Non è facile pronunciarsi sinteticamente
sul caso Craxi per chi come me ha dedicato al tema del craxismo, e in generale alla
parabola discendente del socialismo italiano, due libri di recente pubblicazione.
Dovendo schematizzare, la prima cosa che va sottolineata, andando contro corrente
rispetto alle polemiche strumentali e al pettegolezzo televisivo, è che il caso Craxi non
può ridursi a un infortunio giudiziario, né più in generale alla vicenda di
Tangentopoli. Questa interpretazione riduttiva porta a confondere le conseguenze con le
cause e rischia di far torto alla memoria di un personaggio che, piaccia o no, è stato
per l5 anni al centro della politica italiana e merita di essere giudicato in base al
disegno politico da lui perseguito.
La mia valutazione, basata anche sull'esperienza personale vissuta in quegli anni, è
che, pur prendendo le mosse da un'intuizione politica valida e innovativa, la politica
attuata da Craxi era destinata inevitabilmente a un doppio fallimento, tanto a livello di
partito quanto a livello politico generale.
L'intuizione giusta stava in primo luogo nella ferma volontà di reinserire il PSI a
pieno titolo nella grande famiglia dell'Internazionale socialista, liberandolo dai vizi
sempre risorgenti del massimalismo e. del frontismo. Operazione condotta in sintonia con
la parte più viva dell'intellighenzia socialista , quella che aveva fatto le sue prove
prima nell'esperienza della programmazione economica e poi nelle battaglie culturali
gestite dal mensile Mondoperaio. Il prezzo pagato per questa operazione è stato però
molto elevato ed è consistito nella manomissione della democrazia interna del partito,
sottoposto sempre più al potere personale del leader, con l'azzeramento della critica
costruttiva e - cosa ancor più grave - con l'affievolimento della sua presenza nel mondo
del lavoro.
Sul piano politico generale, l'intuizione giusta di Craxi stava nell'opposizione netta
ed esplicita al disegno regressivo del PCI berlingueriano che va sotto il nome di
compromesso storico, inteso a legittimare i comunisti italiani come forza di governo senza
pagare il prezzo di un'esplicita rottura con le politiche dell'Unione Sovietica. La
maggioranza di allora della DC era disposta ad assecondare fino a un certo punto questo
disegno, per ragioni che non è qui possibile approfondire, ma alle quali non era certo
estranea l'abitudine ad esercitare il potere non tanto attraverso lo strumento
parlamentare quanto mediante l'uso improprio delle partecipazioni statali e attraverso il
saccheggio clientelare della finanza pubblica.
Rispetto a questo compromesso strisciante Craxi si mise di traverso, sia nella chiave
della politica istituzionale (con l'enunciazione della cosiddetta "grande riforma
dello stato" che doveva assicurare a una maggioranza parlamentare, ed eventualmente
presidenziale, una stabilità e continuità di governo non soggetta alle estenuanti e
paralizzanti trattative con l'opposizione conseguenti al sistema proporzionale e al
cosiddetto bicameralismo perfetto), sia nella chiave della politica estera, puntando su
una presenza più attiva e visibile dell'Italia in campo internazionale quale né la DC
né tanto meno il PCI erano stati capaci di assicurare.
Il momento della verità, tanto sull'uno che sull'altro versante, coincise naturalmente
con l'assunzione da parte di Craxi della direzione del governo nel 1983. Ma, mentre in
politica estera l'attivismo craxiano mantenne una sua sostanziale coerenza, soprattutto
con l'appoggio all'installazione dei missili americani a Comiso, anche se non mancarono
sortite demagogiche più o meno strumentali (come la bravata di Sigonella, conclusasi con
la libertà concessa all'assassino di Klinghoffer, o, peggio ancora, con l'appoggio dato
ai militari fascisti argentini nella guerra delle Falkland), nella politica istituzionale
l'arretramento fu totale: la "grande riforma" dello stato fu riposta nel
cassetto, nella convinzione che il modo di governare della DC di cui sopra si è detto
fosse più congeniale alle sorti di un partito bisognoso di crescere da ogni costo qual
era il PSI.

