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"Decisamente la fiction italiana è migliore del cinema italiano. Nel senso che mentre il cinema oggi vive mantenuto dai finanziamenti pubblici, la fiction, dovendo far continuamente i conti con l’audience e con il mercato, in qualche modo rispetta un meccanismo sano, fa i conti con il pubblico, mentre il cinema prescinde dallo spettatore". Dino Audino, editore specializzato in cinema, direttore della rivista Script, oltre che ideatore e coordinatore del quarto corso di formazione e perfezionamento per sceneggiatori finanziato dalla Rai, non usa mezzi termini. La sua è la parola di chi conosce il mezzo, la Tv, e ne apprezza le qualità intrinseche.

 

La Tv quindi è migliore del grande schermo?

Non dimentichiamoci che parlando di qualità dobbiamo parlare di qualità intrinseca a un genere. Non possiamo paragonare la fiction televisiva a un film di Bergman. La Tv produce programmi popolari. Il medium è popolare. La sua missione è questa. Come diceva Angelo Guglielmi riadattando un antico detto di Confucio: la televisione è come un cannone, se spara agli uccellini fa una sciocchezza. Avere una Tv generalista e pensare che in prima serata si debba mandare un concerto di musica classica che prenderà al massimo il 3 per cento di ascolti è una follia. Ma all’interno di statuti e stilemi estetici di tipo popolare può esistere un fiction di grande livello invece che una fiction sciatta, pensata male, scritta peggio.

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In che senso lei parla di fiction sana?

Innanzi tutto il meccanismo di produzione della fiction televisiva risponde a una dinamica sana. A differenza di ciò che accade nel cinema, dove il produttore si disinteressa di come il film andrà perchè i soldi li mette lo stato e lui deve solo saperli gestire, i produttori di fiction televisive sono costantemente interessati alle reazioni del pubblico. E il motivo è presto detto: in televisione se un funzionario sbaglia salta, come è accaduto recentemente ai vertici fiction di Mediaset. Il funzionario sa che l’esito della messa in onda condizionerà la sua carriera e quindi vuole che il produttore lavori bene e a sua volta il produttore cerca una buona storia, un bravo sceneggiatore. La fiction italiana ha riconquistato il suo pubblico, mentre purtroppo il cinema no. Questo non significa che se tu fai audience hai creato un prodotto di qualità, ma solo che il meccanismo di produzione è sano, e un meccanismo sano alla lunga paga anche in termini di qualità: Commesse o Fine Secolo sono prodotti di grande livello qualitativo.

 

Come nasce l’idea di un corso per sceneggiatori di fiction?

Nasce da un programma più ampio, da una battaglia culturale che Script ha intrapreso dal 1992, una battaglia tesa a rimettere la storia, la sceneggiatura al centro del processo produttivo del cinema e della televisione. In Italia negli ultimi vent’anni la centralità della storia sembrava aver perso importanza a favore della regia di tipo autorale. Con il risultato paradossale di essere il paese che ha avuto i migliori sceneggiatori della storia del cinema, da Suso Cecchi D’Amico a Zavattini e Amidei, buttati a mare tra gli anni ‘70 e ’80 per rincorrere il mito della nouvelle vague, del regista come autore totale. Con il corso vogliamo fornire a persone di talento gli strumenti per imparare a produrre narrazione televisiva.

 

Ma si può imparare a scrivere una fiction?

Turgenev diceva: per fare il pittore è normale studiare la prospettiva e l’anatomia, per fare il musicista bisogna imparare a leggere lo spartito ed esercitarsi con lo strumento, solo in letteratura la gente pensa che basti saper leggere e scrivere per diventare scrittori. Non è così. In tutto il mondo anglosassone già da tempo esistono corsi come questi, non di scrittura creativa, ma di analisi del testo. Insegnano a capire come funziona uno script, quali sono le pulsioni interne che tengono in piedi una sceneggiatura. Questo serve non tanto nel momento della scrittura, che è sempre un atto di creatività, quanto durate la fase di ri-scrittura. Io dico sempre che studiare la struttura dell’uomo, l’anatomia, la fisiologia del corpo umano non serve a fare un uomo, che per fortuna si fa in modo molto più divertente, ma a salvargli la vita se si ammala.

 

Mi risulta però che in Italia ci siano ancora forti resistenze verso questi corsi. Secondo lei, perchè?

Si tratta di provincialismo e di arretratezza storico-culturale. Il disprezzo della tecnica è un retaggio della cultura idealistica, del crocianesimo imperante a destra come a sinistra. E’ vero che il talento non si insegna, però si può affinare. A questo servono le scuole. Eppure questi corsi sono stati creati scontrandosi anche contro alcuni grandi vecchi del cinema, che ci hanno accusato di voler livellare la scrittura. Come se quando è stata inventata la prima grammatica si fosse temuto che insegnando le regole della lingua tutti avrebbero scritto nello stesso modo. Un’assurdità.

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Eppure c’è una forte richiesta sia da parte dei candidati sia da parte della Rai.

Effettivamente il corso, che dura tre mesi ed è gratuito per i partecipanti, ha avuto molto successo. Pensi che quest’anno, il primo in cui il corso è stato pubblicizzato nazionalmente, abbiamo ricevuto 500 domande. Il successo dipende anche dal fatto che ci sono possibilità di lavoro molto alte. Questo è uno dei rari settori in cui non crei illusioni, perchè sicuramente le persone brave troveranno lavoro. Certo, saranno tutti liberi professionisti: ciò significa che se uno non funziona non andrà avanti. Però il 70 per cento degli ex corsisti lavora. D’altronde sia la Rai che Mediaset devono combattere contro le produzioni europee e americane. Per fare un esempio: attualmente in Italia produciamo circa 400 ore di fiction all’anno, contro le 1500 della Germania e il doppio della Francia. E però mancano le persone in grado di scriverne le sceneggiature.

 

Quanti sono i partecipanti al corso?

Trenta, dieci corsisti a tutti gli effetti e venti uditori. I corsisti hanno il vantaggio di portare avanti un progetto di sceneggiatura, un episodio di 50 minuti o due sitcom di 20, che alla fine del corso sarà valutato dai docenti. Gli autori dei progetti giudicati migliori faranno uno stage affiancando sceneggiatori professionisti per alcuni mesi.

 

Quali sono le doti richieste ai candidati nella domanda di partecipazione?

Un curriculum e il meglio che avessero mai scritto in vita loro, purchè fosse un saggio di narrativa, non necessariamente una sceneggiatura, anche un racconto o un abozzo di romanzo. Fra tutti i candidati abbiamo scelto una trentina di persone, tentando di individuare chi avesse un talento narrativo, perchè pensiamo che il talento sia in effetti riconoscibile. Non si è trattato necessariamente di persone che si erano già cimentate con la sceneggiatura, perchè abbiamo ritenuto che sarebbe stato il corso a insegnare loro a strutturare dialoghi e forme proprie alla sceneggiatura.

 

Il prossimo anno la selezione manterrà gli stessi criteri?

Già da quest’anno abbiamo sperimentato un nuovo meccanismo. Gli anni scorsi la Rai, temendo le frotte di aspiranti, preferiva fare una selezione quasi per inviti, con un meccanismo che però risultava romanocentrico Quest'anno invece il bando è stato esteso al territorio nazionale. Inoltre mi sto battendo perchè l’anno prossimo si fornisca anche qualche borsa di studio, per evitare che chi ha talento e viene da fuori rinunci a partecipare perchè non può mantenersi a Roma.

 

Grazie, a nome della provincia.

Mi sembra giusto.

 

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