Con gli occhi rivolti a Seattle   
         
        Antonio Carioti 
         
        
         
         
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        questa la strada giusta?  
         
         
        La storia della politica novecentesca, italiana ma non solo, ha
        conosciuto spesso rivendicazioni di "terzietà". Quante volte avete sentito
        parlare di "terza via" tra capitalismo e socialismo? Oppure di "terza
        forza" tra Dc e Pci? Adesso è la volta della "terza sinistra", di cui
        alcuni esponenti verdi definiscono le coordinate nel documento pubblicato su questo numero
        di "Caffè Europa". 
         
        Il loro intento è contrastare la teoria cosiddetta delle "due sinistre", che
        tende a riproporre la vecchia divisione tra riformisti e massimalisti. Questo schema
        individua nello schieramento progressista una frattura fondamentale tra due forze in
        competizione tra loro. Da una parte coloro che accettano il capitalismo come garanzia di
        efficienza e libertà, pur preoccupandosi di attenuarne le asprezze per salvaguardare la
        coesione sociale. Dall'altra gli antagonisti, ribelli allo spirito dei tempi e convinti
        della necessità di opporsi al dilagare del mercato globale. 
         
          
         
        Secondo Luigi Manconi e gli altri firmatari del documento, si tratta di una falsa
        alternativa, poiché entrambe le "due sinistre" restano legate, su posizioni
        diverse, a una concezione antica e obsoleta, che vede nello Stato la sede principale della
        politica. Per cambiare davvero, a loro avviso, occorre dunque far sorgere una "terza
        sinistra", più attenta da una parte ai diritti individuali, dall'altra alle sfide di
        portata planetaria, con particolare riferimento alla questione ambientale. 
         
        Insomma, non possono più essere lo Stato nazione e il criterio di cittadinanza gli ambiti
        in cui far valere le istanze di eguaglianza. Serve una forte apertura universalistica, che
        valorizzi le differenze etniche, culturali, religiose, sessuali. E bisogna nel contempo
        definire una scala di priorità per la salvaguardia di beni non passibili di
        appropriazione privatistica, come la salute, l'informazione, l'atmosfera, la
        biodiversità, il patrimonio genetico umano. 
         
        Gli stessi confini fra Stato e mercato, fra centro e periferia, tra istituzioni e società
        civile, sostengono gli autori del documento, vanno completamente ripensati, abbandonando
        le impostazioni statalistiche del passato. 
          
        Ciò significa anche porre il problema di una limitazione consapevole
        dei consumi e di una ridefinizione degli strumenti di protezione sociale, che comporti
        "la riduzione al minimo indispensabile della tutela pubblica per i bisogni
        primari" dal punto di vista quantitativo, ma al tempo stesso ne preveda l'estensione
        qualitativa fino a rivendicare, nel caso dell'assistenza sanitaria, il diritto a scegliere
        "le cure e le medicine non convenzionali". 
         
        Molti altri sono i punti toccati nel documento. Si parla del superamento di un sistema
        dell'istruzione basato sul monopolio della scuola di Stato. Si afferma la necessità di
        privilegiare i diritti individuali rispetto a quelli sociali anche nel campo del lavoro.
        Viene sottolineata l'importanza cruciale delle variabili demografiche, su scala nazionale
        e ancor più a livello mondiale.  
         
        Sullo sfondo di tutto il discorso c'è la protesta di Seattle, che non viene mitizzata
        come atto di nascita di un nuovo movimento globale, in grado di contrapporsi ai poteri
        forti dell'economia e della politica, ma interpretata come la dimostrazione che, su temi
        d'interesse universale, è possibile ingaggiare singole battaglie di emancipazione e di
        resistenza alla logica cieca del profitto. La sfida è coordinarle, consolidarle,
        trasformarle in capitoli di un programma di governo. 
         
        Possono sembrare astrazioni accademiche, per un centrosinistra ripiegato su se stesso,
        preoccupato soprattutto di trovare un candidato premier attraente per l'elettorato
        moderato. Ma se non riprende a discutere di idee e valori, ben difficilmente il fronte
        progressista potrà superare la sua evidente crisi d'identità. 
         
         
         
         
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