Con la prima missione
militare dellesercito federale è finito il tempo di una discrezione che si era
impressa nei tratti civili della mentalità tedesca del dopoguerra. È guerra. Certo, i
raid aerei dellAlleanza vogliono essere qualcosa di diverso da una guerra nel senso
tradizionale della parola. Effettivamente la "precisione chirurgica" degli
attacchi e limpegno programmatico a risparmiare le popolazioni civili assicurano un
alto tasso di legittimazione. Significano infatti il congedo da quella condotta di guerra
totale che ha determinato la fisionomia del secolo che ora si chiude. Ma anche noi,
partecipanti a mezzo servizio cui la televisione serve ogni sera il conflitto del Kossovo,
sappiamo che, mentre cerca riparo dagli attacchi aerei, il popolo yugoslavo non sperimenta
altro che guerra.
Per fortuna il dibattito pubblico tedesco non offre cupezza di toni.
Nessun nostalgico richiamo al destino, nessuna grancassa intellettuale per il buon
camerata. Ancora durante la gerra del Golfo si era fatta sentire la retorica della
gravità dellora, lappello al pathos statale, alla dignità, alla tragedia e
alla maturità virile contro il movimento pacifista allora molto forte. Di entrambi questi
atteggiamenti è rimasto molto poco. Qui e là qualche malignità sul pacifismo ora in
sordina o lo slogan di chi invita "a scendere dalle altezze della morale". Ma
nemmeno qui si stona, perché tanto favorevoli che contrari allintervento si servono
di una lingua limpidamente normativa.
I contestatori pacifisti ricordano la distinzione etica tra fare e non
fare e richiamano lattenzione sulle vittime civili che anche un uso tanto mirato
della forza non può non provocare. Ma lappello questa volta non si rivolge alla
buona coscienza di realisti incalliti propugnatori della ragion di stato. Si indirizza
invece contro il pacifismo legale di una coalizione rosso-verde. Schierandosi con le
antiche democrazie che più di noi si sono formate sulle tradizioni del diritto razionale,
Fischer e Scharping si richiamano allidea di un superamento in nome dei diritti
umani dello stato di natura che vige tra gli stati. È quindi allordine del giorno
la trasformazione del diritto internazionale in un diritto di cittadinanza universale.
Il pacifismo legale non vuole semplicemente perseguire dal punto di
vista del diritto internazionale lo stato di guerra che cova nei rapporti tra stati, ma
vuole superarlo in un ordine cosmopolita compiutamente giuridico. Da Kant a Kelsen questa
è anche una tradizione tedesca. Solo oggi però essa viene presa per la prima volta sul
serio da un governo tedesco. Lappartenenza diretta ad una società di cittadini del
mondo difenderebbe il cittadino di uno stato anche contro larbitrio del proprio
governo. La conseguenza più importante di un diritto che travalichi la sovranità degli
stati, come già si intravede dal caso Pinochet, sarebbe la responsabilità personale dei
singoli funzionari per i crimini commessi in pace o in guerra.
Nella Repubblica federale a dominare il confronto pubblico sono da una
parte i pacifisti assoluti, dallaltra i pacifisti del diritto. Perfino i
"realisti" indossano ora il mantello della retorica normativa. A seconda che si
sia pro o contro si mettono in evidenza serie di motivazioni opposte. Chi ragiona in
termini di potenza, chi quindi paventa la limitazione normativa del potere statale, si
ritrova a braccetto con i pacifisti, mentre è solo per fedeltà allAlleanza che gli
"atlantisti" reprimono la diffidenza per lentusiasmo governativo da
diritti umani - per tutta quella gente che fino a poco fa marciava contro il dispiegamento
dei Pershing 2. Dregger e Bahr sono al fianco di Stroebele, Schaeuble e Ruehe accanto a
Eppler (1). In breve sia la sinistra al governo che la predilezione per argomenti
normativi spiegano non solo gli strani schieramenti in campo, ma anche il dato
tranquillizzante per cui in Germania clima e dibattito pubblico non sono dissimili dagli
altri paesi dellEuropa occidentale. Niente Sonderweg (2), niente coscienza
particolare. A delinearsi sono invece delle linee di frattura tra europei continentali e
anglosassoni, tra coloro che invitano per consultazioni il segretario generale delle
Nazioni Unite e cercano un accordo con la Russia e coloro che confidano soprattutto nelle
armi.
