare il multiculturalismo delle immigrazioni classiche, ma di rimescolare le
        dimensioni di ethnos (appartenenza etnica) e di demos (appartenenza politica) delle nostre
        società occidentali. Per questo, già listituzionalizzazione dellEuropa ha
        imposto qualche ripensamento. La domanda che si pone è se lEuropa abbia bisogno di
        una Costituzione, considerato che non solo non cè un ethnos comune, ma lo stesso
        demos ha ancora bisogno degli spazi tradizionali della cittadinanza statuale. A questa
        tesi si oppone - e la sinistra terza deve farsi più decisamente portavoce di questa tesi
        - unidea diversa di patto costituente, fondato sul primato dei diritti fondamentali,
        svincolati dalla cittadinanza e dalla sua dipendenza dall'ordinamento statuale.  
         
        Peraltro, non stupisce che, proprio su questo versante in cui la resistenza dell' idea di
        cittadinanza è forte, riemerga un modello di conflitto identitario nel senso regressivo
        del termine, fondato su un rinnovato ius sanguinis. Qui la cittadinanza diventa il veicolo
        di chiusure culturali e di egoismi sociali. Di conseguenza, la sinistra deve ridisegnare
        il proprio ruolo rispetto ai nuovi conflitti. Ovvero:  
         
        a) definire la differenza tra dissidio (come scissione) e conflitto (come confronto); il
        dissidio indica limpossibilità della comunicazione e l'incommensurabilità dei
        linguaggi (affetto-argomentazione, fede-ragione
), mentre il conflitto presuppone la
        (ed è alimentato dalla) condivisione del linguaggio; e richiede la comune appartenenza
        dei confliggenti. Quelli fra culture (capitalismo-comunismo, liberalismo-comunitarismo,
        islamismo-cristianesimo, persino fondamentalismo-laicismo) sono conflitti e non dissidi.
        In altri termini, se cè un esempio inequivocabile di comunità, questo è dato
        dalla comunità dei confliggenti, uniti da ciò che li divide e accomunati da
        "differenze comuni";  
         
        b) valorizzare gli spazi di comunicazione politica del conflitto; nel conflitto, infatti,
        si registra o interruzione o ricerca della comunicazione: e questa viene riattivata
        attraverso tecniche discorsive. Si tratta di un terreno squisitamente politico; 
         
        c) produrre una nuova normatività politica, in cui gli spazi siano negoziati dai soggetti
        politici, ma dentro la cornice dei diritti fondamentali;  
         
        d) sperimentare strategie per la soluzione dei conflitti, affidati a meccanismi non
        violenti e non autoritari. Tali strategie devono puntare su meccanismi di mediazione
        culturale e sociale, prima che su dispositivi istituzionali e statuali. Per questo, si
        deve investire sulla figura del mediatore, considerato che la mediazione è capace di
        funzioni comunicative e che il mediatore è colui che sa mettersi in mezzo e valorizzare
        le differenze comuni.  
         
        La mediazione ha un grande valore simbolico emancipativo. Lontana dalla forma del diritto
        paterno, che conserva - in particolare nei conflitti culturali - una quota di arbitrio e
        di intolleranza, la mediazione appare strumento più vicino a una politica fraterna,
        capace di considerare la differenza una risorsa. La mediazione, qui, non si pone in alcun
        modo come mezzo per rimuovere o per neutralizzare il conflitto. Al contrario: la
        mediazione può costituire una strategia per valorizzare il conflitto stesso come
        opportunità di pluralismo e per tradurlo in strumento di democratizzazione dei rapporti
        sociali. 
         
        La sinistra terza può farsi portavoce di questa moderna forma di
        solidarietà-reciprocità.  
         
        10. I soggetti, il mercato, le libertà. Ovvero cosa è stato veramente Seattle 
         
        Come prima conclusione e, insieme, come punto di partenza per un percorso successivo,
        ribadiamo che la divisione di campo tra sinistra riformista e sinistra antagonista non
        risponde, in alcun modo, alla crisi della sinistra tutta intera. Si può dire, anzi, che
        la "specializzazione" che esaspera i rispettivi ruoli (tra chi dimentica troppo
        in fretta e chi non smette mai di ricordare di essere stato comunista) produca due
        risposte entrambe "estremiste" ed entrambe tragicamente insufficienti (ad
        esempio, tutto mercato o niente mercato). 
         
