Questa intervista è apparsa
sul numero 55 di Reset
La sceneggiatrice Laura Toscano e' responsabile, insieme al marito Franco Marotta, di
alcuni dei principali successi televisivi degli ultimi dieci anni: da Un cane sciolto a
Commesse, passando per Il Maresciallo Rocca, che con i suoi 16 milioni di spettatori
detiene il record assoluto di audience per un serial di fiction italiana. Tanti termini
anglosassoni per descrivere un fenomeno che invece trova le sue radici in alcuni
antesignani di casa nostra, dagli sceneggiati di Sandro Bolchi a quel cinema italiano
cosiddetto "medio", non in quanto mediocre, ma in quanto privo di pretese
autoriali.
Genovese di nascita, Toscano e' arrivata a Roma a 19 anni per intraprendere la carriera
di giornalista, e ha subito trovato lavoro come autrice di romanzi gialli, "perche'
cosi' mi e' capitato", racconta. "Io non ne avevo mai letto neanche uno, ma ne
avevo visti molti al cinema. E dato che vivevo a Roma, il percorso dalla scrittura per
l'editoria a quella per il grande schermo e' stato quasi obbligato."
La prima commedia cinematografica firmata dal duo Toscano-Marotta, nel frattempo
convolati a nozze, e' stata Aragosta a colazione, per la regia di quel Giorgio Capitani
con il quale i due sceneggiatori avrebbero in seguito formato il sodalizio televisivo che
ha firmato, fra gli altri, Il Maresciallo Rocca e Commesse. "Abbiamo scritto
moltissimi film per il grande schermo, poi, a meta' anni '80, il cinema e' finito in mano
alle cordate dei comici e ci siamo resi conto che non era piu' possibile costruire delle
storie, ma che ci venivano chiesti solo degli sketch. L'ultimo film che abbiamo
sceneggiato e' stato Pizza Connection di Damiano Damiani, poi siamo passati alla
televisione"
Qual e' il segreto di una buona sceneggiatura televisiva?
Personalmente non ho una ricetta. Io sono l'ombelico delle mie sceneggiature, davanti
alle quali mi pongo innanzituto come spettatrice: dunque scrivo le storie che mi
piacerebbe vedere al cinema o in televisione, e non faccio differenza fra scrivere per il
piccolo o per il grande schermo. La regola d'oro e' quella di mantenersi il piu' possibile
vicini alla realta', raccontando pezzi di vita che la gente in qualche modo riconosce,
personaggi che frequenta e sui quali non ha mai riflettuto. Questo fa in modo che il
pubblico si identifichi con quei personaggi e si appassioni alle loro vicende.
Un altro segreto e' quello di lavorare molto sulla dimensione psicologica dei
personaggi: io dei protagonisti delle mie storie so molte cose che poi nella sceneggiatura
non metto, ma che mi danno la sensazione di poterli far muovere e reagire in maniera piu'
diretta e convincente.
Quali sono gli elementi che non possono mancare in una sceneggiatura?
Un personaggio forte e un'ambientazione credibile. Certo, ogni genere ha delle regole
specifiche, degli stacchi di racconto diversi. Ma io non credo alle teorie americane
secondo le quali tutto e' costruito, bisogna prevedere il turning point in un dato
momento, e il secondo atto deve cominciare alla pagina X. Secondo me e' la storia che ti
conduce ad avere il turning point al momento giusto. E il dialogo e' portato dal
personaggio: io cerco solo di mantenere un livello naturalista.
Come nasce una storia per il piccolo schermo?
Normalmente la storia nasce proprio dal connubio di personaggio e ambientazione. Poi e'
il personaggio che conduce il narratore all'interno della vicenda. Certo, c'e' una
struttura interna di racconto, ma se il personaggio e' solido e ha delle solide radici e'
lui che porta lo sceneggiatore da A a B, e lo fa attraverso un percorso obbligato, proprio
perche' e' costruito in un certo modo e si muove all'interno di un certo contesto.
