Questo articolo è
apparso su la Repubblica (www.repubblica.it) del 2
gennaio
Diciamo la verità, ciò che è accaduto nella notte di Capodanno
è come una rivelazione. Chi ha voce, microfoni, strumenti di indagini, vede tensioni,
inquietudine, rischi per il mondo. Inaspettatamente, allo scadere del secolo, decine di
milioni di persone, dalla Nuova Zelanda a New York, da Londra a Roma, con immensa fiducia
si sono presentate in piazza a far festa per il millennio.
Dunque le mappe disegnate nella nostra parte del mondo, che indicano
percorsi di diffidenza, pozzi di solitudine, camminamenti di isolamento deliberato,
vissuti come denuncia e difesa e sfiducia, contengono un grave errore. Forse il vero
"bug" di questa svolta del tempo.
Non si tratta di un indice di felicità. Ma quando adulti e bambini
(per quel poco che ho visto personalmente, tanti grappoli di famiglie giovani, in ogni
folla) scendono insieme in strada, diventano parte di una fiumana di gente che sta
volentieri insieme, e insieme fa festa, certamente vuol dire fiducia. Vuol dire non temere
il pericolo, non diffidare di chi amministra o governa (nel senso pratico, ma anche
fondamentale della parola). Vuol dire non trascinarsi addosso fantasmi di catastrofe, non
pensare male degli estranei, cercare i propri simili, sentire simili tutti gli altri e
trovarsi bene insieme, in tanti, in un luogo che è il luogo giusto perché ci sono anche
gli altri.
Che tutto ciò accada in un mondo in cui l'esperienza della violenza
non è ignota a nessuno, in cui le notizie non consentono di sognare, in cui la pioggia
continua di informazioni non liete stana ognuno di noi dal privato, dal "dentro"
che la sociologia ci descrive come estremo rifugio contemporaneo, è una sorpresa.
Diciamo pure che è una buona sorpresa. Induce a una diversa
descrizione del mondo, qui, ai nostri giorni. La folla del pianeta, allo scadere del
millennio, non ha avuto terrore, non ha cercato rifugio. Ha aperto le porte ed è scesa in
strada. Forse - sotto le frantumazioni della diffidenza e sfiducia che spacca le nostre
vite in tanti reticolati di rapporti rari e stretti, piccole famiglie e piccoli gruppi
comunicazione e di intesa più profondo e più vasto. Forse si è formato un senso comune
della vita meno aspro e selvaggio e in guardia di quello descritto dalle scienze sociali.
Deve essere un modo di interpretare gli eventi in cui un accumulo "buono", o
almeno non spaventoso, di dati e di fatti, incoraggia a pensare che una città è una
città, un paese è un paese, ovvero luoghi civili. Che i tratti comuni prevalgono sugli
istinti aggressivi, che il mondo non è una tagliola pronta a scattare appena metti il
piede fuori di casa.
Nessuno ha incoraggiato nessuno. E c'è stato di tutto, negli ultimi
mesi dell'ultimo secolo: la malaprofezia della storia, il richiamo di pericoli
apocalittici, la descrizione della catastrofe, la denuncia del terrorismo, un dettagliato
e martellante richiamo ai rischi della tecnologia. La folla che scende fiduciosa nelle
strade delle democrazie industriali (dove è più facile fare festa, ma che sono le più
vulnerabili) non ha esorcizzato nessuno di questi pericoli, né quelli che di tanto in
tanto risalgono dal nostro profondo, né quelli che notizie fresche e non buone ci portano
continuamente in casa.
La sorpresa non è tanto nello stato delle cose, che in sé non è
incoraggiante. La sorpresa è nella risposta, che è francamente una risposta serena e di
buonsenso. Mi fido di chi sorveglia la tecnologia. Mi fido di chi ha responsabilità della
sicurezza. Mi fido di chi, democraticamente, è incaricato di intervenire, se necessario.
Non è un elogio o un diploma. È un' importante notizia sullo stato mentale e morale dei
cittadini delle nostre democrazie.
Invece degli atomi spaventati descritti - più che mai in questa svolta
di millennio - da narrazioni e fantascienza, ma anche da ricerche sociali, inchieste,
indagini e catastrofiche dichiarazioni politiche, compaiono folle di individui abbastanza
sicuri di sé, dunque del mondo, che scorrono volentieri negli spazi disponibili, arrivano
alle feste a cui sono stati invitati, o che sono decisi, da soli, a parteciparvi. E
rispondono volentieri, con poca paura e poco disordine. Certamente ha un peso - almeno in
Europa, almeno in Italia - che la tanto discussa fine del secolo e fine del millennio sia
anche l'anno di un grande Giubileo religioso tenacemente annunciato. Ha il peso, o almeno
l'effetto, di una garanzia, un credito di pace che, di per sé, si trasforma in un invito
rasserenante.
Questo fatto ci ricorda che, nel sentire collettivo, i buoni segnali
non vanno mai perduti. E che essi vengono raccolti con la stessa predisposizione benevola
di chi li ha lanciati, anche al di fuori dei percorsi osservanti della fede. Anzi, è bene
ricordare che questo festoso stare insieme, per esempio a Roma, in piazze diverse come il
Quirinale, San Pietro, Piazza del Popolo, è più forte, più vasto, più umanamente
intenso quanto meno vistosi sono i segni di divisione, i paletti che pretendono di
suddividere i più e i meno buoni, nella vita, nelle famiglie, nello stare insieme
quotidiano.
Ma qualcosa è accaduto che dice qualcosa non solo a chi osserva. Dice
a chi ha responsabilità politica che il percorso su cui si avviano i cittadini delle
nostre moderne democrazie offre fiducia, dunque chiede fiducia. Vuol dire distanza da
ombre, drammi, catastrofismi, denunce apocalittiche, promesse impossibili e passi nel
vuoto della vecchia politica. Vuol dire capire e farsi capire non con monologhi ma con
dialoghi in cui si senta, chiara, anche la voce dei cittadini. Ci ricorda che, forse, le
folle tranquille e festose di Capodanno sono qualche passo più avanti di tanta politica
che ormai - è giusto dire - appartiene al secolo scorso.