        Basti un esempio: per quanto riguarda l'attività sindacale, una occasione importante -
        anche di "creatività lavorativa" - come la contrattazione dei modi della
        produzione, è stata abbandonata, per motivi opposti, da entrambe le sinistre. Il
        risultato è che a un sindacato organicamente legato alle "due sinistre", com'è
        quello maggioritario, non rimane che la concertazione centralizzata o l'opposizione
        radicale a essa; ma, in entrambi i casi, manca una piattaforma concreta, legata alle
        condizioni di lavoro, alla loro trasformazione e agli effetti (non solo organizzativi, ma
        anche sociali) delle innovazioni tecnologiche. Di conseguenza, risulta ancora più
        importante estendere anche a questo campo la critica nei confronti della concezione
        statocentrica dell'agire pubblico, capace di uniformare le modalità di azione e la stessa
        forma associativa dell'organizzazione del lavoro dipendente. Tutto ciò mentre si accentua
        la crisi degli Stati nazionali, a causa, per un verso, del ruolo sempre più autonomo
        assunto dal mercato e dalla finanza e, per l'altro, a causa dell'enfasi posta
        sull'identificazione nelle "piccole patrie" in cui si fanno convergere le
        identità etniche, culturali e religiose.  
         
        Sembra importante, allora, partire dalla questione del lavoro, della sua trasformazione,
        del suo impatto sulle risorse e sull'ambiente e del suo futuro, per ragionare di un
        programma possibile. 
         
        E' prioritario, intanto, capire se il lavoro "finisce", "non finisce"
        o semplicemente cambia. Rifkin dice che finisce, Rojas che non finisce (che la fase del
        post-fordismo, anzi, produce più lavoro, in rapporto al prodotto interno lordo).
        Certamente il lavoro cambia: per effetto delle tecnologie e dei nuovi bisogni, in
        particolare di quelli legati ai servizi. Questo cambiamento porta con sé anche un modo
        nuovo di lavorare (meglio: modi nuovi di lavorare): e qui può inserirsi, anche nelle sue
        valenze positive, la questione della flessibilità. 
         
        Se, nei paesi sviluppati, la trasformazione del lavoro - basata su tecnologie avanzate,
        nuovi consumi e nuovi bisogni - presuppone altri saperi e maggiore duttilità
        (adattamento, mobilità, disponibilità al cambiamento), allora va posto, tra le
        priorità, il problema del rapporto tra libertà e autonomia. Se l'autonomia, come
        sappiamo, è la condizione per farsene qualcosa della libertà, la garanzia dei diritti
        individuali all'interno del mercato del lavoro, anche per affrontare i costanti mutamenti
        che l'attraversano, è un requisito fondamentale.  
         
        Ma questo discorso - qui riferito, come si diceva, ai paesi sviluppati - assume un rilievo
        ancora maggiore, e una maggiore complessità, se considerato nella sua dimensione
        planetaria. A quel livello - oggi ineludibile - lo scontro vero è tra chi vuole
        globalizzare, riducendo i diritti a un minimo comune denominatore (peggiorando, quindi,
        gli standard nelle società democratiche) e chi vuole globalizzare, estendendo quei
        diritti oltre i confini e le compatibilità, i vincoli dei mercati e i meccanismi degli
        scambi ineguali. 
         
        E, allora, cos'è stata veramente Seattle? 
         
        In una scena di "Butch Cassidy", dopo la rapina al treno, lo sceriffo cerca di
        convincere i concittadini ad accompagnarlo nellinseguimento dei banditi. I passanti,
        tra lincuriosito e lannoiato, si radunano fino a formare una piccola folla. A
        quel punto, arriva un tale che vende biciclette e si mette a decantarne le qualità, dopo
        aver scostato lo sceriffo: «lei ha fatto la sua parte, ha raccolto gente, ora tocca a
        me». 
         
        Ecco: questa è lefficacia (e queste le modalità possibili) della politica
        nellepoca della globalizzazione. Scostare dalla scena i poteri forti, che, soli,
        possono determinare gli eventi e sottoporli allo sguardo del mondo; incunearsi nelle
        contraddizioni economiche complessive e nelle loro articolazioni locali; introdursi negli
        spazi giuridico-formali, con intelligenza e mezzi di "guerriglia"
        (tematico-comunicativa) e, naturalmente, con buone e "oggettive" ragioni: cioè
        sapendo e facendo sapere di aver ragione. Perché se il "prodotto" non vale, non
        cè "pubblicità" che tenga. E, viceversa, se non cè forza
        comunicativa, anche il miglior "prodotto" non può affermarsi e convincere. (Sia
        chiaro: è mille volte più importante la prima affermazione rispetto alla seconda). 
         
        Detto ciò, resta ancora interamente inevasa la domanda: oggi, cosa aggrega,
        transitoriamente, i movimenti; cosa determina, o contribuisce a determinare, le condizioni
        per lazione collettiva? 
         