Puo' farci un esempio relativo ai suoi successi televisivi?
Il Maresciallo Rocca e' stato costruito come personaggio con elementi molto forti
attinenti alla sua figura. Ma se invece di vivere in provincia, a Viterbo, dove lo abbiamo
collocato, avesse vissuto in una metropoli, le sue storie sarebbero state diverse. E'
stata una scelta molto precisa, quella di raccontare la provincia italiana attraverso un
personaggio di un certo tipo, e di collocarlo all'interno di una piccola stazione dei
carabinieri. Non e' un caso che Rocca rimandi all'infinito l'esame che gli consentirebbe
il trasferimento presso una sede piu' prestigiosa.

Puo' descrivere i personaggi di Commesse attraverso una caratteristica saliente?
Marta e' l'indole materna, anche nei confronti del marito. Questo fa di lei una donna
antica, nel senso buono del termine, perche' le donne di oggi sono molto piu' conflittuali
con il proprio compagno. Roberta e' la donna della fase di passaggio della condizione
femminile, quella borderline: apparentemente forte e invece fragilissima. Fiorenza e'
l'insicurezza di tutte le donne, soprattutto riguardo al proprio aspetto: rappresenta il
tormento di non piacere, e l'attenzione della nostra societa' nei confronti
dell'apparenza, perche' mai come adesso le donne sono costrette alla perfezione, con dei
modelli assurdi che le schiavizzano e le rendono insicure. Paola infine rappresenta la
generazione giovane nella sua voglia di fare, di non arrendersi. Pur essendo quella che
subisce il dramma piu' forte, in quanto vittima di uno stupro, reagisce in modo positivo.
Diversamente sarebbe stato come punirla per la sua intraprendenza e il suo coraggio.
E' necessario inserire messaggi di questo tipo nel contesto di una fiction televisiva?
Piu' che messaggi veri e propri, noi cerchiamo sempre di inserire degli spunti di
riflessione, altrimenti non avrebbe senso fare il nostro lavoro. Ma non lo facciamo in
maniera pedagogica: non siamo dei messia o dei predicatori, anche perche' l'ottica
pedagogica e' la morte della fiction. Io detesto l'idea di lanciare un messaggio in
maniera chiara, non solo perche' il grande pubblico non e' in grado di raccogliere
messaggi troppo strillati, ma anche per una questione di stile personale. Piu' che il
messaggio, bisogna raccontare gli individui e il momento storico che stiamo attraversando:
noi raccontiamo dei personaggi e delle storie, se poi riusciamo a far "passare"
qualcosa, meglio e in genere, se i personaggi hanno spessore, i temi emergono.
Qualcuno pero' vi ha accusato di superficialita' proprio per il modo in cui trattate
certi argomenti.
Ma noi non andiamo in profondita' intenzionalmente, non vogliamo dare risposte ma porre
domande, non risolvere i problemi ma sottoporli all'attenzione del pubblico. Il nostro
dovere e' quello di togliere un velo sull'indifferenza, sulla disattenzione, il che puo'
dare poi lo spunto ad un ulteriore approfondimento. E ci preoccupiamo di costruire storie
che si prestino a una seconda, o a una terza lettura, indipendentemente dal fatto che poi
possono essere colte oppure no.
Lei parla di spesso della sceneggiatura in termini quasi edilizi, come di una
costruzione.
Ogni sceneggiatura e' una costruzione, e ogni storia ha un suo scheletro. Me ne sono
accorta in maniera tangibile quando ho sceneggiato una fiction con Nanni Loy tratta da un
romanzo di Fruttero e Lucentini, A che punto e' la notte. Il romanzo era molto bello ma
contava seicento pagine e decine di personaggi. Nel ridurlo per il grande schermo siamo
stati costretti a smontarlo, e smontando un testo cosi' perfettamente costruito abbiamo
scoperto lo scheletro della storia. E abbiamo anche scoperto che una storia molto
stratificata regge solo se lo scheletro e' solidissimo.
