Thomas Ostermeier è l'enfant terrible del
teatro tedesco. Questo ragazzone alto e biondo, classe '68, se non un bambino prodigio,
può sicuramente considerarsi notevolmente precoce dal punto di vista professionale in
quanto,nel 1996, subito dopo essersi diplomato alla Ernst Busch Theatre Academy, si è
fatto carico di dirigere la Barake con ambizioni artistiche personalissime che andavano
ben al di là del semplice recupero e reinterpretazione del vecchio repertorio tedesco.
Tra i suoi lavori infatti, oltre che classici come Bracht, il giovane e intraprendente
autore dà spazio soprattutto ad autori d'oltremanica, pressoché sconosciuti.
Il successo però arriva ugualmente in barba a un establishment che lo attacca da più
parti accusandolo di trascurare la presunta identità della drammaturgia tedesca. E lui
risponde impunemente: "Se c'è un testo inglese interessante lo facciamo. Non è
questione di che nazionalità sia l'autore". Gli autori tedeschi non debbono
preoccuparsi più di tanto, visto che tra i progetti in cantiere l'equipe di Ostermeier
pare stia visionando numerosi manoscritti nazionali. Dalla stagione teatrale 1999/2000
sarà proprio il giovane Thomas a dirigere artisticamente uno dei teatri più importanti
della capitale, la sala da 30 milioni di dollari che cominciò l'opera di rinnovamento
negli anni '70 con Peter Stein. Fu lui, anch'egli alla giovane età di 33 anni, a
combinare perfezione artistica e impegno politico, dando avvio a una stagione teatrale
ricca e innovativa che passò felicemente dalle mani di Luc Bondy, direttore del Festival
nazionale di Edimburgo, e poi a quelle altrettanto formidabili di Andrea Breth.

Si preannuncia dunque felice il futuro della Berlino teatrale del nuovo millennio,
quella Berlino di Max Reinhardt che divenne all'epoca il modello di tutti gli altri Teatri
del Reich. Ma a differenza di quella, oggi non si teme l'aderenza dell'esperienza teatrale
alla città quale accentratrice di un potere statale che finanziava il teatro in funzione
di un sistema ideologico chiuso. Oggi Ostermeier non si dirige verso i toni spettacolari e
altisonanti che costrinsero le avanguardie a prendere le distanze
dall'"inventore" della regia Reinhardt. Oggi la politica multiculturale e
sovrannazionale fa sperare in un ricambio continuo di idee e proposte tra teatri diversi,
con linguaggi nuovi sempre pronti a rinnovarsi. Sarà in grado il nostro eroe di
rispondere alle aspettative?
A proposito di eroi, dice Ostermeier: "L'eroe romantico fa la sua ultima comparsa
solo per andare incontro alla morte, alla liberazione e all'autodistruzione. Oppure - e
qui si radicalizza la più recente drammaturgia- l'eroe, il potenziale liberatore, non
compare nemmeno più. Non inizia nemmeno più ad esporre il suo conflitto, ha già deciso,
in fin di vita o morto. Gli altri restano indietro, aspettano, cercano di ricostruirlo, di
descriverlo, di immaginarlo. Nella sua assenza l'eroe ridiventa possibile, pensabile come
proiezione o come desiderio"
E ancora: "Il nucleo del realismo è la tragedia della vita normale. Il teatro non
può ignorare la realtà dell'accelerazione per adeguarsi all'accelerazione della nostra
capacità percettiva, esercitata col linguaggio del film e della televisione, il racconto
teatrale può e deve diventare più veloce e complesso. Il film, la televisione, i
videoclip offrono un modello da cui non si può prescindere.
"Il campo di battaglia agli inizi degli anni '90 è stato il corpo. Il phisis, non
la psiche: il sociale è stato il rapporto tra diverse esigenze corporee. Gli incontri si
sono risolti in uno scontro di carne e di corpi che gocavano con la propria vita. Anche se
il desiderio più grande dei corpi è quello di congiungersi con altri corpi attraverso la
conquista e la sottomissione. Il problema si aggrava se si tratta di vita o di morte, e da
quando c'è l'Aids questo è nuovamente un conflitto della normale vita quotidiana. Il
conflitto attorno al corpo finisce sempre per acuirsi in atti di violenza: la violenza è
il topos degli anni '90, che sia abuso, liberazione o giusta punizione. Qui si celebra il
bello del brutto, la violenza senza motivo che lascia le persone sconcertate, il suo
sublime ritorno al teatro. Gli anni '90 sono volgari anche e soprattutto sulla scena; la
volgarità è un fenomeno concomitante all'accelerazione, come è avvenuto l'ultima volta
nei primi anni '70".