Naturalmente gli Stati Uniti e i paesi membri della Ue che ne
condividono la responsabilità politica rappresentano ununica posizione. Dopo il
fallimento delle trattative di Rambouillet hanno avviato lazione punitiva contro la
Yugoslavia con lesplicito obiettivo di affermare un ordinamento liberale di
autonomia del Kossovo allinterno della Serbia. Nellambito del diritto
internazionale classico questo significherebbe uningerenza negli affari interni di
uno stato sovrano, cioè una violazione del divieto di intervento. Secondo i presupposti
della politica dei diritti umani questo intervento deve invece essere inteso come una
missione pacificatrice, armata ma autorizzata dalla comunità internazionale (pur senza
mandato dellOnu). Secondo questa interpretazione occidentale la guerra nel Kossovo
potrebbe rappresentare un salto sulla strada che porta dal classico diritto internazionale
al diritto cosmopolita di una società universale.
Con la fondazione dellOnu si iniziò a sviluppare questo
concetto, che poi, dopo la stagnazione negli anni del conflitto est-ovest, ha subito
unaccelerazione durante la guerra del Golfo e altri interventi. Dal 1945 gli
interventi umanitari erano stati promossi solo nellambito delle Nazioni Unite e con
la approvazione formale dei governi interessati (nei casi in cui fosse presente e in
funzione unautorità statale). Certo, durante la guerra del Golfo il Consiglio di
sicurezza era di fatto intervenuto negli "affari interni" di uno stato sovrano
con la istituzione della no-fly zone nei cieli iracheni e delle "zone di
protezione" per i profughi curdi nel nord delIrak. Ma tutto ciò non fu
esplicitamente motivato con la necessità di difendere una minoranza oppressa dal proprio
governo. Nella risoluzione 688 dellaprile 1991 le Nazioni Unite si richiamarono
infatti al diritto di intervento sancito nei casi di "minaccia alla sicurezza
internazionale". Oggi è diverso. Lalleanza del Nord Atlantico agisce senza
mandato del Consiglio di sicurezza, ma giustifica lintervento in quanto soccorso ad
una minoranza etnica (e religiosa) oppressa.
Morte, terrore e deportazione avevano colpito già circa trecentomila
kossovari nei mesi che precedettero linizio dei raid aerei. Nel frattempo le
immagini sconvolgenti dei convogli di profughi sulle strade verso la Macedonia, il
Montenegro e lAlbania portano le prove di una pulizia etnica pianificata a tavolino.
Che poi i profughi possano anche venir trattenuti per fungere da ostaggi non è che
migliori la situazione. Sebbene Milosevic sfrutti proprio la guerra aerea della Nato per
forzare la sua misera pratica fino alla sua amara conclusione, le scene strazianti dai
campi profughi non possono invertire il rapporto causale dei fatti. Obiettivo delle
trattative in fondo non era altro che por fine al nazionalismo etnico assassino. Se si
possano applicare i principi della convenzione sul genocidio del 1948 a quanto sta ora
accadendo a terra sotto lombrello degli attacchi aerei è cosa controversa. Ma ci si
può certo riferire alle azioni indicate come "crimini contro lumanità"
dai protocolli dei tribunali per crimini di guerra di Norimberga e Tokyo e da allora
assunti dal diritto internazionale. Da qualche tempo il Consiglio di sicurezza considera
anche queste azioni quali "minacce alla pace" che a certe condizioni
giustificano misure forzate. Ma in questo caso, in assenza di un mandato del Consiglio di
sicurezza, le potenze interventiste possono dedurre lincarico a prestare soccorso
solo dai principi vincolanti erga omnes del diritto internazionale.

