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Verso un futuro intriso di memoria


Raffaele Oriani

 

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Il secolo chiude i battenti e la sua capitale cambia faccia. A Berlino come da nessun’altra parte è infatti andato in scena il dramma chiamato Novecento, e qui come da nessun’altra parte ci si prepara a cambiare copione, girare millennio e ripartire da zero. Brusco il congedo, lungo il preludio: poche ore per liberarsi del Muro, un decennio per allestire le nuove quinte metropolitane. E così la città ha attraversato gli anni novanta come una splendida terra di nessuno, dove i cantieri contavano più dei palazzi, i progetti di carta più dei volumi di cemento: anni di grandi lavori, prove generali che, come spesso accade, potrebbero anche rivelarsi più emozionanti della prima ufficiale. Cosa infatti potrà eguagliare le gru di Potsdamer Platz che in una sera d’estate ballano Beethoven vestite a festa da Gerhard Merz per la bacchetta di Daniel Barenboim? E cosa il magnetismo dell’Infobox, lo splendido prefabbricato rosso fuoco che in questi anni ha accolto sei milioni di visitatori, increduli testimoni di una cavalcata edilizia che ha trasformato un deserto nel cuore pulsante di uno dei cuori d’Europa? La cupola del Reichstag sembra atterrata apposta sui tetti di Berlino per sciogliere questi interrogativi: è lei la nuova star che salva il passato scaraventandolo nel futuro, il globo di luce che libera la capitale tedesca del peso della sua storia.

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Perché la storia cambia e Berlino la segue, l’anticipa, la provoca: negli anni venti è l’epicentro dell’avanguardia che vuole mettere il mondo a testa in giù, negli anni trenta il lugubre fulcro del ritorno all’ordine, nel dopoguerra il piano di frizione tra i due blocchi in cui è diviso il mondo. Poi crolla il Muro, si rimescolano le carte, la metamorfosi che ha dominato per decenni le notti della città può finalmente imporre la sua legge alla luce del giorno: si cambia, si demolisce, si ricostruisce. E’ finita la storia, viva la storia!

Per quasi un decennio Berlino è stata il paradiso degli architetti, ora è pronta per diventare la meta più ambita di chi ama l’architettura, le sue forme, i suoi azzardi, le sue paure. Ma se gli architetti ne sono stati i protagonisti assoluti, al grande cantiere degli anni novanta non è mai mancata la regia di un’amministrazione fin troppo attenta a non trasformare Berlino in una città-grandi firme, in un parco giochi dello star system internazionale. Spesso quindi i grandi maestri hanno dovuto chinare il capo di fronte a direttive puntigliose che imponevano altezza, materiali, volumi delle costruzioni: c’è chi l’ha fatto di buon grado, chi controvoglia, chi è riuscito comunque a trasformare i pochi spazi di libertà in isole di sfrenata anarchia creativa. E’ il caso ad esempio della sede della DG Bank in Pariser Platz, accanto alla Porta di Brandeburgo: più che di Frank O. Gehry sembrerebbe opera di Frank Dov’eri?, se non fosse che l’insipida facciata nasconde all’interno un enorme guanto di zinco, una testa di cavallo, una presenza biomorfa che sembra una scultura di Jean Arp e invece non è altro che una sala riunioni.

L’estroso autore del Guggenheim di Bilbao non poteva ovviamente che reagire così, ma altrove attori e regia sono riusciti a trovare un terreno di incontro e a dar vita a rappresentazioni più equilibrate. La migliore va in scena a Potsdamer Platz, che se fosse un film sarebbe un kolossal, ed essendo un’area urbana, dopo sessant’anni vuole tornare ad essere "il posto più frequentato d’Europa". Qui Berlino per un secolo ha dato il meglio e il peggio di sé: fino alla guerra è questa infatti la piazza per eccellenza, col Grand Hotel Esplanade, l’emporio Wertheim, più di venti linee tranviarie che si incrociano l’una nell’altra. Dopo la guerra il confine, il Muro, il vuoto di sterpi al centro della metropoli. Ora la mano di Renzo Piano ha ridisegnato un’area di 68.000 metri quadri destinandola a uffici, abitazioni, cinema, un albergo, un teatro e un ampio passage commerciale. A far da guardia al tutto le due torri di Renzo Piano e Hans Kollhoff, la prima in vetro e terracotta, attenta a integrarsi al disegno d’assieme, la seconda più robusta, di clinker e granito, quasi un omaggio alla prima generazione di grattacieli nella Chicago di inizio secolo.

