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Letti per voi/Un paese finalmente normale

Ezio Mauro

 

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L'articolo che qui pubblichiamo e' apparso su "la Repubblica"  di venerdi' 14 maggio

 

L'applauso di tutto il Parlamento in piedi per Carlo Azeglio Ciampi eletto presidente della Repubblica al primo scrutinio, è un bel momento per la politica italiana, e per tutto il Paese.

 

Sale al Quirinale un altro presidente galantuomo, che viene da un'esperienza tecnica di primissimo piano in quell'officina di franchi classe dirigente che è stata la Banca d'Italia, e che ha saputo trasferire quell'esperienza al servizio dell'evento politico più significativo del decennio, l'ingresso dell'Italia nella moneta unica. Un uomo senza ambiguità, che ha scelto la parte progressista del Paese, ma è il più adatto a svolgere l'incarico super partes cui oggi viene chiamato. Un appassionato servitore dello Stato che non ha mai frequentato le illusioni tecnocratiche di commissariare la politica, usandole al contrario il rispetto che è dovuto in un Paese civile, dove la libera politica siede a capotavola, disciplinando i poteri e gli interessi legittimi, nella gerarchia delle istituzioni democratiche.

L'accordo su E tuttavia, Ciampi è anche un presidente, il primo, non iscritto a nessun partito, con una vecchia tessera in tasca, scolorita da cinquant'anni: quella del partito d'Azione, che ha sempre rappresentato una cultura di giustizia e libertà e un'Italia di minoranza. A un uomo di quell'Italia si rivolge oggi la grande maggioranza del Parlamento per chiedergli di riunificare il Paese in una prospettiva di crescita e di cambiamento, cioè di riforma nelle garanzie, difendendo le istituzioni - prima fra tutte il Quirinale - logorate dalla polemica furiosa di questi anni. Al Quirinale arriva dunque l'uomo giusto, e ci arriva nel modo migliore. Ciò che è accaduto ieri nelle Camere riunite in seduta comune è la prima, vera prova di un'intesa costituzionale riuscita tra i due maggiori poli del Paese, il centrosinistra che governa e il centrodestra di opposizione. Può essere l'inizio di un dialogo istituzionale e riformatore, nella netta distinzione dei ruoli, senza tentazioni consociative: il Paese ne avrebbe bisogno.

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Ma intanto, l'intesa raggiunta da D'Alema e Berlusconi ha consentito di ritrovare una sintonia tra la classe politica e i cittadini, ha dato maggior peso alla presidenza Ciampi e nuova forza all'istituzione presidenziale e ha funzionato come un soprassalto di responsabilità da parte del Parlamento, capace di non farsi logorare in un lungo impasse elettorale, sotto gli occhi di un'opinione pubblica sempre più sfiduciata. Mentre apre una prospettiva di dialogo con l'opposizione di destra, l'elezione di Ciampi al Quirinale ha provocato tuttavia una forte rottura tra il Pds e il partito popolare, e in particolare tra Marini e D'Alema. Bisogna dire che Ciampi è un presidente fortemente voluto da D'Alema e Veltroni, consapevoli che quel nome avrebbe consentito un immediato recupero di credibilità alla sinistra, cancellando le vecchie ruggini nate dalla caduta del governo Prodi e dall'accordo di governo con Cossiga e Mastella. Per i due leader del Pds, Ciampi era la soluzione più forte, e la sua candidatura gestita direttamente dalla sinistra poteva togliere spazio all'offensiva "nuovista" dei democratici di Prodi. Questa candidatura si è trovata di fronte l'ostacolo dei popolari, decisi a conquistare il Quirinale come prova di forza e di sopravvivenza insieme, davanti alla doppia insidia elettorale di Prodi e Berlusconi.

Marini, nella convinzione e nella necessità di compattare il centrosinistra, ha scartato tutti i candidati democristiani meno graditi alla sinistra, alzando poi la bandiera del ministro Rosa Russo Jervolino, un nome ben visto sia da Veltroni che da D'Alema. Una scelta legittima, sostenuta da una tattica sbagliata. I popolari hanno infatti trasformato la candidatura-Jervolino in una pretesa di partito, facendone una questione di vita e di morte, senza subordinate, alternative, aggiustamenti. Gli altri, tutti gli altri, hanno sentito nell' aria l'ansia di sopravvivenza che muoveva il Ppi in affanno. Naturalmente, sinistra e destra hanno riconosciuto la piena legittimità di una candidatura popolare (Marini, più saggiamente dei vescovi che hanno polemizzato a vuoto, non ha mai parlato di una candidatura "cattolica"); ma nessuno ha capito perché, in forza di quale legge, di quale obbligo o necessità il presidente avrebbe dovuto essere necessariamente un popolare. La candidatura della Jervolino ha dunque dovuto farsi strada laicamente, con il peso della propria forza, della novità del presidente-donna, dei troppi candidati-ombra che si agitavano sullo sfondo democristiano. E sulla sua strada ha trovato la contro-candidatura di Ciampi.

