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La scacchiera dei massacri

 

Claudio Magris

 

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Questo articolo è apparso il 28 marzo 1999 sul "Corriere della Sera"

 

Uno scrittore austriaco noto in tutto il mondo, Peter Handke, ha dichiarato alla televisione del suo Paese di voler recarsi a Belgrado per dimostrare la sua solidarietà alla Serbia sotto le bombe. Handke è certamente unilaterale, talora settario nella sua scesa in campo a favore della Serbia, espressa in un celebre libro; nella sanguinosa e insensata tragedia jugoslava le responsabilità più pesanti e i crimini peggiori gravano sulle spalle di Milosevic e della sua politica. La posizione di Handke è tuttavia essenzialmente una reazione a un'informazione a sua volta spesso unilaterale, che denuncia giustamente i crimini efferati commessi dagli uomini di Milosevic, ma sottace quelli, anch'essi numerosi e atroci, commessi pure dagli uomini di Tudjman (presidente croato) e di Izetbegovic (presidente bosniaco) che - a differenza dai primi - non hanno raggiunto le coscienze né colpito l'immaginario occidentale.

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La condanna di Milosevic non può confondersi con l'indiscriminata demonizzazione della Serbia e dei serbi, cui si sta assistendo, anche grazie alla rozzezza diplomatica del regime di Belgrado. Come ha giustamente ricordato sul Corriere Ernesto Galli della Loggia, è per ragioni di - vera o presunta - convenienza politica che oggi si incendia la Serbia, non per nobile spirito garibaldino di difesa dei deboli, in questo caso degli albanesi del Kosovo esposti a violenze anche atroci. A differenza di Garibaldi, la Nato non si sogna ad esempio di proteggere i curdi, ancor più bisognosi d'aiuto perché privi, diversamente dagli albanesi, di uno Stato nazionale cui far riferimento. E' difficile capire o prevedere se la guerra raggiungerà il suo scopo oppure se, come sostengono a Belgrado gli oppositori di Milosevic, rafforzerà ulteriormente quest'ultimo. Ho l'impressione che i governi occidentali non abbiano le idee molto più chiare, che non siano in grado di calcolare le eventuali conseguenze, forse anche catastrofiche, e che alcuni abbiano forse dato un irresponsabile incremento alla guerriglia albanese e a sue azioni dettate non solo dalla difesa ma anche, come quelle dei nazionalisti serbi, da feroce nazionalismo.

La protezione di ogni individuo o gruppo perseguitato - oggi degli albanesi del Kosovo - è sempre un valore; assistere impassibili al massacro di tanti altri uomini non toglie significato al tentativo di salvarne qualcuno da qualche altra parte. Ma il cancro nazionalista è una metastasi infiltrata dappertutto e il giorno in cui il Kosovo avesse l'indipendenza sarebbe probabilmente necessario usare i missili per proteggere dagli sgozzamenti le gole della minoranza serba come oggi si proteggono quelle degli albanesi.

La guerra jugoslava è una scacchiera apparentemente caotica ma in realtà ordinatissima e manovrata con precisione da sapienti registi e programmatori; ogni pezzo sta fermo e si agita sanguinosamente a tempo debito. Ora è la volta del Kosovo, che dormicchiava quando erano di turno la Slavonia o la Bosnia. Di questa guerra il regime di Milosevic ha responsabilità gravissime, ma ce l'hanno pure il regime di Zagabria, alcuni leader musulmani e quelle potenze occidentali che hanno a suo tempo soffiato sul fuoco, naturalmente pensando - come ogni stupido apprendista stregone - di poterlo controllare.

Anche certi atteggiamenti iniziali del Vaticano o certi atteggiamenti, opposti e complementari, radicali hanno svolto un ruolo non sempre obiettivo nella creazione dell'immaginario collettivo della guerra jugoslava.

Gli uomini di Milosevic hanno commesso spaventose violenze, ma i serbi ne hanno anche subìte e hanno dovuto lasciare in gran numero terre che erano anche loro. Il mosaico balcanico è un crogiolo plurinazionale, che in questa plurinazionalità trova la sua unica identità possibile, sfigurata da ogni barbaro e fallimentare sogno di purezza etnica. Autolesivo come ogni dittatura, il regime di Milosevic ha mutilato la ricchezza culturale serba quando ha per esempio represso la multiculturalità della sua Vojvodina, che vantava - quando giravo lungo il Danubio - cinque lingue ufficiali.