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Oltrepassate le ante sontuose di questo immaginario, smisurato portale, si percorre la Alte Potsdamer Strasse, un viale alberato che Piano ha strappato alla sua funzione residuale facendone l’esile ma solido asse del suo progetto urbanistico. Dai grattacieli d’ingresso si scende allora ai 28 metri di gronda prescritti per tutto il complesso: da una parte è sempre Piano a proporre una serie di palazzi in calde tinte pastello, dall’altra sono Lauber & Wöhr a presentare il Cinemaxx con le diciannove sale che si candidano ad ospitare la Berlinale del nuovo millennio. Il Grand Hotel Hyatt di Rafael Moneo introduce quindi in Marlene Dietrich Platz, dove Piano si è ricordato del catino di fronte al suo Beaubourg e ha creato una leggera pendenza che spezza le rette verticali e orizzontali ed esalta i foyer trasparenti del teatro e del casinò. Qui finisce o rinizia il tour di Potsdamer Platz: si può infatti continuare lungo il palazzo dei padroni di casa, la Debis-Daimler Chrysler di Stoccarda, o si può imboccare la fessura che apre al Kuturforum e agli splendidi, scintillanti contenitori che Hans Scharoun negli anni sessanta progettò per la Staatsbibliothek e la Philarmonie.

Armonia quindi in Potsdamer Platz: forme piene, tinte calde, strade alberate, un mix funzionale attento ai tempi del lavoro, a quelli della vita e alla loro inevitabile, crescente integrazione. L’unica nota Hi-Tech sono le tre palazzine di Sir Richard Rogers, destrutturatore non pentito che, pur costretto a rispettare il perimetro dell’isolato, non rinuncia alla propria irrequietezza compositiva: la trasparenza riversa allora l’interno all’esterno, in facciata pieni e vuoti si scontrano lungo un rapido crescendo a gradoni, vetro ed acciaio alludono a visioni mai sopite di mondi a venire. E proprio il vetro e l’acciaio sono i protagonisti assoluti dell’altro complesso di Potsdamer Platz: i 26.000 metri quadri che la Sony ha affidato alle cure dell’architetto tedesco-statunitense Helmut Jahn. Anche il "Barone dell’Hi-Tech", il "Flash Gordon dell’architettura", che nell’86 stupì il mondo con il progetto (rimasto tale) per i 509 metri della Trump-Tower di New York, a Berlino è dovuto scendere a più miti consigli: ha quindi realizzato cento metri di grattacielo elegantemente bombato, un triangolo di palazzi sullo stesso tema in vetro ed acciaio, quattromila metri quadri di Forum coperto che rappresentano la vera scommessa del progetto. Il tutto da inaugurare tra la fine di questo e l’inizio del prossimo anno.

A poche centinaia di metri da Potsdamer Platz, Berlino inciampa invece nella sua storia e conosce la fatica della metamorfosi da città di frontiera ("una volta al giorno a Londra, una volta alla settimana a New York/This is what I like about Berlin", scriveva negli anni settanta Uwe Johnson) a capitale di uno Stato che per progettare il futuro è chiamato a non dimenticare il passato. Non è lontana infatti la cosiddetta Tophographie des Terrors, il luogo dove sorgevano le sedi delle SS e della Gestapo e dove ora sta sorgendo il centro di documentazione storica dell’architetto svizzero Peter Zumthor: un parallelepipedo di estrema concisione espressiva in cui si alternano steli di cemento e intercapedini in vetro. Steli e ancora steli, di cemento e solo di cemento, popoleranno invece l’area alle spalle della Porta di Brandeburgo dedicata al Monumento allo sterminio degli ebrei d’Europa. Dopo dieci anni di polemiche, decisioni, pentimenti e rinvii, il Parlamento tedesco ha infatti definitivamente optato per il progetto dell’architetto newyorchese Peter Eisenmann: una selva di pietra in cui perdere il senso dell’orientamento e acquisire la percezione della tragedia. Quella stessa percezione che è chiara, luminosa, di lacerante evidenza nel lampo di zinco e cemento che Daniel Libeskind ha progettato per il nuovo Museo ebraico di Lindenstrasse. Libeskind era qui alla sua prima prova progettuale, dopo una vita passata a scrivere, teorizzare, disegnare, e dopo aver partecipato nel 1988 a "Deconstructivist Architecture", mostra epocale allestita al Moma dal grande vecchio Philip Johnson. Ma dalla penna al mattone evidentemente il passo non è troppo lungo, visto che Libeskind è rimasto quello che era: un decostruttivista che a Berlino sovverte tutte le buone norme della "ricostruzione critica" e irrompe con un edificio che è scultura, gesto, grido o silenzio assordante.

