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Alle origini del crollo socialista


Federico Coen

 

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Non è facile pronunciarsi sinteticamente sul caso Craxi per chi come me ha dedicato al tema del craxismo, e in generale alla parabola discendente del socialismo italiano, due libri di recente pubblicazione.

Dovendo schematizzare, la prima cosa che va sottolineata, andando contro corrente rispetto alle polemiche strumentali e al pettegolezzo televisivo, è che il caso Craxi non può ridursi a un infortunio giudiziario, né più in generale alla vicenda di Tangentopoli. Questa interpretazione riduttiva porta a confondere le conseguenze con le cause e rischia di far torto alla memoria di un personaggio che, piaccia o no, è stato per l5 anni al centro della politica italiana e merita di essere giudicato in base al disegno politico da lui perseguito.

La mia valutazione, basata anche sull'esperienza personale vissuta in quegli anni, è che, pur prendendo le mosse da un'intuizione politica valida e innovativa, la politica attuata da Craxi era destinata inevitabilmente a un doppio fallimento, tanto a livello di partito quanto a livello politico generale.

L'intuizione giusta stava in primo luogo nella ferma volontà di reinserire il PSI a pieno titolo nella grande famiglia dell'Internazionale socialista, liberandolo dai vizi sempre risorgenti del massimalismo e. del frontismo. Operazione condotta in sintonia con la parte più viva dell'intellighenzia socialista , quella che aveva fatto le sue prove prima nell'esperienza della programmazione economica e poi nelle battaglie culturali gestite dal mensile Mondoperaio. Il prezzo pagato per questa operazione è stato però molto elevato ed è consistito nella manomissione della democrazia interna del partito, sottoposto sempre più al potere personale del leader, con l'azzeramento della critica costruttiva e - cosa ancor più grave - con l'affievolimento della sua presenza nel mondo del lavoro.

Sul piano politico generale, l'intuizione giusta di Craxi stava nell'opposizione netta ed esplicita al disegno regressivo del PCI berlingueriano che va sotto il nome di compromesso storico, inteso a legittimare i comunisti italiani come forza di governo senza pagare il prezzo di un'esplicita rottura con le politiche dell'Unione Sovietica. La maggioranza di allora della DC era disposta ad assecondare fino a un certo punto questo disegno, per ragioni che non è qui possibile approfondire, ma alle quali non era certo estranea l'abitudine ad esercitare il potere non tanto attraverso lo strumento parlamentare quanto mediante l'uso improprio delle partecipazioni statali e attraverso il saccheggio clientelare della finanza pubblica.

Rispetto a questo compromesso strisciante Craxi si mise di traverso, sia nella chiave della politica istituzionale (con l'enunciazione della cosiddetta "grande riforma dello stato" che doveva assicurare a una maggioranza parlamentare, ed eventualmente presidenziale, una stabilità e continuità di governo non soggetta alle estenuanti e paralizzanti trattative con l'opposizione conseguenti al sistema proporzionale e al cosiddetto bicameralismo perfetto), sia nella chiave della politica estera, puntando su una presenza più attiva e visibile dell'Italia in campo internazionale quale né la DC né tanto meno il PCI erano stati capaci di assicurare.

Il momento della verità, tanto sull'uno che sull'altro versante, coincise naturalmente con l'assunzione da parte di Craxi della direzione del governo nel 1983. Ma, mentre in politica estera l'attivismo craxiano mantenne una sua sostanziale coerenza, soprattutto con l'appoggio all'installazione dei missili americani a Comiso, anche se non mancarono sortite demagogiche più o meno strumentali (come la bravata di Sigonella, conclusasi con la libertà concessa all'assassino di Klinghoffer, o, peggio ancora, con l'appoggio dato ai militari fascisti argentini nella guerra delle Falkland), nella politica istituzionale l'arretramento fu totale: la "grande riforma" dello stato fu riposta nel cassetto, nella convinzione che il modo di governare della DC di cui sopra si è detto fosse più congeniale alle sorti di un partito bisognoso di crescere da ogni costo qual era il PSI.