D'altronde è impensabile che il Kosovo - o altre regioni europee in analoghe situazioni - debba avere una totale indipendenza politica e non si può chiederlo alla Serbia; in tutto il mondo esistono realtà analoghe e farle esplodere costa bagni di sangue. Chi è chiamato a informare e a testimoniare su questa tragedia non deve perdere la testa; deve controllare le notizie prima di diffonderle magari inebriandosi della loro sanguinolenta enfiagione; non ripetere a casaccio numeri di aguzzini e di vittime, come si fece con Ceausescu quando molti giornali parlarono di 70 mila morti a Timisoara, senza neanche chiedersi quanti abitanti avesse Timisoara, perché è più improbabile massacrare 70 mila persone a Monza che a Tokio. Ovviamente un numero minore di sgozzati non diminuisce l'infamia degli sgozzatori, così come, ad esempio, un milione di ebrei assassinati in meno non farebbe di Hitler un assassino meno atroce.

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Ma l'attenzione precisa ai fatti è una necessaria premessa di democrazia. Nel suo bel libro Maschere per un massacro Paolo Rumiz sfata molti luoghi comuni sulla guerra jugoslava - dall'odio etnico al retaggio di conflitti secolari alla contrapposizione culturale o religiosa - e mostra una realtà fetida di lotte interne anche ai singoli gruppi nazionali, torbidi avvicendamenti e rivalità di classi dirigenti, sordidi accordi fra nemici giurati come Milosevic e Tudjman pronti a spartirsi bottino e dominio a spese dei loro popoli, scontri feroci tra comunità diverse di uno stesso popolo insediatesi nelle stesse zone in epoche diverse, moventi di ruberia e rapina più forti degli idoli di razza.

Non perdere la testa e la memoria è obbligo di tutti e in primo luogo degli ex jugoslavi. Quando alcuni amici sloveni di Trieste mi dicono che la Jugoslavia titoista è stata per la Slovenia una pesante oppressione, chiedo loro perché lo dicano adesso e non l'abbiano detto allora, visto che potevano farlo vivendo in un Paese democratico come l'Italia, e perché semmai allora auspicassero - cosa che dal loro punto di vista comprendo - che Trieste diventasse jugoslava, mentre gli antifascisti italiani non desideravano che Lugano entrasse a far parte dell'Italia fascista.

Ritengo invece che, a quell'epoca di tensioni nazionali fra italiani e slavi a Trieste, la Jugoslavia titoista, anche con le sue ingiuste pretese, li abbia indirettamente protetti e che di questo dovrebbero esserle grati, benché contenti che abbia concluso il suo ciclo.

Un'altra volta un amico di Zagabria mi ha detto di aver respinto con sdegno alla Sorbona l'omaggio di un volume perché sulla busta era scritto "Zagabria, Jugoslavia"; era come scrivere - ha aggiunto - "Parigi, Germania", perché anche Parigi è stata per qualche tempo occupata dai tedeschi. Gli ho chiesto allora se la Croazia, a suo avviso, aveva vinto o perso la Seconda guerra mondiale: se essa si considera, pur nell'attuale forma del tutto diversa, in certo modo erede della Jugoslavia, l'ha vinta, mentre se si identifica solo con lo Stato ustascia e con la monarchia cui noi italiani abbiamo regalato per un paio di notti l'ultimo sovrano, l'ha persa come la Germania o l'Italia. Quando Pavic, uno scrittore serbo parvenu, ha esaltato la distruzione di Vukovar, non ho detto niente, perché se uno dice simili cose è disonorante anche solo ascoltarlo. Ma in Serbia esistono altri scrittori, esiste un'opposizione, intellettuale e no, decisa e aperta, spiritualmente libera, che sa distinguere la Serbia dal suo nefasto regime.

A parte gli impegni attuali, che vanno onorati, in futuro le scelte, giuste o sbagliate, dell'Italia non potranno essere valutate solo col criterio dell'allineamento a decisioni prese da altri Stati occidentali, come era necessario quando c'era il pericolo sovietico. Allora poteva essere opportuno turarsi il naso, come diceva Montanelli, perché la puzza è meglio di Stalin. Era necessario obbedire agli Stati Uniti, perché se si deve sce gliere fra due padroni si sceglie quello che non manda in Siberia.

Ma, passato questo pericolo, le cose cambiano; si possono aprire le finestre per ripulire l'aria e affermare, con franca fermezza, posizioni diverse da quella di altri Paesi amici, come a Sigonella fece Craxi, colpevole di molte cose ma non sospetto di tepidezza atlantica o di filocomunismo. La riconoscenza agli Stati Uniti, senza i quali l'Europa sarebbe nazista, è indelebile, ma riconoscenza non significa necessariamente acquiescenza. Purtroppo tutte le abitudini, diventano una seconda natura; quando si tengono a lungo le finestre tappate si finisce per amare il puzzo più dell'aria fresca e se la libido gubernandi, la voluttà di dominio, è molto diffusa, la libido adsectandi, come la chiamava Tacito, la voluttà di essere servi, lo è ancora di più.


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