Se lo scheletro regge la costruzione, che cosa la fa volare?
La stratificazione, che e' quella poi che fa la differenza. Ciascuno di noi nota di un
certo evento un particolare diverso, e proprio in questo sta la creativita', nel vedere lo
stesso fatto in maniera individuale, filtrandolo attraverso le proprie esperienze, la
propria cultura, per poi ricostruirlo dandogli una particolare forza emotiva. Se la storia
di Giulietta e Romeo fosse stata scritta da Peretti Antonio probabilmente sarebbe
diventata un terribile fuiletton. Invece Shakespeare l'ha montata e costruita in maniera
tale da renderla un capolavoro che regge da centinaia di anni. La storia in se' e' antica,
una classica leggenda di amore e di morte, ma lui ha saputo reinterpretarla in modo
originale. La stratificazione e' importante proprio perche' noi non inventiamo quasi
nulla, e la costruzione da sola non basta. Scheletro e stratificazione devono armonizzarsi
l'uno con l'altra perche' il risultato sia un'opera riuscita.
Esiste la formula per raggiungere il successo televisivo?
Non ci sono regole ferree, nel senso che le regole si fanno sempre dopo che qualcosa ha
avuto successo. Nonostante le regole che ci diamo, o che si sembra ci diano sicurezza, il
nostro e' un mestiere senza certezze, costellato di incidenti di percorso, e questo e' la
sua forza e la sua dannazione. Ogni storia ha un suo percorso e sono tanti gli elementi
che concorrono al suo successo o meno.
Mio marito ed io abbiamo sceneggiato un film per la televisione secondo noi bellissimo,
La casa bruciata, con Giulio Scarpati nella parte di un missionario comboniano ucciso in
Amazzonia nel 1970. Una storia straordinaria, con tutti gli elementi perche' funzionasse,
e che invece ha ottenuto un ascolto molto mediocre. Forse l'uscita non era stata delle
piu' felici, forse il telefilm non era stato sufficientemente pubblicizzato, ma queste
sono le scuse che uno si da'. In realta' evidentemente c'era qualche cosa che non siamo
riusciti a far "passare".
Esiste un iter prestabilito per diventare sceneggiatori?
Io sono convinta che l'unica scuola possibile sia quella della bottega. Non credo che
si possa insegnare a scrivere: la tecnica della scrittura si esaurisce teorizzando in
dieci giorni. Quello che poi conta sono le astuzie del mestiere che si imparano proprio
sulla pagina scritta. Negli anni Ottanta e' scomparsa la bottega perche' si facevano meno
film, gli sceneggiatori importanti non avevano piu' bisogno di avere una serie di
apprendisti che si adattavano a lavorare all'ombra delle grandi firme pur di imparare il
mestiere. Cosi' si e' tolta la possibilita' di crescere ai giovani sceneggiatori.
Oggi firmano tutti, anche chi e' alle prime armi. Per carita', trovo giusto che chi
lavora debba apparire, pero' spesso e volentieri l'apporto di un giovane e' marginale
rispetto alla struttura del racconto e alla continuita' dello stile. Di conseguenza a mio
avviso sarebbe giusto pagare lo scotto di un periodo di anonimato per riuscire poi a venir
fuori con delle proprie idee, se uno ce le ha. Invece si sta creando una generazione di
sceneggiatori che per il fatto di firmare un'opera importante ha l'illusione di essere
subito in grado di volare con le proprie ali.
Ci vuole molta tigna, molto mestiere per riuscire a costruire una storia in maniera
convincente. E non bisogna aver paura di sporcarsi le mani entrando nei generi, nelle
storie. Naturalmente bisogna che ci siano talento e quella sensibilita' individuale che
deriva dall'esperienza, dalla cultura, dalle buone letture.