Ad ogni modo, sia la richiesta dei kossovari di convivere su un piano
paritario, sia lindignazione per le brutali deportazioni hanno assicurato
allintervento armato un largo anche se differenziato consenso nel mondo occidentale.
Il portavoce di politica estera della Cdu Karl Lamers ha espresso bene lambivalenza
che accompagna questo consenso sin dallinizio: "Dunque le nostre coscienze
potrebbero essere tranquille. Questo ci dice la nostra ragione, ma il nostro cuore non si
fida completamente. Siamo insicuri e inquieti..."
Ci sono molte fonti di inquietudine. Nel corso delle ultime settimane
si sono rafforzati i dubbi sulla saggezza di una condotta negoziale che non ha lasciato
altra scelta che lattacco armato. Ci sono infatti molti dubbi sullefficacia
degli attacchi militari. Mentre tra il popolo yugoslavo, giù giù fino alle file
dellopposizione, cresce il sostegno per la tenuta rigida e perentoria di Milosevic,
attorno vanno accumulandosi i minacciosi effetti collaterali della guerra. Gli stati
confinanti di Macedonia e Albania, cosi' come la Repubblica federata del Montenegro, sono
risucchiati per diverse ragioni nel gorgo della destabilizzazione; nella potenza atomica
russa la solidarietà di larghe fasce di popolazione per i "fratelli serbi"
mette sotto pressione il governo. Crescono i dubbi sulla congruenza dei mezzi militari.
Dietro ogni "effetto collaterale", ogni treno civile che crolla inavvertitamente
con un ponte distrutto sul Danubio, dietro ogni trattore con profughi albanesi, ogni
centro residenziale serbo, ogni obiettivo civile che cada vittima accidentale di un
missile, non si intravede una contingenza qualsiasi della guerra, ma una sofferenza che il
"nostro" intervento ha sulla coscienza.
Le congruenza è difficile da misurare. La Nato non avrebbe potuto
annunciare con mezzora di anticipo la distruzione della televisione statale? Anche le
distruzioni previste - la fabbrica di tabacco in fiamme, la centrale del gas distrutta, le
case, le strade e i ponti bombardate, lannientamento delle infrastrutture economiche
in un paese già comunque danneggiato dallembargo - aumentano linquietudine.
Ogni bambino che muore durante la fuga stride sui nostri nervi. Nonostante levidenza
del nesso causale adesso si confondono infatti i fili della responsabilità. Nella miseria
della deportazione le conseguenze della spregiudicatezza di un terrorista di stato formano
un unico, inestricabile groviglio con gli effetti collaterali degli attacchi militari, che
invece di impedirne lazione sanguinaria le forniscono un ulteriore pretesto.
Infine i dubbi sullobiettivo politico sempre più ampio. Certo,
le cinque richieste a Milosevic rispondono a quegli stessi inoppugnabili principi sui
quali è stato costruito laccordo di Dayton per una Bosnia multietnica e liberale.
Gli albanesi del Kossovo non avrebbero alcun diritto alla secessione se solamente venisse
rispettata la loro richiesta di autonomia allinterno della Serbia. Il nazionalismo
panalbanese che verrebbe rinfocolato da una divisione del paese non è in nulla migliore
di quello serbo che lintervento vuole arginare. Nel frattempo però le ferite della
pulizia etnica rendono sempre più inderogabile la revisione dellobbiettivo di una
coesistenza paritaria tra i diversi popoli. Ma una spartizione del Kossovo significherebbe
proprio quella secessione che nessuno può volere. Per di più listituzione di un
protettorato richiederebbe un cambiamento di strategia, e cioè una guerra di terra e una
presenza decennale di truppe di pace. Se queste imprevedibili conseguenze dovessero
verificarsi, la questione della legittimità dellintervento cambierebbe ancora una
volta retrospettivamente.
