Lotta di classe “high tech”
Valentina Furlanetto
Aritcoli collegati
La
rivincita degli invisibili
Pane, rose e dignità
Un mondo globalizzato e disuguale
Lotta di classe “high tech”
La formazione delle classi sociali
nell'Europa contemporanea
Chi è Heinz-Gerhard Haupt
Il patto era: duro lavoro e orari impossibili all’insegna della
massima flessibilità in cambio di stock option che si
sarebbero trasformate in breve in gettoni d’oro. Una cosa è certa:
delle tre previsioni, le prime due si sono avverate. La terza la
stanno ancora aspettando e forse non arriverà mai. Il mito delle
dot.com, le aziende Internet, si è incrinato e il miraggio della
ricchezza per tutti i dipendenti, grazie alle stock option
distribuite come figurine, vacilla. Ma i dipendenti delle dot.com,
almeno quelle d'oltreoceano, si stanno organizzando, al punto che
qualcuno li ha già soprannominati dot communist.
Ma andiamo con ordine. Sempre più aziende Web chiudono, licenziano,
abbassano le paghe. Le stock option diventano carta straccia. E
la new economy sembra sempre più simile alla old. Con
uno svantaggio per chi aveva creduto alla magnifiche sorti e
progressive della nuova economia: almeno, nella vecchia c’erano le
vecchie union, i sindacati, a difendere salari e posti di
lavoro, in quella nuova no. Ma, in fondo, finché tutti assumevano,
strapagavano e promettevano l’Eldorado perché preoccuparsi? E’
più o meno da aprile scorso che la situazione è cambiata e si è
scoperto che - udite, udite - nella new economy si licenzia
come e più che nella old, almeno negli Usa.

Facciamo quattro conti (solo negli ultimi due mesi e solo negli Stati
Uniti). Il primo dicembre 28 dipendenti di Etown
, sito di prodotti elettronici di consumo, si sono ritrovati all’improvviso
disoccupati. Il 6 dicembre Women.com
ha annunciato il licenziamento di 85 persone, il 25 per cento della
sua forza lavoro. Il 20 novembre AllAdvantage
, uno dei siti pay-to-surf che offriva denaro a chi navigava sul suo
sito, ha licenziato 150 persone, pari al 35 per cento del totale del
suo personale.
Il 17 novembre è stata la volta di The
Street : il sito di notizie finanziarie ha chiuso la filiale
inglese e ristrutturato quella Usa, il che ha significato il
licenziamento per 100 persone tra la Gran Bretagna e l’America. Il
16 novembre Britannica.com, la
divisione Internet dell’enciclopedia più prestigiosa del mondo, ha
licenziato 75 persone, il 16 per cento del suo staff. Il primo di
novembre Beautyjungle , sito
di vendita online di prodotti di bellezza, ha annunciato il
licenziamento di 40 suoi dipendenti (il 60 per cento del suo
personale).
Il 2 novembre è la rivincita delle donne: anche il sito di prodotti e
servizi per uomini The Man
licenzia. Costretto a chiudere, ha mandato a casa (salvo mettere
online i curricula dei suoi dipendenti offrendo per tutti “ottime
referenze”) tutto lo staff, una ventina di persone. Il 3 novembre Priceline
, sito che si occupa di trovare i prezzi più bassi per prodotti e
servizi venduti in Rete, ha annunciato il licenziamento di 87 persone,
il 16 per cento della forza lavoro. Il 30 ottobre è la volta del “paradiso
degli animali online”, Petopia
, che ha annunciato il licenziamento di 120 persone, pari al 60 per
cento circa del totale dei suoi dipendenti.
All’inizio di ottobre Eve.com,
altro sito al femminile rivale di Beautyjungle, ha annunciato, assieme
alla chiusura, il taglio di tutti i suoi 164 dipendenti. Il 24 ottobre
Stamps, leader dei servizi postali
online, ha annunciato che avrebbe lasciato a casa 240 persone. Fatti
due conti, sono 1109 persone rimaste senza lavoro in meno di due mesi
e mezzo. E questi sono solo i casi più eclatanti riportati dalla
stampa.
