Questo articolo e'
apparso su "Il Messaggero" del 29 Aprile
NON cè stata crisi internazionale in questi ultimi 50 anni per
la quale non sia stato evocato George C. Marshall, il generale americano al quale si
dovette lidea del piano economico che salvò lEuropa dopo il 1945. E adesso
che si comincia a ragionare sul dopoguerra anche per il conflitto serbo, si ripropone -
inquietante e avvincente nella sua ipotesi quasi paradossale - linterrogativo di
allora: la guerra può essere un investimento produttivo?
Si sta lavorando attorno ad uno scenario a tre stadi: un altro mese di
stretta militare e il serrarsi di un embargo che tagli il grosso degli approvvigionamenti
primari alleconomia serba per provocare il rovesciamento del regime di Milosevic,
come prodromo di un grandioso piano dintervento finanziario e industriale da
estendere allintera regione balcanica. Un "patto occidentale" aperto a
Romania, Bulgaria, Croazia, Albania, Bosnia e Macedonia che getti solide e durature basi
di alleanza con Turchia, Polonia e Repubblica Ceca già in stand by per entrare a far
parte a pieno titolo dellUnione Europea.

Potrà funzionare? La prima condizione è certamente politica. Occorre
che lopinione pubblica e la dirigenza politica di quei paesi accettino
lintervento dellOccidente che, per quanto affidato alla regia
"neutrale" delle istituzioni multilaterali (Fondo Monetario, Banca Mondiale),
potrebbe facilmente prestare il fianco ad interpretazioni ostili, secondo cui questo piano
dintervento subordinerebbe le economie balcaniche agli interessi delle superpotenze
ed aprirebbe la strada per unindebita ingerenza negli affari politici interni.
E esattamente ciò che accadde mezzo secolo fa quando da Stalin a Molotov, fino a
Togliatti si eresse un duro fronte di opposizione che ebbe facilmente ragione
dellentusiastica adesione iniziale della Polonia e della Cecoslovacchia al
"Piano Marshall". Oggi, come allora, il Congresso americano non approverebbe
mai, del resto, unappropriazione di fondi da destinare a paesi controllati da regimi
animati da spiriti anti-occidentali.
La seconda condizione preliminare perché lo scenario sul quale ora le
cancellerie occidentali stanno ragionando abbia successo è di natura più tecnica. Le
grandezze economiche tra gli stanziamenti del primo "Piano Marshall" e quelli
che si stima necessari per il recupero delle economie balcaniche sono pressappoco uguali.
Ma qui finiscono le analogie. Sebbene lobiettivo di oggi, come 50 anni fa, sia
quello della ricostruzione delle società civili colpite dagli effetti diretti e indiretti
della guerra - già si fanno molto pesanti le ricadute sui commerci e sulle finanze di
molti paesi limitrofi alla Serbia - il Piano adesso allo studio dovrebbe molto
probabilmente avere connotazioni molto diverse da quelle del 1945. Allora
lintervento fu la presa datto che il mercato, ovvero progetti di investimento
contrattati a condizioni economiche, non sarebbe bastato a permettere la ripresa delle
economie europee distrutte dal conflitto. Il 90% dei fondi stanziati venne così
trasferito dallAmerica allEuropa senza alcuna contropartita, a fondo perduto,
per importi che supererebbero oggi i 300 mila miliardi di lire. E pensabile che
questa impostazione possa essere riproposta a mezzo secolo di distanza? Ne dubitiamo.

Nella fatale contraddizione tra scopi umanitari, che presuppongono la
volontà politica di fornire aiuti a costo zero, e obiettivi economici di mercato, che
richiedono rendimenti misurabili in tempi prestabiliti, sta forse lopportunità
della sfida da cogliere. I 100 mila miliardi che, a prima vista, sembrano essere la dote
necessaria di un Piano dintervento economico nei Balcani rappresenterebbero una
cifra senza precedenti prelevata dai bilanci pubblici da destinare a investimenti
produttivi in infrastrutture, in acquisti di beni capitali, nella ricostruzione delle
raffinerie, degli impianti industriali, dei sistemi di trasporto, dei servizi di
telecomunicazione. Durante i quattro anni, tra il 1948 e il 1952, in cui il primo
"Piano Marshall" fu attivo, le economie dei 16 paesi europei che ricevettero i
fondi americani crebbero del 30% e la loro produzione industriale salì del 40% rispetto
al periodo preguerra. Cosa accadrebbe oggi se lanemica economia europea contribuisse
a finanziare, con stanziamenti degli Stati, tassi di crescita così impetuosi in una vasta
area di mercato confinante? Basterebbe ricordare gli effetti dellespansione
delleconomia tedesca ad Est nel periodo successivo alla caduta del Muro di Berlino.
Infine, una riflessione sul ruolo dellItalia. Loccasione potrebbe risultare di
straordinaria importanza per noi. Molte imprese italiane conoscono bene, per avervi
insediato in passato numerosi poli di produzione, il tessuto industriale dellarea
balcanica. E molti settori merceologici - dal tessile alle conciature, dal turismo ai
macchinari agricoli e industriali - rappresentano mercati nei quali le nostre aziende
hanno notevole successo. Se è prevedibile che i settori a più alto contenuto tecnologico
(dalle telecomunicazioni alla chimica) attirino soprattutto investimenti tedeschi, inglesi
e americani, gli spazi di crescita per le imprese italiane sarebbero comunque
notevolissimi.
Un nuovo "Piano Marshall" assomiglierebbe ben poco, dunque,
al suo originale di 50 anni fa. Ma, come disse allora il generale americano che ne
congegnò larchitettura ("Compito di rimettere in sesto lEuropa è
compito degli europei"), rappresenterebbe unoccasione unica per rispondere alla
domanda se mai la guerra possa dopotutto essere davvero un buon investimento.