Nelle dichiarazioni del nostro governo si avverte qualche tono
stridulo, un battere e ribattere su dubbi parallelismi storici - come se Fischer e
Scharping volessero soffocare con una retorica martellante unaltra voce
allinterno di loro stessi. È forse la paura che il fallimento politico
dellintervento militare possa far apparire lintervento stesso sotto una luce
completamente diversa, e quindi ricacciare indietro di decenni il progetto di una
giuridificazione complessiva dei rapporti tra gli stati? E se dellintervento
poliziesco che la Nato ha orgogliosamente intrapreso a nome della comunità internazionale
non restasse che una guerra qualsiasi, per di più sporca, una guerra che avvii i Balcani
verso una catastrofe ancora peggiore? E non sarebbe proprio questa dellacqua al
mulino di un Carl Schmitt che ha sempre creduto di saperla più lunga: "Chi dice
umanità, vuole ingannare"? Di chi portò il suo antiumanesimo alla famosa formula:
"Umanità, bestialità". Il dubbio assillante che ci porta chierderci se a
sbagliare non sia proprio il pacifismo del diritto, è la più profonda tra le fonti
dellinquietudine.

Le contraddizioni del realismo...
La guerra nel Kossovo tocca una questione fondamentale, discussa anche
in politologia e in filosofia. Uno dei grandi meriti civilizzatori dello stato
costituzionale democratico è stata la limitazione giuridica del potere politico sulla
base della sovranità di soggetti riconosciuti dal diritto internazionale, mentre lo stato
di cittadinanza universale mette in discussione proprio questa indipendenza dello stato
nazionale. Non è che luniversalismo illuminista sbatta in questo caso contro
legoismo di un potere politico, nel quale è inscritto indelebilmente limpulso
allautoaffermazione collettiva di una particolare essenza comune? Questa è la spina
realista nella carne della politica dei diritti umani.
Anche la scuola di pensiero realista prende naturalmente atto del
cambiamento strutturale intervenuto su quel sistema di stati indipendenti nato con la pace
di Vestfalia del 1648 - linterdipendenza di una società mondiale sempre più
complessa; lordine di grandezza dei problemi che ormai solo la cooperazione tra
stati è in grado di risolvere; lautorità crescente e laumentare di
istituzioni, regimi e procedure sovranazionali, non solamente sul piano della sicurezza
collettiva; il corso economicista della politica estera, lo stemperarsi dei confini
classici tra politica estera e interna. Nonostante questi sviluppi, unimmagine
delluomo pessimista e un concetto stranamente opaco del politico fanno da sfondo ad
una dottrina che vorrebbe restare più o meno integralmente fedele al principio del
non-intervento. Nellarena internazionale gli stati nazionali indipendenti devono
potersi muovere seguendo il più liberamente possibile il proprio interesse, perché dal
punto di vista di chi vi appartiene la sicurezza e la sopravvivenza di un collettivo sono
valori non negoziabili e perché dal punto di vista di un osservatore esterno gli
imperativi di autoaffermazione razionale regolano ancora al meglio i rapporti tra i
singoli attori collettivi.
In questa prospettiva la politica dei diritti umani interventista fa un
errore categoriale. Sottovaluta infatti, e discrimina, la tendenza in un certo senso
"naturale" allautoaffermazione. Vuole imporre dei criteri normativi a un
potenziale di violenza che si sottrae alla normazione. Carl Schmitt avrebbe portato alle
estreme conseguenze questa argomentazione con la sua stilizzazione di una
"determinazione di entità". Tentando di "moralizzare" la ragione di
stato in sé neutrale, pensava Schmitt, la politica dei diritti umani snatura la lotta
naturale tra le nazioni in una lotta disperata contro il male.