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Il futuro di Berlino è intriso di memoria, la città cambia ma sa che il cambiamento è da sempre la cifra della sua identità. Così in Potsdamer Platz e così al Reichstag, che Sir Norman Foster ha trasformato da cupa massicciata di pietra in aerea quinta della democrazia rappresentativa. Qui tutto si svolge sotto gli occhi di tutti e a dividere politica e cittadinanza è all’interno un’esile parete di vetro, all’esterno una cupola trasparente su cui gli angeli di Wenders, se mai tornassero a volteggiare nel cielo sopra Berlino, non potrebbero non andare a posarsi: è questo infatti il nuovo marchio di fabbrica della capitale tedesca, il segno che ha rubato la scena alla quadriga della Porta di Brandeburgo e alla Vittoria alata della Siegessaeule. Ed è questo il segno attorno a cui va crescendo la cittadella della politica: molto vetro, grande trasparenza, ossessione democratica che entro il 2000 si farà stile architettonico per mano dei tedeschi Axel Schultes (Palazzo della cancelleria federale) e Stephan Braunfels (Uffici parlamentari in Paul-Lobe Haus e Marie Elisabeth Lueders Haus).

Così Berlino ricuce un tessuto per decenni lacerato dal confine e dal Muro, che qui correva a pochi metri dal Reichstag, scendeva alla Porta di Brandeburgo, attraversava Potsdamerplatz, per puntare poi decisamente a est verso Friedrichstrasse e il Checkpoint-Charlie. E proprio Friedrichstrasse, la lunghissima arteria che da Kreuzberg risale fino al cuore di Mitte, è un altro snodo fondamentale della "ricostruzione" berlinese. Snodo di lusso, terra di boutiques, di marmo lucido e preziose variazioni sul tema: da Philip Johnson a Jean Nouvel, da Oswald Ungers a Josef Kleihues tante sono infatti le star ma una sola è la strada, perché qui i solisti sono tenuti a cantare in coro, l’armonia ha la meglio sull’estro, la città vince sul singolo edificio. Eppure dalla selva di vincoli non è stata bandita la grande architettura: quella di Jean Nouvel, ad esempio, che per Friedrichstrasse ha progettato la sede berlinese delle Galeries Lafayette, il palazzone di vetro che all’angolo con Französische Strasse ogni sera si disfa in un gioco di luci che invitano a salire sulla giostra del consumo, ad approfittare della moda e della gastronomia francese, ad affacciarsi sul gigantesco imbuto di vetro che all’interno confonde prodotti e clienti, marchi e persone cui l’architettura dona un’aura sontuosa. La luce è forma anche nel Quartier 206 dell’americano Henry Cobb, che si è adeguato all’imperativo della facciata "a tutto volume" ravvivandolo però con un movimento a rientranze e sporgenze di vaga ascendenza art-déco. Più sobrio invece il Quartier 205 di Oswald Mathias Ungers, il "guru del quadrato" che insegue la bellezza platonica dell’armonia matematica e progetta palazzi di semplicità disarmante e avvolgente, enigmatico fascino. Per il suo Mall su Friedrichstrasse c’è chi ha parlato di architettura che nega se stessa, di una costruzione che, come un cubo di Rubrick, sfida l’intelligenza più del gusto, sollecita una soluzione più che un giudizio. Un enigma, insomma, che non contribuiscono a sciogliere le sculture di Joel Shapiro alle due entrate del palazzo, né gli interni impeccabili che ospitano l’imponente totem di latta di John Chamberlain.

Dallo Spreebogen (l’ansa col Reichstag) a Pariser Platz, da Potsdamerplatz a Friedrichstrasse, dove correva il Muro corre oggi il filo rosso della nuova Berlino. Merito di questi anni novanta: dieci anni di gru per un futuro da capitale d’Europa, dieci anni di cemento e polemiche per un’incredibile palestra di estro e giudizio. Dieci anni alla grande, insomma: eppure Berlino continuerà a essere l’unica, vera metropoli tedesca solo se saprà dimenticare ogni cosa, aggredire la patina, cancellare le firme, lasciare ai turisti il gioco delle attribuzioni di palazzi e restauri e tenere fede alla sua vita che è senza nome, nasce e muore quindici volte al giorno e cento volte a notte, confonde generi, lingue, identità e professioni. L’architettura è una gran bella cosa, ma la vita, si sa, non cessa di essere altrove.

Berlino in Rete:

http://www.berlin.de
portale berlinese, in tedesco e in inglese

http://www.wild-site.de/berlin/
il meglio della Berlino by night, ce n'e' per tutti i gusti

http://userpage.chemie.fu-berlin.de/BIW/
d_berlin-info.html

lunga lista di link berlinesi, divisa per argomenti, in tedesco

http://www.uinic.de/berlin-mitte/de/index.html
uno splendido photo-essay che documenta i cambiamenti della citta', e' tutto in tedesco ma le immagini parlano da sole

 

 

 
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