Di fronte alla messa in scena italiana dell'ulimo spettacolo di Ostermeier, Shopping
& fucking, al Teatro India di Roma, sembrava davvero di essere tornati alle atmosfere
degli anni '60, in cui la sperimentazione teatrale, il mutamento del rapporto col pubblico
passava innanzi tutto dal mutamento dello spazio scenico. Il regista tedesco ha infatti
costruito la sua scenografia in un luogo visitabile da due possibili punti di vista che
coprivano per metà il perimetro del palcoscenico. Un corridoio rialzato conduceva gli
attori fuori dalla scena attraverso una quinta calpestata prima dagli stessi spettatori
nel momento di accomodarsi in sala. Scalinate gremite, quelle dell India lo scorso
ottobre, tanto che l'onnipresente Mario Martone, direttore del Teatro di Roma, ha
simpaticamente rivolto l'invito a "stringersi" in modo da entrarci tutti.
E' dunque pensabile anche in Italia un rinnovamento dell'esperienza teatrale, passando
attraverso la volontà e la forza creativa di giovani come Ostenmeier (e Martone) che
hanno fatto del teatro di ricerca una delle ragioni delle proprie scelte artistiche.
Esportare oggi queste ragioni nei luoghi istituzionali, da sempre, ma forse non per
sempre, destinati alla polvere, asfissiati dalla necessità di perpetrare tradizioni
svuotate di senso e pesanti da rimuovere, vuol dire rendere visibile il nuovo.

Shopping & Fucking denuncia il vuoto di idee e l'atteggiamento antipropositivo
dell'esistenza anche nel modo di raccontarli: il testo appare come un fluido, colorato,
dinamico vuoto drammaturgico. Non esistono più azioni necessarie, ogni gesto, ogni
dialogo sono immersi in una profonda gratuità, resa accettabile solo dalla visione, a
posteriori, dell'intero spettacolo. Ostermeier punta sul ritmo e sulla cromaticità,
ricorrendo a un realismo iperbolico nel quale spesso non riusciamo a scindere la
schizofrenia del ruolo da quella dell'attore che lo interpreta. Uno strano senso di
realtà permea ogni gesto convulso che scopriamo appartenere paradossalmente più che alla
realtà quotidianamente vissuta a quella quotidianamente fruita, ovvero rappresentata:
rappresentazione della rappresentazione.
Il linguaggio adottato da Ostermeier imita in forma del tutto accettabile, perché
comunque fortemente teatrale, un linguaggio altro: quello di cinema e televisione. Il
regista sfonda i limiti apparentemente imposti dall'unità di tempo e di luogo,
raccontando non proprio una vicenda, ma un'immagine di essa, anche attraverso la
simulazione di brani di concerti rock.
La nuova drammaturgia, che in questo caso si serve di attori davvero eccezionali,
ritorna attraverso un coinvolgimento di tipo stanislavskijano, al gioco dello
straniamento. Si direbbe l'unione dei contrari. Il passaggio critico e autocritico dalla
ricerca di tipologie metropolitane e degradate al loro ritratto caricaturale; ma il nostro
sguardo, a tratti, rimane contagiato dallo stesso senso di nullità che devasta i
personaggi. Il sarcasmo si fa a volte eccessivamente autocompiaciuto per garantire la
complicità di quegli spettatori di cui il regista dichiara di conoscere le necessità.
Quello che è innegabile è il sacrificio della psicologia del personaggio a favore
dell'esaltazione del corpo, della presenza fisica, fatta anche di odore e di sudore - un
effetto auspicato dallo stesso Ostermeier: corpo come protagonista dell'azione scenica,
nudo nella sua assoluta e immistificabile verità. Corpi al limite tra l'uso e l'abuso,
che riescono pure in condizioni limite, a mantenere la propria dignità estetica (se
esiste), riuscendo a non scadere mai, qualora ce ne sarebbe l'occasione, nell'osceno, nel
deforme, nel ridicolo.
Il vero eroe, il protagonista della storia è dunque fuori dal palcoscenico, dipinto
nella proiezione che di lui ne danno gli antieroi del testo. L'azione conserva una forte
dinamicità, attraverso un continuo spostamento drammaturgico: dalla periferia al centro
dell'Azione. Dal centro del Teatro alla periferia della metropoli.