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Fu così che nel corso degli anni 80 la spinta innovativa con cui il craxismo sembrava destinato a portare aria nuova nella politica italiana cominciò ad esaurirsi: un partito azzerato o quasi nel suo rapporto con la società e sempre più assuefatto al modo di governare di cui la Democrazia cristiana era stata ed era tuttora maestra, non poteva sperare di realizzare quel riequilibrio del rapporto di forza tra socialisti e comunisti nell'area della sinistra da cui dipendeva il superamento dell'anomalia del sistema politico italiano rispetto all'Europa. I dibattiti che si tennero in quel periodo sulle colonne di Mondoperaio a proposito del rapporto squilibrato tra il potere e il consenso, e alle conseguenze devastanti di questo squilibrio sulla natura stessa del partito coglievano dunque nel segno, anche se qualcuno di noi fu tacciato di moralismo. Ma era ormai troppo tardi: la ricerca ossessiva del potere rimase fino alla fine la sola direttrice visibile della politica del PSI, un'ossessione che gli impedì oltre tutto di prendere atto che il mondo stava cambiando e che la guerra fredda era arrivata ad esaurimento.

A questo punto si pone la questione di fondo: in quale misura il duplice fallimento di cui si è detto fu dovuto alla debolezza del disegno politico craxiano, e in quale misura dipese dal carattere dell'uomo, dalle sue tendenze autoritarie e dalla sua inesausta sete di potere? La risposta non è facile, ma una luce in proposito può venire forse dall'esempio del socialismo francese: la rimonta del PSF mitterrandiano rispetto al PCF fu coronata dal successo, a partire da un rapporto di forze non molto dissimile da quello esistente nella sinistra italiana. La partita era dura in entrambi i casi, ma il socialismo francese seppe giocarla a un livello molto più alto, culturalmente e politicamente, rispetto al protagonismo craxiano che rimase sostanzialmente confinato al livello della politique politicienne.

Fin qui la valutazione politica del craxismo, della sua debolezza strategica. Resterebbe da dire della questione morale e della questione giudiziaria. Ricordo di avere scritto parecchi anni fa sull'Avanti! che, anche accettando la versione più rozza del machiavellismo secondo cui "il fine giustifica i mezzi", nella politica di Craxi si vedevano bensì i mezzi - la corsa al potere - ma non si distingueva più il fine. Non avevo tutti i torti, credo, e tuttavia una questione morale in senso proprio non poteva non nascere nei confronti di un partito i cui gruppi dirigenti, negli ultimi anni della prima Repubblica, erano divenuti ormai ai vari livelli i centri di distribuzione dei proventi della corruzione politica tra i partiti di governo, e non solo.. Chi poi, tra i socialisti, se ne appropriasse, e in quale misura, è difficile dire. Certo è che non esisteva più nel PSI nessun organo di garanzia in grado di seguire i percorsi dei flussi finanziari e i relativi punti d'arrivo. E inoltre, ciò che è più grave, quasi nessuna voce nel gruppo dirigente si levò allora a mettere in guardia il partito dal baratro verso cui si stava avviando.

Poche parole, infine, sulla questione giudiziaria. Si è parlato e si parla molto dell'accanimento della magistratura milanese contro i socialisti craxiani. Di questa polemica, non per caso, Berlusconi si fa scudo volentieri. Una cosa però si dimentica spesso di menzionare: il conflitto di Craxi con la magistratura è ben anteriore all'impresa di Mani Pulite. Risale al progetto che fu sostenuto a metà degli anni 80 da socialisti autorevoli per subordinare l'esercizio dell'azione penale all'intervento del Ministero della giustizia, e poi al referendum del 1987 per la responsabilità patrimoniale dei magistrati per gli errori giudiziari che fu promosso da Pannella e gioiosamente cavalcato da Craxi e dal suo partito. In pochi allora a sinistra ci opponemmo - tra gli altri Giolitti e Rodotà - a questa iperpoliticizzazione di un problema legale, e forse anche in questo caso non avevamo torto.

 

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