Contro questa impostazione si possono sollevare valide obiezioni. Nella
costellazione post-nazionale non accade che stati nazionali pieni di forza e salute
vengano frenati dalle regole della comunità internazionale. Succede piuttosto che
lerosione dellautorità statale, le guerre civili e i conflitti etnici
allinterno di stati in disfacimento o tenuti in piedi in modo autoritario,
richiamino al dovere di intervenire - non solo in Somalia e in Ruanda, ma anche in Bosnia
e ora in Kossovo. Anche le riserve di critica dellideologia hanno poca sostanza. Il
caso in questione mostra quanto poco le motivazioni universaliste celino inconfessabili
interessi particolari. Dallattacco alla Yugoslavia unermeneutica del sospetto
può cavare piuttosto poco. Certo, una prova di forza in politica estera può offrire una
chance a politici, cui leconomia globale lascia poco spazio di manovra sul piano
interno. Ma né quanto si imputa agli Usa (di volere garantire e allargare la propria
sfera di influenza) né la motivazione ascritta alla Nato (la ricerca di un ruolo nuovo),
né quanto si rimprovera alla "fortezza europea" (la difesa preventiva da ondate
di profughi) può spiegare la decisione per un intervento cosi' grave, rischioso e
costoso.
Contro il "realismo" parla soprattutto il fatto che la scia
di sangue che i soggetti del diritto internazionale hanno lasciato lungo la storia
catastrofica del XX secolo, ha portato ad absurdum la presunzione di innocenza del
diritto internazionale classico. La nascita dellOnu e la dichiarazione dei diritti
umani, la condanna della guerra daggressione e dei crimini contro lumanità
(con la conseguente parziale limitazione del principio di non-intervento): sono state
tutte risposte giuste e necessarie alle esperienze moralmente significative del secolo,
allo scatenamento totale della politica e allOlocausto.
Infine, laccusa di voler moralizzare la politica rimane
concettualmente incerta. Perché la stabilizzazione di uno stato di cittadinanza
universale comporterebbe che le violazioni contro i diritti umani non verrebbero giudicate
e condannate da un punto di vista morale, ma verrebbero perseguite come le azioni
criminose commesse allinterno di un qualsiasi ordine costituito. Non è possibile
una giuridificazione complessiva dei rapporti internazionali senza procedure consolidate
di soluzione dei conflitti. Ma proprio la istituzionalizzazione di queste procedure
preserverebbe il trattamento legale delle violazioni dei diritti umani da
unindistinzione giuridica e impedirebbe il brutale e immediato affermarsi di
discriminazioni morali di "nemici".
Un tale scenario si potrebbe affermare anche a prescindere dal
monopolio della violenza di uno stato e di un governo mondiali. Ma come minimo è
necessario un Consiglio di sicurezza funzionante, la giurisprudenza vincolante di una
corte di giustizia internazionale e lintegrazione della Assemblea generale dei
rappresentanti dei governi con un "secondo livello" di rappresentanza dei
cittadini. Dal momento che non sembra ancora in vista questa riforma delle Nazioni Unite,
il richiamo alla differenza tra giuridificazione e moralizzazione rimane una obiezione
giusta ma a doppio taglio. Perché fino a quando i diritti umani saranno poco
istituzionalizzati a livello globale, il confine tra diritto e morale potrà confondersi
come appunto nel caso in questione. A Consiglio di sicurezza bloccato la Nato può infatti
richiamarsi solamente alla validità morale del diritto internazionale - a norme quindi
per le quali non sussistono istanze effettive di applicazione e affermazione
nellambito della comunità internazionale.
La sottoistituzionalizzazione del diritto di cittadinanza
universale si esprime ad esempio nella forbice tra legittimità e efficacia degli
interventi per assicurare e promuovere la pace. LOnu aveva ad esempio dichiarato
Srebrenica una enclave protetta, ma le truppe stazionate lí legittimamente non poterono
impedire il terribile massacro che segui' lentrata in città delle truppe serbe.
Daltra parte la Nato può contrastare con successo il governo yugoslavo proprio
perché si è attivata senza la legittimazione che il Consiglio di sicurezza le avrebbe
negato.
