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La lezione di Fazio

 

Marcello De Cecco

 

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Questo articolo e’ apparso sul quotidiano "La Repubblica" di lunedì 1 marzo 1999

 

"Si può portare un cavallo al fiume, ma non si può costringerlo a bere". Il vecchio adagio degli economisti torna di moda ogni volta che l'economia langue. L' opinione degli esperti allora si divide tra i partigiani dell' allentamento ulteriore della politica monetaria e coloro che, richiamando l'immagine del cavallo, suggeriscono che di altri, e più strutturali, interventi, l'economia ha bisogno per riportarsi ad un tono capace di creare una quantità sufficiente di occupazione.

L'immagine del cavallo al fiume aleggia sulla audizione del governatore Fazio la scorsa settimana alla commissione Bilancio della Camera. Lo stesso giorno, per una curiosa coincidenza, il governatore Greenspan è andato a presentare al Congresso il suo Rapporto bimestrale, come gli impone la Legge Humprey-Hawkins. Ma la sua audizione ha evocato tutt'altra immagine: quella di un Greenspan intento a tirare per la coda un cavallo, l'economia americana, che non ne vuol sapere di smettere di bere. Lo tira per la coda, il governatore, ma è anche abbastanza onesto da ammettere di avercelo portato proprio lui al fiume, lo scorso ottobre, e di averlo incitato a bere con tre successivi ribassi del tasso di interesse che non si giustificavano con la scarsa sete del nobile animale, ma con la paura che fosse contagiato da un grave male di provenienza estera, la crisi finanziaria.

Potrebbe, Greenspan, prendere il cavallo per la cavezza e allontanarlo dal fiume, invece di ostinarsi a tirarlo per la coda. Ma non vuole farlo per tema che un'azione decisa sortisca un effetto troppo duraturo, un ribasso della Borsa e del ciclo che influisca negativamente sulle elezioni presidenziali del novembre Duemila. Ma sono problemi da ricchi. Torniamo agli affanni del dottor Fazio, che deve spiegare, come i suoi colleghi continentali, perché un ulteriore ribasso dei tassi non sortirebbe gli effetti desiderati su crescita e occupazione. I ragionamenti sono i soliti: la principale causa della disoccupazione è strutturale, deriva dalla errata collocazione dell'offerta rispetto alla domanda di lavoro, e dalla supposta mancanza di flessibilità della forza lavoro ufficiale, che ha come fenomeno speculare la totale flessibilità della forza lavoro illegale. Il fatto che i ragionamenti siano ripetuti non li rende necessariamente vuoti di contenuto. La loro ripetizione potrebbe essere solo il segno che da parte di chi li ascolta non si può o non si vuole dar mano a quelle misure che comincerebbero veramente a cambiare le cose.

Non c'è alcun dubbio che una decisa azione di ulteriore allentamento dei tassi di interesse stimolerebbe in qualche misura produzione e occupazione. Ma è altrettanto certo che stimolerebbe in misura superiore le importazioni. Il guaio è che la situazione italiana non è molto simile a quella degli altri paesi dell'Unione Monetaria. Lì predominano i disoccupati veri, gente che ha perduto il posto per il ridimensionamento o la chiusura della propria azienda. Ogni mese ad essi arriva un contributo di disoccupazione alto quasi quanto il salario perduto, e a carico delle finanze statali. Da noi, la razionalizzazione ha avuto luogo nel primo quinquennio degli anni Ottanta e poi negli anni orribili tra il 1992 e il 1994. Ma non ha creato disoccupati, bensì pensionati di anzianità, che si sono quasi tutti rimessi sul mercato della occupazione illegale. E, in nessuna altra parte di Europa, sussistono oggi le condizioni di piena occupazione che si registrano nell'Italia centrale e nel Nordest.

Il problema italiano è dunque quello della inoccupazione dei giovani ai livelli che il loro grado di occupazione li porta a richiedere. Dappertutto, resta il fenomeno della piena occupazione dei "maschi nel fiore dell'età". Chi era a venticinque anni ufficialmente inoccupato, risulta, cinque anni dopo, ufficialmente occupato. Rilevai questa peculiarità quasi trent'anni fa, ma non seppi spiegarla; essa persiste, accompagnata da un'altra peculiarità, quella della brevità della carriera ufficiale di lavoro di tutti gli occupati. Dalle statistiche dell'Inps risulta un numero esorbitante di pensionati tra i quarantacinque e i sessant'anni. Ma la spiegazione di questo fenomeno è assai chiara: il pensionamento anticipato è stato il modo italiano di risolvere gli enormi problemi della razionalizzazione produttiva delle imprese. Resta da spiegare la inoccupazione giovanile, che si manifesta in particolare nel Mezzogiorno e tra le giovani donne diplomate.