Veltroni, che è un capo-partito e pensa giustamente agli interessi dei Ds, ha il merito di aver creduto fino in fondo alla forza di questa contrapposizione, che secondo logica doveva finire per premiare Ciampi. Per giungere a questo risultato, Veltroni ha dovuto rispondere no alla richiesta di Marini di passare da due candidature del centrosinistra a una sola. Lo ha fatto, ha rotto con Marini, ha perso il ruolo di grande mediatore per il Quirinale: ma ha tenuto fino all' ultimo il nome di Ciampi sul tavolo delle trattative, sia pure sul bordo estremo. Lì lo ha potuto prendere in mano D'Alema, quando è sceso in campo l'ultimo giorno. Ai popolari aveva garantito un serio impegno sulla candidatura Jervolino: lo ha rispettato quando ha portato quel nome a Berlusconi, in piena lealtà con Marini, ma sapendo in cuor suo che il Polo non poteva accettarlo. Così D'Alema dopo la Jervolino poteva affacciare il nome di Ciampi, visto che quella candidatura era ancora in piedi.

Dall'altra parte del campo, dietro i sorrisi del Cavaliere si giocava una partita sorda e dura come nel centrosinistra. Berlusconi infatti si è seduto davanti al premier, nell'incontro decisivo, dominato da un'ossessione e da due preoccupazioni. L'ossessione era quella di non rinnovare il mandato a Scalfaro. Le preoccupazioni riguardavano la doppia necessità di entrare nel grande gioco istituzionale proiettato sui prossimi sette anni, e di non spaccare palesemente il Polo finché possibile. An e Forza Italia sono infatti strategicamente divaricate come non è mai accaduto, tra l' opzione tardo-democristiana di Berlusconi che punta tutto sul centro consociativo sperando di rappresentarlo, divorarlo e dominarlo, e il progetto movimentista-referendario di Fini, che guarda ad un nuovo radicalismo di destra apertamente bipolare. Dopo il no a Scalfaro, il no alla democristiana Jervolino diventava inevitabile per salvare l' unità del Polo. Restava l'ultima proposta di D'Alema, con il nome di Ciampi: per Fini, un candidato schiettamente bipolare, e in più un vero antifascista che gli consentiva un'ulteriore legittimazione. Per Berlusconi, un uomo fuori dai partiti, protagonista di un risultato economico che anche la base di Forza Italia riconosce come un successo. Dopo due no, è arrivato il sì della destra, che per la prima volta (e lo riconosciamo volentieri sia a Berlusconi che a Fini e a Casini) si è comportata da destra costituzionale, con una responsabilità nazionale e una capacità di privilegiare gli interessi del Paese sul radicalismo istintivo e "rivoluzionario" che tante volte l' ha dominata.

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La sinistra, a sua volta, ha dimostrato di poter puntare in alto senza cedere a compromessi, scegliendo la soluzione migliore per il Paese e anche per la sua opinione pubblica, che non può essere sempre trascurata. Va dato atto a D'Alema di aver scelto Ciampi senza lasciarsi intimorire dai rischi a cui esponeva il suo governo, per la frattura con i popolari: una scelta coraggiosa, da uomo di Stato, con il senso dello Stato e delle istituzioni. Ma va dato atto anche a Marini, di cui troppi si giocano oggi le vesti a dadi, di non aver cercato nella partita del Quirinale un ambiguo compromesso col Cavaliere all'insegna di qualche "grande centro" prossimo venturo. Marini si è mosso nel centrosinistra e nel centrosinistra ha perso, con il concorso del Cavaliere, mosso dalla sua fretta di divorare con un'opa ostile tutto lo spazio democristiano. Ma anche dopo la sconfitta, Marini non ha messo in discussione la coerenza di centrosinistra.

Insomma, D'Alema e Veltroni non hanno svenduto Ciampi al piccolo cabotaggio di maggioranza, Marini non ha spaccato l' alleanza che gli ha chiuso la porta del Quirinale, Berlusconi e Fini non si sono arroccati in una logica anti-istituzionale. Nonostante la rottura D'Alema-Marini, il centrosinistra è più forte, e la destra è nel gioco politico più largo, quello delle regole e delle garanzie, cioè delle riforme, da cui si tengono fuori soltanto Bossi e Bertinotti. In più, ed è il risultato più importante, c'è Ciampi al Quirinale, che come Scalfaro saprà difendere la Costituzione, rappresentare l' unità del Paese e garantire l'imparzialità del Capo dello Stato. L'Italia, vista dal Colle più alto, oggi sembra quasi un Paese normale.

 

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