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La rivincita degli invisibili



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Ken Loach si è schierato dalla parte dei più deboli fin dai suoi esordi, all'epoca del Free Cinema inglese, quando con film come Poor Cow ('67) e Family Life ('71) denunciava l'abbrutimento nel quale viveva la classe povera inglese. Dopo una lunga parentesi televisiva (più imposta dal mercato che voluta dal regista), Loach è tornato al grande schermo con "commedie proletarie" come Riff Raff ('91) e Piovono pietre ('93) e con film drammatici di grande impegno politico come Ladybird, Ladybird ('94), che si scagliava contro l'Inghilterra tatcheriana e il degrado del sistema di assistenza sociale.


Con Terra e libertà ('95), ambientato in Spagna all'epoca della guerra civile, e La canzone di Carla ('96), che racconta il conflitto in Nicaragua attraverso gli occhi di un'espatriata, Loach usciva dalle frontiere britanniche e si avvicinava alla cultura ispanica. Nel '98 tornava a casa per girare il bellissimo My name is Joe, che ha vinto il British Independent Film Award come miglior film, miglior regia e migliore sceneggiatura (il protagonista, Peter Mullan, ha conquistato invece il palmares come miglior attore al festival di Cannes).

Con Bread and Roses, appena uscito in Italia e già in cima al box office (alla faccia dei filmoni di Natale), è quasi una summa del passato cinematografico di Loach, in quanto unisce all'impegno politico e sociale l'ambiente ispanico: Bread and roses (vedi recensione) racconta infatti la battaglia sindacale di un gruppo di addetti alle pulizie sudamericani a Los Angeles. E' la prima volta del regista inglese negli Stati Uniti, e lui è come al solito molto esplicito nel raccontare le contraddizioni della Terra delle opportunità.

"Si dice che l'America sia il paese dell'individuo, ma non è vero", attacca il regista. "E' il paese della burocrazia, e la gente ne è terrorizzata: sono convinti che se non seguono alla lettera le regole verranno severamente puniti. E hanno ragione. Mentre giravamo la scena di una dimostrazione sindacale davanti a un grattacielo di Los Angeles la polizia ci ha intimato di smettere. Noi abbiamo mostrato loro un regolare permesso, ma sono stati irremovibili. Ero sul punto di mandarli a quel paese, quando la troupe americana mi ha pregato di non farlo, perché sapeva che 'ci sarebbero state conseguenze'. Ecco, questo tipo di preoccupazione, per un cineasta europeo, è quasi incomprensibile".

Perché ha deciso di girare un film a Los Angeles?

Paul Laverty, lo sceneggiatore che ha scritto con me anche La canzone di Carla e My name is Joe, ha vissuto per qualche tempo negli Stati Uniti all'inizio degli anni Novanta, e ha seguito personalmente le vicende del sindacato degli addetti alle pulizie, che proprio in quel periodo organizzavano un grande sciopero. Da quel momento lui ed io abbiamo cominciato a pensare che sarebbe stato ironico ambientare proprio nella città in cui si produce il sogno americano un film su un gruppo di individui totalmente privi di diritti, gente che non parla neppure l'inglese, ma che al momento buono ha saputo dare battaglia e vincere.


Che ricordo ha di questa esperienza americana?

Un ricordo molto positivo, per via dei rapporti umani che si sono instaurati, non tanto con i nordamericani - anche se la nostra troupe è stata estremamente gentile e disponibile - quanto con la comunità ispanica. Tra l'altro molti dei personaggi che compaiono nel film sono veri addetti alle pulizie, e la sindacalista sudamericana Simona, che conduce la battaglia degli addetti alle pulizie, è interpretata da Monica Rivas, che anche nella vita è una leader del Movimento pulitori.

Perché focalizzare la sua attenzione su un gruppo di "invisibili", come li definisce lei stesso nel corso del film?

Prima di tutto per dare loro visibilità. Poi perché costituiscono il minimo comun denominatore di una situazione di sfruttamento che si ripete in tutto il mondo. Questa è gente immigrata, spesso illegalmente, che pur di avere un lavoro accetta una paga molto inferiore al minimo sindacale, nessuna assistenza, e nessuna garanzia di continuità. Ognuno di loro può essere licenziato da un giorno all'altro, e questo fa sì che siano estremamente vulnerabili alle minacce dei datori di lavoro. Inoltre sono convinto che riuscire a raccontare in modo autentico la storia di una comunità etnica locale possa avere un'eco globale.

Quali saranno secondo lei le conseguenze delle recenti evoluzioni del mercato del lavoro, in particolare la globalizzazione e la flessibilità?

La globalizzazione significa che un datore di lavoro può trasferire i propri capitali dalla tua città a quella di qualcun altro, il quale ti soffia il posto e tu ti ritrovi improvvisamente per strada. Lavoro flessibile vuol dire che tu puoi fare il mio lavoro e io il tuo, e che se lavoro oggi mi pagano, ma se domani non lavoro non mi pagheranno.

Come mai i sindacati non reagiscono?

Il movimento dei lavoratori è tradizionalmente lento ad adeguarsi alle nuove forme di impiego. E' un grosso problema, perché al contrario il datore di lavoro sposta i suoi capitali con grande facilità. I sindacati non riescono a tenergli dietro e a proteggere i lavoratori dallo sfruttamento più selvaggio.

Vale anche per la new economy?

Certo. Nelle Web company i lavoratori vengono reclutati come singoli individui, non esiste uno schema di rapporto sindacale. E' una grande sfida per il movimento dei lavoratori, perché in quel settore l'organizzazione dovrà partire da zero e inventarsi una struttura tutta nuova.

Qual è l'atteggiamento dei giovani rispetto a questa situazione?

Purtroppo, è un atteggiamento di sfiducia. I giovani si rendono conto che l'intenzione dei datori di lavoro è quella di fregarli, quindi si avvicinano al mondo lavorativo delusi in partenza. Il loro handicap più grave è proprio la sensazione che nulla cambierà, che le forze sopra di loro sono troppo grandi. Per impegnarsi, anche politicamente, bisogna intravvedere la possibilità di vincere. Per questo con Bread and roses ho scelto di raccontare uno sciopero che è finito bene, in cui Davide ha sconfitto Golia.

E noi, che possiamo fare?

Dobbiamo tutti stare attenti a individuare e denunciare tempestivamente ogni tipo di sfruttamento, perché le forme cambiano continuamente e si ramificano all'infinito. E dobbiamo partecipare, renderci visibili: le grandi manifestazioni di Seattle e gli incontri internazionali fra i leader politici hanno ottenuto il risultato di rimettere determinati argomenti all'ordine del giorno e hanno creato un clima in cui è di nuovo OK parlare di queste cose, scriverne, girarci dei film. I diritti dei lavoratori stanno tornando di moda, anzi, stanno ridiventando sexy.


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