Come ci si perfeziona?
Si impara soprattutto dai propri errori, sempre che uno faccia questo lavoro con
entusiasmo e non come un lavoro di routine, perche' allora viene meno l'attenzione.
Bisogna farsi un esame di coscienza, se uno ha un minimo di autocritica capisce sempre
dove ha sbagliato. Io imparo sicuramente piu' dai miei errori che dai miei successi, anzi,
sono estremamente autocritica anche dei successi, il che mi aiuta molto, perche'
altrimenti me ne starei seduta sugli allori. Invece no, a volte mi arrabbio, dico quella
cosa avrei dovuto scriverla cosi', quel personaggio avrei dovuto farlo muovere di piu',
avrei dovuto fargli dire quella battuta. E' l'unico modo per continuare a crescere.

I suoi serial televisivi sembrano corrispondere esattamente alle attese degli
spettatori. Come ci riesce?
E' perche' io sono sempre l'ombelico delle mie storie: in realta' il polso e' il mio. E
quando ho voglia di raccontare una storia che mi sta a cuore non mi do' per vinta, anche
se incontro delle resistenze. La storia di Commesse ad esempio si discostava da quella che
e' la linea editoriale della RAI e di Mediaset. Parlare di storie di donne non era cosi'
semplice, sembravano faccende troppo poco interessanti, non c'era azione o suspence, e
nemmeno il drammone strappalacrime perche' noi non avevamo voluto pigiare
sull'acceleratore della forte emotivita'. D'altra parte eravamo convinti che valesse la
pena raccontarle, e alla fine ce l'abbiamo fatta.
E' anche una questione di tempismo: quando ci sono i grandi numeri vuol dire che si e'
arrivati al momento giusto. Il Maresciallo Rocca rispondeva ad un bisogno di stabilita' e
di rassicurazione. Commesse ha risposto al bisogno di parlare di certi problemi in maniera
ottimistica: ancora una volta rassicurazione, ma attraverso uno scorcio di vita piu'
preciso e piu' "normale". Ma il successo non e' automatico, anche quando i tempi
sembrano quelli giusti. Ogni volta che va in onda un mio nuovo sceneggiato ho paura, anche
perche' ormai da noi ci si aspetta sempre il successo. E cerco di non cadere nella
trappola di forzare certi elementi per ottenere i grandi numeri a tutti i costi, perche'
non sono quelli a darti la coscienza di aver fatto un buon lavoro.
Pur prendendo spunto da se stessa, lei ha raccontato personaggi che appartengono ad una
classe socioeconomica meno elevata della sua. Perche'?
Io non amo moltissimo la mia classe sociale, che e' quella intellettual-borghese: la
trovo assai poco interessante. Noi abbiamo per educazione o per cultura molti schermi,
sappiamo coprire meglio le nostre emozioni. La gente che incontro in metropolitana o al
mercato e' piu' immediata, piu' vera.
Non e' comunque la loro posizione sociale a colpirmi, sono i loro stati d'animo, e io
funziono da filtro delle loro emozioni. E' chiaro che poi quelle emozioni diventano anche
le mie perche' le recepisco in un certo modo e mi spingono a scrivere, ma e' un gioco di
rimbalzo, un gioco di specchi. Comunque non mi creo dei limiti: domani potrei scrivere la
storia di un professore universitario, perche' no?
Quanto e' forte la tentazione di adeguare la propria creativita' al consenso del
pubblico?
