Un mondo globalizzato e disuguale
Luciano Gallino con Antonia Anania
Aritcoli collegati
La
rivincita degli invisibili
Pane, rose e dignità
Un mondo globalizzato e disuguale
Lotta di classe “high tech”
La formazione delle classi sociali
nell'Europa contemporanea
Chi è Heinz-Gerhard Haupt
Che cos’è la globalizzazione? Per capirne qualcosa di più abbiamo
interpellato Luciano Gallino, professore ordinario di Sociologia all’Università
di Torino. Globalizzazione e disuguaglianze (Laterza) è il titolo del
suo nuovo libro che sta riscuotendo un enorme successo di vendite, al
punto che dopo due mesi dall'uscita è già alla seconda edizione.
Il testo riprende, modifica e aggiorna temi di cui l’autore si è
più volte interessato in saggi come Disuguaglianze ed equità in
Europa (Laterza, 1993), Se tre miliardi vi sembran pochi (Torino,
1998) e nelle voci Mercato e società e Stratificazione sociale dell’Enciclopedia
del Novecento vol.XI, Supplemento II (Istituto della Enciclopedia
Italiana,1998).

Professor Gallino, che cos’è esattamente la globalizzazione e
che conseguenze comporta?
La globalizzazione può essere intesa come un forte accrescimento
delle interdipendenze economiche di gran parte dei Paesi del mondo.
Bisogna distinguere tra due forme di globalizzazione: quella più
avanzata è la finanziaria. Dal punto di vista finanziario, grazie
alle tecnologie della comunicazione, le interdipendenze tra tutti i
Paesi sono diventate strettissime, tanto da consentire il
trasferimento in pochi secondi di enormi capitali da un Continente all’altro.
L’informazione inoltre non ha limiti, quindi la crisi della Borsa di
un Paese si riflette, talvolta addirittura nel giro di pochi minuti,
sulle Borse degli altri Paesi. Bisogna dunque sottolineare che la
tecnologia - Internet, il Web - rendendo fulminei i contatti e la
possibilità di trasferimento di capitali, hanno reso l’economia
finanziaria del mondo una rete di nodi strettamente dipendenti tra di
loro.
L’altra forma di globalizzazione è l’interdipendenza dell’economia
reale, che vuol dire scambio di merci e di servizi, e non soltanto di
titoli o valute. La globalizzazione dell’economia reale è meno
avanzata di quella finanziaria ma sicuramente ha fatto passi da
gigante negli ultimi anni. Quello che si produce, come si produce, il
prezzo al quale si produce un determinato bene o servizio in un
determinato Paese, ha riflessi e conseguenze immediate su moltissimi
altri Paesi.
Faccio un esempio. Fino a dieci anni fa nessuno pensava all’India
come a una nazione in cui l’informatica fosse talmente sviluppata da
poter mettere in crisi il mondo intero. Oggi è così, perché l’India
ha più di un milione di ingegneri di software e di programmatori che
se putacaso entrassero tutti in sciopero, dall’oggi al domani
metterebbero in ginocchio gli Stati Uniti, l’Europa, il Giappone,
perché una parte importante della produzione e della revisione dei
programmi usati nei Paesi sviluppati avviene precisamente in India. E’
nata quindi una forma di interdipendenza tra Paesi che prima
interagivano in modo molto più blando e indiretto.
In occasione dell’uscita del film Bread and Roses (vedi
articoli collegati), il regista inglese Ken Loach ha dichiarato che
“globalizzazione significa che un datore di lavoro può trasferire i
propri capitali dalla tua città a quella di qualcun altro, il quale
ti soffia il posto e tu ti ritrovi improvvisamente per strada”. Lei
è d’accordo?
Nell’insieme sì, perché è esattamente ciò che avviene.
Interdipendenza significa appunto che mentre prima spostare uno
stabilimento era difficile e raro, adesso il trasferimento di
capitali, impianti, intere officine da un Paese all’altro è facile
e produce effetti del genere di cui parla Ken Loach.
Bisogna tenere però anche presente che quei trasferimenti, che hanno
conseguenze spesso terribili per molte persone, hanno anche delle
conseguenze positive per altre: Paesi ancora quarant’anni fa
fortemente sottosviluppati, come la Corea del Sud, la Thailandia, la
Malesia, o anche molti Paesi dell’America Latina, attraverso questa
interdipendenza degli scambi hanno potuto acquisire tecnologie di
prima qualità, metterle all’opera, vendere i loro prodotti, e hanno
visto così moltiplicarsi il loro reddito reale per cinque o dieci
volte nell’arco di venti-trent’anni.