Fu così che nel corso degli anni 80 la spinta innovativa con cui il craxismo sembrava
destinato a portare aria nuova nella politica italiana cominciò ad esaurirsi: un partito
azzerato o quasi nel suo rapporto con la società e sempre più assuefatto al modo di
governare di cui la Democrazia cristiana era stata ed era tuttora maestra, non poteva
sperare di realizzare quel riequilibrio del rapporto di forza tra socialisti e comunisti
nell'area della sinistra da cui dipendeva il superamento dell'anomalia del sistema
politico italiano rispetto all'Europa. I dibattiti che si tennero in quel periodo sulle
colonne di Mondoperaio a proposito del rapporto squilibrato tra il potere e il consenso, e
alle conseguenze devastanti di questo squilibrio sulla natura stessa del partito
coglievano dunque nel segno, anche se qualcuno di noi fu tacciato di moralismo. Ma era
ormai troppo tardi: la ricerca ossessiva del potere rimase fino alla fine la sola
direttrice visibile della politica del PSI, un'ossessione che gli impedì oltre tutto di
prendere atto che il mondo stava cambiando e che la guerra fredda era arrivata ad
esaurimento.
A questo punto si pone la questione di fondo: in quale misura il duplice fallimento di
cui si è detto fu dovuto alla debolezza del disegno politico craxiano, e in quale misura
dipese dal carattere dell'uomo, dalle sue tendenze autoritarie e dalla sua inesausta sete
di potere? La risposta non è facile, ma una luce in proposito può venire forse
dall'esempio del socialismo francese: la rimonta del PSF mitterrandiano rispetto al PCF fu
coronata dal successo, a partire da un rapporto di forze non molto dissimile da quello
esistente nella sinistra italiana. La partita era dura in entrambi i casi, ma il
socialismo francese seppe giocarla a un livello molto più alto, culturalmente e
politicamente, rispetto al protagonismo craxiano che rimase sostanzialmente confinato al
livello della politique politicienne.
Fin qui la valutazione politica del craxismo, della sua debolezza strategica.
Resterebbe da dire della questione morale e della questione giudiziaria. Ricordo di avere
scritto parecchi anni fa sull'Avanti! che, anche accettando la versione più rozza del
machiavellismo secondo cui "il fine giustifica i mezzi", nella politica di Craxi
si vedevano bensì i mezzi - la corsa al potere - ma non si distingueva più il fine. Non
avevo tutti i torti, credo, e tuttavia una questione morale in senso proprio non poteva
non nascere nei confronti di un partito i cui gruppi dirigenti, negli ultimi anni della
prima Repubblica, erano divenuti ormai ai vari livelli i centri di distribuzione dei
proventi della corruzione politica tra i partiti di governo, e non solo.. Chi poi, tra i
socialisti, se ne appropriasse, e in quale misura, è difficile dire. Certo è che non
esisteva più nel PSI nessun organo di garanzia in grado di seguire i percorsi dei flussi
finanziari e i relativi punti d'arrivo. E inoltre, ciò che è più grave, quasi nessuna
voce nel gruppo dirigente si levò allora a mettere in guardia il partito dal baratro
verso cui si stava avviando.
Poche parole, infine, sulla questione giudiziaria. Si è parlato e si parla molto
dell'accanimento della magistratura milanese contro i socialisti craxiani. Di questa
polemica, non per caso, Berlusconi si fa scudo volentieri. Una cosa però si dimentica
spesso di menzionare: il conflitto di Craxi con la magistratura è ben anteriore
all'impresa di Mani Pulite. Risale al progetto che fu sostenuto a metà degli anni 80 da
socialisti autorevoli per subordinare l'esercizio dell'azione penale all'intervento del
Ministero della giustizia, e poi al referendum del 1987 per la responsabilità
patrimoniale dei magistrati per gli errori giudiziari che fu promosso da Pannella e
gioiosamente cavalcato da Craxi e dal suo partito. In pochi allora a sinistra ci opponemmo
- tra gli altri Giolitti e Rodotà - a questa iperpoliticizzazione di un problema legale,
e forse anche in questo caso non avevamo torto.