...e il dilemma della politica dei diritti umani
La politica dei diritti umani punta a chiudere la forbice tra queste
due situazioni esemplari. Di fronte alla sottoistituzionalizzazione del
diritto universale è quindi per certi versi costretta ad anticipare la futura condizione
cosmopolita che cerca al tempo stesso di promuovere. A queste condizioni paradossali come
è possibile praticare una politica che, se necessario anche con la forza delle armi,
imponga il rispetto dei diritti umani? La questione si pone anche se non si può
intervenire dappertutto - non a favore dei curdi, non dei ceceni o dei tibetani, ma almeno
sulla porta di casa nei Balcani lacerati dalla guerra. Tra europei e americani si nota in
proposito una differenza interessante nel modo di intendere la politica dei diritti umani.
Gli Stati Uniti promuovono laffermazione globale dei diritti umani come la missione
nazionale di una potenza mondiale che persegue questo obiettivo secondo i presupposti
della politica di potenza. Per politica dei diritti umani la maggior parte dei governi
della Ue intendono invece un progetto di complessiva giuridificazione dei rapporti
internazionali, un progetto che già oggi cambia i parametri della politica di potenza.
Gli Stati Uniti si sono asssunti i compiti dordine di una
superpotenza in un mondo solo debolmente regolamentato dallOnu. In questo senso i
diritti umani fungono da punto di riferimento etico per la valutazione di obiettivi
politici. Anche in America ci sono ovviamente sempre state controcorrenti isolazioniste e
come ogni altra nazione anche gli Usa perseguono in primo luogo i loro interessi, che non
sempre sono in sintonia con gli obiettivi normativi dichiarati. Questo lo dimostrò la
guerra del Vietnam, e lo dimostra ancora il rapporto che hanno con i problemi del proprio
"cortile di casa". Ma la "nuova miscela di generosità umanitaria e logica
imperiale di potenza" (Ulrich Beck) negli Stati Uniti ha una sua tradizione. Tra i
motivi per cui Wilson entrò nella prima e Roosevelt nella seconda guerra mondiale, ci fu
appunto anche lorientamento a ideali molto ben radicati nella tradizione pragmatica
americana. A questi proprio noi, la nazione sconfitta nel 1945, dobbiamo il fatto che la
sconfitta fu contemporaneamente liberazione. Da questo punto di vista molto americano, e
quindi molto nazionale, di una politica di potenza orientata in senso normativo, deve
quindi apparire plausibile continuare oggi con forza e senza compromessi la guerra contro
la Yugoslavia, nonostante ogni complicazione e se necessario anche con lutilizzo di
truppe di terra. È una condotta che ha se non altro il vantaggio della coerenza. Ma cosa
diremmo se un giorno lalleanza militare di unaltra regione - diciamo
lAsia - praticasse una politica armata dei diritti umani basata su unaltra
interpretazione, la loro appunto, del diritto internazionale o della Carta dellOnu?
Diverso sarebbe il caso se i diritti umani non venissero tirati in
ballo solo quale punto di riferimento etico del proprio agire politico, ma quali diritti
da affermare nel senso giuridico del termine. I diritti umani infatti, nonostante il loro
contenuto puramente etico, mostrano i segni strutturali di diritti soggettivi atti a
ricevere soddisfazione positiva in un sistema legale vincolante. Solo se i diritti umani
troveranno la loro "sede" in un ordine giuridico democratico su scala mondiale,
come i nostri diritti fondamentali la trovano nelle nostre costituzioni nazionali,
potremmo ritenere che anche a livello globale i destinatari di questi diritti ne sono al
tempo stesso gli autori.
