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La guerra non e' mai santa

 

Filippo Gentiloni

 

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Questo articolo è apparso su "il manifesto"  del 28 Marzo 1999

Nella terra sconvolta dei Balcani le religioni celebrano insieme la loro potenza e la loro impotenza. Un destino tragico, e non è la prima volta. La loro potenza: si trovano in primo piano, determinano ancora le sorti dei popoli e degli stati. Sembra che l'impatto della secolarizzazione e della laicizzazione nella penisola balcanica non abbia avuto alcun peso. Un po' come nel Medio Oriente. La guerra assume i colori delle etnie e quindi delle religioni che alle etnie sono collegate. Potenza ma anche impotenza: i vari capi religiosi, ortodossi, musulmani, cattolici, invitano a deporre le armi, ma sembra che nessuno li ascolti. E' come se i missili Nato portassero impressi i segni cattolici e protestanti dei paesi di origine, mentre le armi serbe sono benedette dalle croci ortodosse dei patriarchi di Belgrado e Mosca.

Ancora, dunque, una guerra "santa" quella che si sta combattendo al di là delle sponde dell'Adriatico? Si e no. Non nel senso delle crociate di una volta: oggi la componente musulmana è più lontana e non interviene come quando, pochi anni fa, si è combattuto in Bosnia. Eppure si tratta ancora di una guerra santa, se si considera quanto è stretto il legame fra etnia e religione, quanto la resistenza serba di Milosevic faccia appello all'anima serba, quell'anima che è oggi più che mai legata all'ortodossia. Le rispondono, senza alcuna esitazione, le chiese "sorelle", a cominciare da quella di Mosca. I missili della Nato sono per loro i missili dell'odiato Occidente, legato agli Usa e al demonio. Mentre uccidono in Serbia, i missili Nato ricompattano il complesso mondo exsovietico che era rimasto sconvolto dal crollo del muro di Berlino e indeboliscono le opposizioni interne. Da Mosca a Belgrado, a Pristina a Skopje.

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E' una vecchia storia, quella del legame fra etnia, e religione, passando per la mediazione della lingua, della cultura, dell'etica. Un legame che, da una parte, rafforza la fede religiosa, dandole carne e sangue e piedi per terra, la terra della politica. Dall'altra il legame rafforza la politica degli stati e dei governi: li legittima, li sacralizza, innalza la croce sulle bandiere e sui missili. All'insegna della croce la gente morirà, forse, più volentieri.

Ma non dovevano, le varie religioni, predicare e anche rafforzare la pace? E il messaggio delle varie fedi non doveva essere prima di tutto un messaggio di fratellanza universale, di fine delle differenze e delle ostilità? Così in teoria, ma non sempre in pratica. Lo constatiamo ancora una volta in questi tragici giorni di guerra.

La chiesa ortodossa, la più diretta interessata, continua a invitare, per bocca dei suoi più elevati rappresentanti, alla pace. Un invito certamente sincero, ma non del tutto convincente, se è vero che l'invito ripete la giustizia della causa serba e l'ingiustizia dell'aggressione avversaria. Le parole del Patriarca di Belgrado non sono, quindi, molto diverse da quelle di Milosevic. I fedeli ortodossi si sentiranno giustificati in una guerra che non è lontana dal potersi dire "santa". Tanto più che tutti i fratelli ortodossi si schierano accanto al patriarca di Belgrado mentre benedicono le vittime di una guerra che avrebbero soltanto subito. Sulle aggressioni serbe al Kossovo e sulla legittimità delle rivendicazioni di quella popolazione (a grande maggioranza musulmana) nemmeno una parola. La legge della nazione e dell'etnia prevale, ancora una volta, su quella del vangelo.

Molto più decisa e precisa la posizione dei protestanti italiani (non sono molti i protestanti nei Balcani): "Di fronte alla crisi balcanica, convinti che la guerra non risolva i conflitti ma che sia solo capace di produrre distruzioni, sofferenze, morte, auspichiamo che sia colto ogni più piccolo spiraglio di possibilità di dialogo tra le parti coinvolte nel conflitto. Preghiamo il Signore affinché l'Europa sappia mobilitarsi a favore della pacifica convivenza fra i popoli". Parole che, se non a Belgrado, dovrebbero trovare un'eco a Bruxelles.

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Più complessa la posizione cattolica. Anche questa volta il Vaticano si è pronunciato decisamente per la pace, così come aveva fatto al tempo della guerra del Golfo. Allora la sua presa di posizione decisamente pacifista aveva fatto, forse, più scalpore, sia perché era la prima volta, sia perché il distacco dalla egemonia Usa rappresentava una novità più clamorosa. Anche in questi giorni il Vaticano ha ripetuto la sua tesi tradizionale: senza neppure entrare nel merito delle questioni - ha ragione il Kossovo o la Serbia? - si può affermare con sicurezza che la guerra non è uno strumento adatto per la soluzione dei problemi. Produce sempre risultati più negativi che positivi. Una tesi suffragata dalla storia (anche se qualcuno potrebbe obiettare che l'intervento armato di qualche anno fa in Bosnia ha prodotto, nonostante tutto, buoni effetti). Il Vaticano in questi interventi, può anche permettersi di tacere sulla delicata questione degli eventuali possibili o impossibili interventi positivi non bellici. Una posizione, dunque, non priva di debolezze.

Comunque anche il Vaticano, nonostante il suo peso internazionale, resta inascoltato. Come mai? La tragedia di questi giorni rimane, tutto sommato, lontana dalle sponde del Tevere: ancora una volta, nonostante le folle che applaudono Wojtyla, Roma deve segnare un'altra sconfitta. Se si preferisce, un'altra assenza da un luogo cruciale della storia e non lontano. Non è difficile elencare almeno alcuni fra i motivi dell'assenza. Le difficoltà con le chiese ortodosse, prima di tutto. Mosca (e quindi Belgrado) non ama le interferenze romane, troppo vicine alle armi delle potenze occidentali. Finito il comunismo dei paesi dell'est, il papa di Roma rischia di apparire come una sorta di cappellano della Casa Bianca e, quindi di sostenitore dei suoi missili.

Lo stesso "pacifismo" di Roma, d'altronde, è sospetto. Anche il cattolicesimo, come tutto il cristianesimo e tutte le religioni, non si trova a suo agio in quella delicatissima terra di confine dove si giocano la vita e la morte. Una terra popolata di problemi tragici, da quello della pena di morte (la voce di Roma è inascoltata dagli Usa alla Cina ai paesi arabi) a quello dell'aborto e della contraccezione: una terra nella quale gli stessi cattolici in larga misura sono imbarazzati, fino alla disobbedienza. Per non parlare dei cattolici della penisola balcanica. Il triste ricordo degli orrori compiuti in Croazia dai cattolici nazisti e fascisti ustascia al tempo della II guerra mondiale non è lontano. Roma non li ha chiaramente condannati; anzi ha esaltato, addirittura con la "beatificazione", il cardinale di Zagabria Stepinac fortemente indiziato di collaborazionismo.

Forse anche per queste ambiguità la voce di Roma a favore della pace non è ascoltata. Le svariate forme di pacifismo di fronte alla crisi dei Balcani sono in crisi né la voce del Vaticano sembra tale da restituire energia a chi è imbarazzato fra Scilla e Cariddi, fra i massacri di una minoranza etnica e i missili che vorrebbero difenderla uccidendo a loro volta. E tutti invocano il Dio della propria etnia chiamandolo Dio della pace. Una bestemmia che dura da secoli, attraversando tutto il nostro occidente.

 


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