Come vede la globalizzazione rapportata alla new economy?
La new economy è stato il mito di un’estate, mi pare che sia
durato tra i tre e i sei mesi, adesso si incomincia già a parlare di
new new economy. La new economy era l’idea che tutto
si potesse risolvere a colpi di clic e non soltanto nell’economia
finanziaria, dove effettivamente con un clic sposto un miliardo di
dollari, ma anche nell’economia reale, dove invece con un clic non
sposto un bel niente: imposto un ordine, trasmetto un comando ma poi
ci vuole qualcuno che costruisca l’oggetto ordinato, lo impacchetti,
lo carichi sul furgoncino e il furgoncino deve andare in giro per il
Paese o per il mondo. Insomma, come qualcuno ha detto, nella new
economy c’è un po’ di clic ma soprattutto ci sono molti brick,
cioè molti mattoni, molta calcina che serve a costruire i magazzini,
le strade e tutte le cose estremamente reali che poi si devono
smistare sotto il controllo delle reti delle telecomunicazioni.
Quali sono invece le disuguaglianze di cui si parla nel libro?
Sono disuguaglianze sia tra strati o fasce di popolazione del
mondo, e quindi disuguaglianze inter-nazionali, sia disuguaglianze all’interno
dei singoli Paesi. I dati ufficiali della Banca Mondiale, delle
Nazioni Unite, e di molte istituzioni transnazionali dicono che la
disuguaglianza tra il 20% più ricco della popolazione del mondo - in
pratica prevalentemente la popolazione di Europa e Stati Uniti - e il
20% della popolazione più povera - in gran parte concentrata tra
Africa, India e Sud-est asiatico - se negli Anni Sessanta era di
trenta a uno, adesso sta arrivando a novanta a uno. Questo significa
che il 20% più ricco è novanta volte più ricco del 20% più povero.
Sono disuguaglianze abissali perché il 20% più povero non dispone di
trenta, quaranta, cinquanta dollari per vivere, ma di meno di due
dollari al giorno, a parità di potere d’acquisto, dunque si tratta
veramente di miseria assoluta. La stessa Banca mondiale, che è una
delle maggiori glorificatrici della globalizzazione, nel suo ultimo
rapporto sulla povertà afferma che molti progressi sono stati
compiuti da parecchi Stati, ma che non si può dimenticare che nel
mondo 2,8 miliardi di persone vivono nelle condizioni più abbiette.
Dovendo scegliere un tema, nel mio libro ho parlato soprattutto di
disuguaglianze di reddito ma vi sono anche altri tipi di disparità:
nell’accesso all’acqua potabile, all’istruzione, anche nell’accesso
a Internet, che è per il 93% concentrato nei Paesi sviluppati e solo
per l’1% nei Paesi sottosviluppati.
Perché “nel mondo globalizzato le disuguaglianze crescono”,
per citare il titolo di un sottoparagrafo del suo libro?
Su questo argomento si scontrano varie scuole di pensiero, perché
molti economisti e le stesse organizzazioni internazionali tendono a
guardare agli aspetti negativi della globalizzazione come a dei
residuati: le cose sono progredite e migliorate però qualcuno è
rimasto indietro. E’ lo stesso atteggiamento di chi in una corsa si
accorge che qualcuno dei partecipanti arranca, e sente la necessità
di aiutarlo in qualche modo.
Un’interpretazione differente, che è anche la mia, vede invece che
lo stesso sistema produce contemporaneamente notevoli e significativi
progressi, che sono innegabili - ad esempio grandi incrementi nella
speranza di vita - ma anche immense sacche di povertà e grandissima
disuguaglianza.
Ci sono poi disuguaglianze che seguono lo stesso percorso all’interno
dei vari Paesi. Succede che gli Stati Uniti, Paese leader della
globalizzazione - anche se più in casa d’altri che nella propria,
visto che non è poi molto globalizzato dal punto di vista dell’economia
reale - ha conosciuto al suo interno un fortissimo aumento delle
disuguaglianze. L’80% della popolazione americana è oggi in
condizioni pari o persino migliori rispetto a 25 anni fa, mentre il
restante 20% ha enormemente accresciuto il proprio reddito e le
proprie ricchezze; le due cose sono interdipendenti perché se la
distribuzione del reddito fosse stata più egualitaria, i più poveri
avrebbero oggi un po’ di più e il 20% dei ricchi avrebbe parecchio
di meno.

Sono questi gli "effetti perversi" della globalizzazione?