Io cerco di prescindere. Dopo il Maresciallo Rocca ci hanno chiesto di scrivere
sceneggiature su tutte le armi possibili e immaginabili, e noi abbiamo rifiutato
Non e' ripetendo una formula che si ottiene il successo, infatti tutti i cloni del
Maresciallo Rocca sono andati male: il pubblico ha un fiuto eccezionale, si accorge subito
se il prodotto non e' d.o.c. Dopo il successo di Commesse stanno preparando una serie
sulle segretarie, una sulle sciampiste, in cui la discriminante sembra la categoria di
appartenenza. E' ridicolo. Ed e' gia' stato una delle ragioni della morte del cinema
italiano: quella di aver perseverato nei generi scopiazzandosi l'un l'altro fino
all'esaurimento totale. Cosi' succedera' in televisione, con l'aggravante che alla fine si
creera' una stanchezza da parte del pubblico che non sapra' piu' distinguere fra opere
originali e sottoprodotti, e di conseguenza rifiutera' in blocco la fiction italiana per
tornare a vedere i film americani.
In questo momento la fiction televisiva sembra accontentarsi di raccontare nel
dettaglio la realta'. Qual e' la differenza fra reale e banale?
La differenza sta in chi guarda. Io posso parlare della storia del mio fruttivendolo e
renderla banale se non riesco a cogliere in quella storia degli elementi di appeal. Non si
racconta una categoria, ma delle persone e dei problemi. E' questa la differenza fra il
servizio giornalistico e la fiction. Si e' sempre creduto che lo specifico televisivo
fosse quello del servizio giornalistico, della cronaca. Adesso ci si sta accorgendo invece
che la fiction puo' diventare un altro specifico televisivo, attraverso il quale far
passare degli spunti di riflessione sulla realta' attuale, in modo meno diretto, ma forse
proprio per questo piu' efficace. Sono comunque convinta che la televisione, anche quella
di intrattenimento, abbia il dovere di essere lo specchio del nostro mondo, del nostro
sociale, dei nostri problemi.
Qual e' il futuro della fiction televisiva italiana?
In questo momento stiamo navigando a vista. Mi auguro caldamente che i nostri
committenti non commettano l'errore della clonazione, che e' il peccato mortale,
l'assassinio nella cattedrale. Mi auguro che abbiano il coraggio di tentare strade nuove
anche sbagliando perche' abbiamo diritto a crearci una nostra cultura televisiva, diversa
da quella americana e anche da quella europea. Abbiamo diritto a questo spazio, ce lo
stiamo conquistando faticosamente e io spero che non ci creino degli ostacoli, bloccandosi
su pigrizie o miopie: in altre parole, che non ci facciano fare la fine del cinema.
Quali sono i limiti imposti dal mezzo televisivo?
Sino ad ora vigeva il sistema individuale di autocensura in quanto persone adulte e
ragionevoli: la televisione entra nelle case della gente, e nessuno di noi vuole fare
un'opera distruttiva. Questa forma di autocensura ha fatto si' che, ad esempio, tutti i
messaggi contenuti in Commesse fossero fondamentalmente positivi e ottimistici. Come
autori, ci rendiamo ovviamente conto che le storie potrebbero anche prendere una piega
diversa, sarebbe piu' gratificante anche per noi riuscire ad arrivare piu' in fondo,
spingendoci nelle pieghe piu' occulte. Ma ci sono messaggi di una crudezza e di una
violenza che la televisione non si puo' permettere.
Esistono poi forme di censura imposta dall'alto, che sono per il momento regole non
scritte, ma a breve saranno codificate: esiste una legge, passata nel '95, che prevede una
censura, sanzionata da una commissione giudicante, per la fascia oraria che va dalle sette
del mattino alle undici di sera. Il che significa che i programmi di prima serata saranno
appiattiti sulla mentalita' dell'infanzia.
Questo messaggio falso e buonista e' di una gravita' assoluta, anche perche' prima dei
programmi di prima serata va in onda il telegiornale che e' tutt'altro che rassicurante.
In questo modo la scissione fra la realta' e la fiction diventera' sempre piu' profonda.
Non possimo essere noi i tutori dei bambini: sono i genitori che a una certa ora devono
mandare i propri figli a letto, come ho sempre fatto io con i miei.