Avanzo la ipotesi che il nostro mercato del lavoro sia capace di esprimere solo una domanda di "colletti blu", mentre i formatori pubblici si sono impegnati, da decenni, a sfornare figure di diplomati e specialisti dei quali uno sguardo a sistemi economici più avanzati del nostro faceva supporre ci sarebbe stata necessità. Invece il nostro sistema produttivo si è rattrappito su settori che non hanno alcun bisogno di quelle figure professionali che pure sono richieste negli altri paesi europei. Abbiamo dunque sperato, come paese, di andare in una direzione di maggior sviluppo, e ci siamo invece ritrovati a far fruttare, sempre più a fatica, quello che già sapevamo fare. A maggior prova, si studino le caratteristiche degli stranieri che trovano occupazione, legale o illegale, nel nostro paese. Dei milioni di tecnici e ingegneri emigrati dopo il crollo della Cortina di Ferro dai paesi del Socialismo Reale, non uno ha trovato impiego, al suo livello, da noi. Sono andati in America, a fare la fortuna delle imprese di informatica, del settore di ingegneria finanziaria, di quello degli armamenti. In Israele con quegli immigrati si è costruito un intero settore di produzioni a tecnologica avanzata che prima non esisteva.

Ma da noi sono arrivati due milioni e passa di stranieri, tra legali e illegali. Se si escludono delinquenti, prostitute e lavatori di vetri, essi sono occupati negli strati più bassi dell'industria e dei servizi. Segno evidente che il sistema economico italiano di essi, e non di altri, ha bisogno. E come potrebbe essere diversamente dato che non riesce ad assorbire nemmeno i periti industriali e commerciali che diploma, e che impiega quei pochissimi ingegneri prodotti ogni anno dalle nostre università a salari ridicoli se confrontati con quelli inglesi, francesi e tedeschi, e vergognosi rispetto a quelli offerti ai giovani ingegneri americani. E parlo di paesi nei quali la vita costa quanto, o meno che, in Italia. Si potrebbe fare d'altronde un esperimento concordato coi sindacati: chiedere ai giovani di rinunciare alla protezione del posto di lavoro contro corposi aumenti salariali. Far funzionare, in altre parole, il mercato. Temo che i giovani aderirebbero con entusiasmo, ma che dalla parte dell'offerta non verrebbe quasi nulla. I nostri imprenditori sono in linee produttive nelle quali quei livelli salariali e quei tipi di figure professionali semplicemente non esistono, o non esistono più. Possono dunque permettersi di offrire solo salari assai bassi, tranne per operai e di qualche tecnico di cui solo ciclicamente abbisognano, e che pretenderebbero di trovare, belli e sfornati da scuole di formazione la cui attività dovrebbe oscillare di conserva al ciclo economico.

Ha, dunque ragione il dottor Fazio a parlare di rigidità strutturali, che renderebbero assai fiacca la risposta del nostro sistema produttivo a un ulteriore declino dei tassi di interesse. Ma, come forse è apparso chiaro dal mio discorso di oggi, le rigidità strutturali che egli descrive sono solo parzialmente simili a quelle che ho cercato di descrivere io in queste righe. E le differenze rilevano assai più delle somiglianze. Ma la sfiducia che gli italiani hanno nel sistema che essi stessi si sono costruiti in questi ultimi decenni si rivela in un altro dato citato da Fazio: quei quarantacinquemila miliardi che mancano alla conta della nostra bilancia dei pagamenti del 1998, che sono rimasti fuori d'Italia, parcheggiati in banche straniere. Sono loro a darci un'immagine del nostro futuro argentina o brasiliana, invece che tedesca o americana. Ha fatto bene il governatore a evocarla: essa deve essere per noi come l'ombra di Banquo, come la statua del Commendatore. Deve allarmarci ma possiamo ancora, con assennato agire, cancellarla. C'è ancora tempo, ci sono ancora risorse, per impostare una strategia che ci trattenga nel numero dei paesi civili.

 

 

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