        L'errore più grave che si potrebbe fare dopo Seattle (e che molti sembrano propensi a
        fare) è immaginare la rinascita di un movimento omogeneo, riproducibile e stabilizzabile,
        in quanto a ragione sociale, interessi, finalità e linguaggi. Il modello-movimento
        operaio (strutturato per rappresentare interessi, che si assumono come stabili e dotati di
        un base produttiva e sociale definita) non funziona più né può essere risuscitato. Né
        esiste soggetto o classe generale, titolare di interessi generali. Gli interessi che ci
        riguardano non sono solo differenziati: sono spesso confliggenti gli uni con gli altri. Da
        qui bisogna partire, perché ne deriva la centralità e la mutevolezza delle alleanze (se
        tali possono essere definiti le aggregazioni e i patti cui lavorare). 
         
        Se pensiamo che l'ecologia (ovvero una cultura e un punto di vista ecologici) possa
        rappresentare un approccio innovativo, adeguato e, tendenzialmente, complessivo a tali
        questioni, è proprio perché (e fintanto che) l'ecologia si autodefinisce e si autolimita
        come approccio. Il più lungimirante ed efficace, certo: e, tuttavia, una cultura e un
        punto di vista, non un sistema organico di idee e di valori; piuttosto, una generale
        funzione critica e una radicale pars denstruens, capace di affrontare nodi antichi e
        irrisolti: a cominciare, come suggerisce Stefano Rodotà, dalla questione proprietaria. 
         
        E, infatti, nessuno tra gli approcci culturali alla modernità poteva immaginare che la
        logica del possesso si trasferisse così rapidamente dal controllo sulle risorse della
        produzione materiale al controllo sulle risorse della natura e, infine, su quelle della
        genetica. E che tale logica si manifestasse, tuttavia, attraverso le procedure più
        classiche del diritto di proprietà (basti pensare alle controversie in materia di
        brevetti). E' l'ecologia (e, direi, solo l'ecologia) che permette di individuare le nuove
        aree di prerogative e di diritti (corposamente materiali) intaccate, se non erose, dalle
        nuove forme di sfruttamento proprietario. 
         
        Il mercato internazionale delle "quote di emissioni" (che consente ai paesi
        ricchi di acquistare maggiore "libertà di inquinamento" dai paesi poveri)
        evoca, non a caso, quella tendenza proprietaria (in qualche misura già post-fordista e,
        comunque, neo-capitalista) a "monetizzare la salute", che fu la posta in gioco
        di importantissimi conflitti nel corso degli anni '70. Conflitti intorno alla possibilità
        di sussumere dentro il concetto di forza lavoro, e di sua compravendita, altre componenti
        della persona del lavoratore (la salute, l'integrità, le aspettative di vita,
        l'equilibrio psico-fisico). Tale processo conosce un' ulteriore fase quando, con la
        generalizzazione della produzione di merci, all'interno della categoria di forze
        produttive - e dentro i percorsi della loro mondializzazione - vengono riassunti e
        calcolati, e resi merce, altri fattori. E già nei primi anni '40, Karl Polanyi osservava
        che, con la diffusione del modo di produzione capitalistico, la persona, il tempo e la
        natura stessa diventavano merci. E questa riduzione a merce riguarda fattori, in tutta
        evidenza, naturali e universalistici e - per definizione, direi - indisponibili.  
         
        Ecco il punto cruciale: i diritti di cui stiamo parlando sono finalizzati a tutelare beni
        non disponibili. E' questo che può attribuire una forza dirompente a un discorso, e a un
        conflitto, sui limiti dell'appropriazione: ovvero sulle categorie di beni le cui regole
        d'uso devono essere diverse da quelle della proprietà privata; e da quelle della
        proprietà di Stato. Da qui la definizione di "patrimonio comune dell'umanità"
        per beni che non possono essere oggetto di utilizzazione esclusiva né di negoziazione a
        contenuto economico. Proprio perché il "contenuto" dell'isola di Budelli o di
        un gene umano non è riducibile a valore di scambio. 
         