Secondo l’agenzia Challanger, Gray & Christmas, che si occupa di
collocamento e consulenza, infatti, i tagli nelle aziende dot.com sono
cresciuti ad ottobre 2000 del 18 per cento, raggiungendo quota 5.677.
Un dato preoccupante se si pensa che nel mese di dicembre dello scorso
anno i licenziamenti in queste aziende erano stati solo 301. Non
bastasse, lo stesso studio prevede altri tagli nei prossimi mesi.
Vediamo dove: su un totale di 22.267 posti di lavoro cancellati nelle
dot.com tra il dicembre 1999 e l’ottobre 2000, il 36 per cento è
stato nelle società di servizi, il 24 per cento nei siti di
e-commerce, il 10 per cento in quelli di salute e fitness, l’8 per
cento nei portali, il 7 per cento nei siti d’intrattenimento e il 15
per cento in altri settori.
La novità è che ora i dipendenti delle dot.com stanno passando al
contrattacco. Quelli di Etown , ad
esempio, sono scesi in piazza per manifestare. Una vera e propria
protesta con picchetti e slogan, molto old e poco new.
Tanto che la rivista online Usa Salon
ha dedicato alla manifestazione un pezzo dal titolo “The real
dot-communists stand up”, “la levata dei veri dot-comunisti”. E
i dipendenti di Amazon, invece, sia quelli della sede americana che
delle "filiali" tedesca e francese della libreria online
presieduta da Jeff Bezos, hanno deciso, senza aspettare che i tempi si
facciano duri, di scioperare contro le cattive condizioni di lavoro.
Ad iniziare il conflitto era stata WashTech, una delle più importanti
organizzazioni Usa per la tutela dei diritti dei lavoratori delle
aziende hi-tech, che aveva distribuito ai dipendenti del quartier
generale dell'azienda centinaia di moduli con la richiesta di
sottoscrivere il Day2@Amazon.com, una sorta di sindacato. A questa
iniziativa hanno fatto seguito quelle di altre due associazioni che
operano nel mondo della tutela del lavoro, la United Food and
Commercial Workers Union e la Prewitt Organizing Fund, intenzionate a
sindacalizzare i 5.000 lavoratori sparsi per i centri di distribuzione
di Amazon negli Usa.
Jeff Bezos, fondatore e leader di Amazon, ha minimizzato. Secondo il
capo indiscusso della più famosa libreria in Rete, infatti, l'idea di
un sindacato dei suoi lavoratori è in contraddizione con il fatto che
questi siano in possesso delle stock option e di conseguenza
azionisti dell'azienda alla quale intendono contrapporsi. Ma Carl
Hall, giornalista scientifico del San Francisco Chronicle che
appartiene al Newspaper Guild, un sindacato che unisce i giornalisti
online, va giù duro: “In tutte le dot.com si è sottopagati, si
lavora troppo, non è prevista un’assicurazione sanitaria né alcun
tipo di compenso in caso di licenziamento”.
Per le dot.com italiane, invece, resiste l’entusiasmo. Le stock
option profumano ancora di promesse, la flessibilità in Rete
nelle “no sleeping company” del Nord-Est è un imperativo
categorico, l’onda d’urto deve ancora arrivare. Chi protesta è un
retrogrado, un old, che non capisce il new. Eppure per
qualche categoria qualcosa si muove. Ad esempio - ed è attualità -
uno dei principali nodi di scontro fra la Federazione Nazionale della
Stampa e gli editori nella discussione sul contratto nazionale dei
giornalisti ruota appunto attorno alle condizioni di molti giornalisti
online. Pagati e inquadrati come metalmeccanici o
programmatori-registi e discriminati rispetto a chi lavora per
l'informazione su carta, in Tv e nelle radio, anche i giornalisti
online hanno iniziato a scioperare. Ora si attende il sindacato dei
Web master e dei Web developer.
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