Le istituzioni delle Nazioni Unite stanno cercando di chiudere il
cerchio tra applicazione vincolante del diritto e legiferazione democratica. Dove non è
questo il caso, le norme, per etiche che possano essere nel loro contenuto, restano delle
limitazioni imposte con la forza. Certo, nel Kossovo i protagonisti dellintervento
cercano di affermare le ragioni di chi ha visto i propri diritti conculcati dal proprio
stesso governo. Ma, come ha scritto Slavoj Zizek, i serbi che ballano per le strade di
Belgrado non sono "americani mascherati che aspettano di essere liberati dalla
maledizione del nazionalismo". A loro viene imposto con la forza delle armi un ordine
politico che garantisce pari diritti per tutti i cittadini. Questo vale anche dal punto di
vista normativo, perlomeno sin tanto che lOnu non abbia deciso unazione
militare contro lo stato membro di nome Yugoslavia.
Anche diciannove stati sicuramente democratici, quando si decidano
allintervento, restano una parte. Esercitano quindi una competenza interpretativa e
deliberativa che, se già oggi le cose andassero come dovrebbero, sarebbe di esclusiva
pertinenza di istituzioni indipendenti. In questo senso agiscono paternalisticamente. Con
buoni motivazioni etiche, certo. Chi però agisca convinto dellinevitabilità di una
forma temporanea di paternalismo, sa anche che il suo potere non possiede ancora la
qualità di un intervento legale nel quadro di una cittadinanza democratica universale. Le
norme morali che fanno appello alle nostre migliori convinzioni non possono essere imposte
come norme di diritto consolidato.
Dalla politica di potenza alla cittadinanza universale
Dal dilemma di dover agire come se fosse già presente lo stato di
cittadinanza universale che cosi' si vuole promuovere, non segue però la massima secondo
cui le vittime vanno lasciate ai loro aguzzini. Labuso terroristico del potere dello
stato trasforma la guerra civile classica in un crimine di massa. In assenza di soluzioni
alternative i vicini democratici devono poter prestare il soccorso legittimato dal diritto
internazionale. Ma proprio in un caso come questo lincompiutezza della condizione di
cittadinanza universale richiede grande sensibilità. Le istituzioni e le procedure già
oggi presenti sono le uniche istanze di controllo per i giudizi fallibili di una parte che
voglia agire a nome del tutto.
Una fonte di equivoci è ad esempio lo sfasamento storico di mentalità
politiche destinate a scontrarsi luna con laltra. Tra la guerra della Nato nei
cieli e la guerra dei serbi sul terreno non ci sarà la distanza temporale di quattrocento
anni di cui parla Enzensberger (nel caso del nazionalismo panserbo mi viene in mente
piuttosto Ernst-Moritz Arndt che Grimmelshausen) (3), ma politologi hanno dimostrato che
si sono sedimentate nuove differenze tra "primo" e "secondo" mondo.
Solo le società pacifiche e benestanti dellOcse si possono permettere di porre in
una certa sintonia i loro interessi nazionali con le pretese quasi da cittadinanza
universale delle Nazioni Unite.
Al contrario, il "secondo" mondo (in questa nuova lettura) è
oggi lerede politico del nazionalismo europeo. Stati come la Libia, lIrak o la
Serbia compensano linstabilità interna con lautoritarismo e la politica di
identità, si muovono espansionisticamente verso lesterno, sono sensibili su
questioni di confine e reclamano nevroticamente la propria sovranità. Osservazioni di
questo tipo innalzano la soglia di tolleranza nei rapporti tra gli uni e gli altri. Oggi
ad esempio giustificano la richiesta di sforzi diplomatici ulteriori.
Una cosa è se gli Usa sulla scia di una tradizione politica comunque
degna di nota, rivestono il ruolo del garante egemonico dellordine strumentalizzando
i diritti umani. Altra cosa è se noi guardiamo oltre il fossato dellattuale
conflitto armato e consideriamo il passaggio precario dalla politica di potenza classica a
uno stato di cittadinanza universale come un processo di apprendimento che tutti dobbiamo
portare a compimento. La prospettiva più lungimirante invita anche ad una maggior
cautela. Lautoinvestitura della Nato non può diventare la regola.