        E, allora, buttiamola in politica. 
         
        a. La "lezione di Seattle" è assai più complicata da decifrare e da utilizzare
        di quanto sembrasse a una prima lettura. 
         
        b. L'approccio offerto dall'ecologia consente, più di qualunque altro, di leggere la
        complessiva e articolata mappa delle diverse iniquità, ambientali e sociali, che si
        consumano sul pianeta.  
         
        c. L'ecologia come cultura e come strumento di interpretazione è più grande, assai più
        grande, dei Verdi. I Verdi ne hanno, per così dire, la gestione, ma non, certo,
        l'esclusiva proprietà. Ed è vano e, forse, perfino controproducente, ambire ad averne la
        rappresentatività generale. I Verdi devono mettersi a disposizione (e mettere l'ecologia
        a disposizione) di altri soggetti e di altri conflitti. L'errore più grave sarebbe voler
        stabilizzare e formalizzare (a livello mondiale, addirittura) la rappresentanza di
        interessi assai diversi, anziché giocare e giocarsi in singole battaglie con
        interlocutori, alleanze e avversari, a loro volta mutevoli. 
         
        d. Se l'ecologia è il discorso sui beni indisponibili - quelli relativi alle strutture
        fondative della persona umana e del mondo fisico - essa può rinnovare il senso profondo
        dell'antica questione proprietaria. Questo può consentire che, a determinate condizioni,
        conflitti ambientali e conflitti sociali tendano a coincidere. 
         
        e. La problematica dei diritti ne può risultare radicalmente modificata. Non più un
        catalogo di diritti che si allarga periodicamente, addizionando nuove prerogative e nuove
        titolarità a quelle antiche. E non più, dunque, un diritto all'ambiente che va ad
        aggiungersi a quello alla salute, a quello al lavoro, e così via, a ritroso nel tempo e
        nel progresso sociale. Bensì, i diritti come fondamento costitutivo e ineludibile della
        sovranità.  
         
        Appendice. Nota 1. In Italia parlare di (e lavorare per) una terza sinistra è
        ancora più importante e urgente. Qui domina, infatti, una teoria delle "due
        sinistre", costruita su un falso storico. Ovvero sull'ipotesi che sia esistita, dagli
        anni '60 alla fine degli anni '80, una sola sinistra, pressochè interamente rappresentata
        dal PCI; che questa sinistra si sia separata dopo il 1989; e che si riproponga, oggi,
        nella sua netta duplicità: come partito dei Democratici di sinistra e come partito della
        Rifondazione comunista. 
        Anche chi non condivide la prima parte di questa improbabile ricostruzione della vicenda
        storica (una sola sinistra tra gli anni '60 e la fine degli anni'80), è incline ad
        accettarne la drastica semplificazione successiva: oggi, a competere, sarebbero due
        sinistre. L'una "antagonista" e l'altra "moderata" (definizioni di
        Fausto Bertinotti, ovviamente) ; oppure l'una "anti-sistema " e l'altra
        "europea" (definizioni di Walter Veltroni, ovviamente ). 
        Ma quella lotta per l'egemonia ha senso in quanto entrambi i competitori coltivano un'idea
        (tendenzialmente) totalizzante della rappresentanza politica a sinistra, dove lo spazio
        lasciato libero dall'uno - come in un gioco a somma zero - viene occupato dall'altro. E
        ciò proprio perché lo spazio della sinistra sarebbe - nell'interpretazione che qui
        contestiamo - uno e prevedibile, sostanzialmente immobile e immutabile, ripartito tra la
        sinistra "antagonista" ("antisistema", secondo i detrattori) e la
        sinistra "europea" ("moderata", secondo i detrattori). Col che si
        producono due effetti, entrambi negativi: intanto si cancellano o si trascurano esperienze
        e culture, non assimilate e non assimilabili ai Ds e al Prc. In sintesi: esperienze e
        culture ambientaliste e radicali, antiproibizioniste e garantiste, libertarie e
        antistataliste, sindacaliste e pacifiste. Esperienze e culture sempre presenti nella
        storia italiana di questo dopoguerra e che hanno svolto il ruolo, preziosissimo, delle
        minoranze critiche. A limitarne l'attività e a mortificarne la vitalità è stato il peso
        preponderante del Partito comunista italiano, costretto a essere (da cause che qui non
        possiamo esporre) "stalinista" e "conservatore", insieme, verso le
        minoranze critiche e radicali. Ora, a svolgere lo stesso ruolo, riducente e omologante,
        sono le formazioni politiche derivate da quello stesso partito. Nel caso dei Ds, la
        "volontà omologante" ha assunto anche una forma organizzativa (la Cosa 2); nel
        caso del Prc, la "volontà omologante" si manifesta, in primo luogo, come
        presunzione di totalità nei confronti del "pensiero critico". Nell'un caso come
        nell'altro, emerge insofferenza verso le minoranze; nell'un caso come nell'altro, la
        premessa per non agevolare quella "volontà omologante" è il rifiuto di teorie
        infondate e puerili, come quella delle "due sinistre". Le sinistre sono molte e
        differenti, organizzate e non; e tali, fortunatamente, sono destinate a rimanere. 
         
         
         
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