Sì, in sociologia gli effetti perversi sono quelli che nessuno
aveva voluto e previsto e che però accadono perché non si è
studiato abbastanza accuratamente il funzionamento della macchina.
Questo sta accadendo in tutte le parti del mondo, anche in Cina, che
è un caso emblematico, visto che le differenze tra le cosiddette tre
Cine si stanno enormemente ampliando. Succede non semplicemente
perché i contadini all’interno sono rimasti fermi con i loro buoi e
i laghetti in cui coltivano le trote, mentre le zone costiere sono
andate sviluppandosi grazie all’arrivo di capitali, ma perché le
zone interne sono state disastrate dall’aumento dei prezzi, dalla
corsa insensata verso le città, dalle nuove imposizioni fiscali. In
altre parole il sistema che ha prodotto ricchezza sulla costa ha
peggiorato notevolmente la povertà delle zone interne del Paese, e
così è avvenuto in molti altri Paesi come l' India o il Brasile.
Che cos’è la “global governance”?
Dinanzi alle gravi disuguaglianze, 5, 6 anni fa, le Nazioni Unite
tirarono fuori con un grande rapporto l’idea di una “global
governance”, cioè l’idea che non si può pensare di sanare certe
storture, certe gravi disuguaglianze di salute, istruzione, speranza
di vita, lasciandole in balia dell’automatismo del mercato. La
globalizzazione deve’essere "governata" - è il concetto
di“governance”, appunto - che non significa istituire un’altra
organizzazione internazionale, ma operare mediante accordi, intese e
alleanze multilaterali e a vari livelli - statale, regionale
(intendendo per regione l’Europa, Stati Uniti, L’Asia Orientale) -
per sviluppare le capacità che ci sono nei vari Paesi e limitare o
annullare i danni per quanti vengono spinti giù dal carro della
globalizzazione.
Come si prospetta il futuro?
Ritengo, come ho scritto nel mio libro, che siamo quasi arrivati a un
punto di non ritorno: sarebbe indispensabile avviare al più presto
forme di “governance” che permettano veramente di guidare e
orientare in modo non dispotico e autoritario, ma con procedure
democratiche, molti aspetti della globalizzazione, cominciando a
intaccare le disuguaglianze, cercando di ridurle, perché sono la
fonte di una quantità di problemi che nel giro di qualche anno
possono diventare esclusivi.
Per esempio le immigrazioni ormai incontrollate alle quali stiamo
assistendo sono dovute al fatto che se io guadagno 90 per fare il tuo
stesso lavoro e tu stai nel Madagascar, probabilmente a un certo punto
prendi una barca e vieni in Italia, o in Svizzera, perché il
confronto di semidisuguaglianze diventa incontenibile. Dalla rabbia e
dalla frustrazione nascono i flussi di emigrazione, e poi non ha
nessun senso parlare di clandestinità o regolarità, che sono
amenità del decennio scorso.
E così gli immigrati vengono sfruttati indiscriminatamente.
Un altro aspetto sgradevole della globalizzazione è proprio la forte
riduzione della tutela sindacale accompagnata dalla forte contrazione
del diritto del lavoro. I cosiddetti lavori flessibili possono
semplicemente essere definiti come i lavori meno tutelati dal diritto
elaborato nel corso del XX secolo.
Perché c’è poca tutela con la globalizzazione?
Perché le imprese hanno fretta, debbono produrre sempre più
rapidamente, innovare continuamente, ridurre il costo del lavoro:
migliaia di lavoratori nel mondo guadagnano dieci, quindici, venti
volte meno, e ogni tutela viene spinta verso il basso. Noi abbiamo
osservato ad esempio un forte aumento degli incidenti sul lavoro, a
cominciare da quelli mortali che sono adesso ben quattro al giorno -
200 l’anno - più un milione di incidenti gravi e invalidanti.
Questo è un altro effetto perverso della globalizzazione, perché il
costruttore edile preme sugli operai, sui muratori, sui carpentieri,
sugli addetti a torcere i ferri, trascurando ogni misura di sicurezza,
perché non c’è tempo e un’impresa non può passare tre mesi ad
insegnare ai suoi operai come si mettono la cintura, il casco, le
bretelle, i guanti. Appena assumono uno, lo buttano sul lavoro, e
magari un paio di giorni dopo quello è morto.
Dunque la velocità è sicuramente un nemico della tutela perché
induce a trascurare sia norme giuridiche sia misure passive di
sicurezza, come badare a quello che si fa in presenza di ambienti
pericolosi o di sostanze chimiche, come cautelarsi contro il rischio
di cadute.
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