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La formazione delle classi sociali
nell'Europa contemporanea



Heinz Gehrard Haupt con Ennio Galzenati



Aritcoli collegati
La rivincita degli invisibili
Pane, rose e dignità
Un mondo globalizzato e disuguale
Lotta di classe “high tech”
La formazione delle classi sociali nell'Europa contemporanea
Chi è Heinz-Gerhard Haupt


Questa intervista fa parte dell’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, un’opera realizzata da Rai-educational in collaborazione con l’Istituto italiano per gli studi filosofici e con il patrocinio dell’Unesco, del Presidente della Repubblica Italiana, del Segretario Generale del Consiglio d’Europa.

L'obbiettivo è quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme d’espressione e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica, la conoscenza della filosofia nel suo svolgimento storico e nei termini vivi della cultura contemporanea.

Per ulteriori informazioni potete visitare il sito Internet: www.emsf.rai.it 


Professor Haupt, vuole introdurre brevemente il tema della nostra conversazione, “La formazione delle classi sociali in Europa nel XIX secolo”, e dirci in particolare come vede le diverse formulazioni del concetto di “classe” e le sue applicazioni allo studio della storia dei Paesi occidentali?

All'inizio è utile ricordare che il concetto di “classe”, il quale è molto importante per l'analisi della storia e della società XIX secolo, è caduto oggi in discredito nel pensiero politico europeo. Se si prende un'analisi qualsiasi delle società contemporanee in Europa, non si parla di “società di classe”, ma di “società dei due terzi”, i due terzi che sono al di sopra del livello di povertà e un terzo che è al di sotto, o si parla di “società dei ceti medi”, di espansione delle classi medie: non si vedono più differenze troppo nette tra le classi sociali. La stessa cosa si può dire della “classe operaia”, di cui ancora si parlava all'inizio del XX secolo. Oggi si sente parlare piuttosto di ceti popolari, di nuove classi medie, di una società che è un miscuglio di condizioni sociali estremamente diverse, in cui si fa fatica a distinguere troppo nettamente le classi sociali. Per noi contemporanei sarebbe alquanto strano analizzare la società attuale sotto il punto di vista delle classi sociali. Nel XIX secolo, al contrario, i contemporanei, non solo Karl Marx e il marxismo, hanno usato largamente il concetto di “classe” per analizzare la loro società. La nozione delle classi era assai diffusa in tutti i paesi europei negli ambienti più diversi.

Già nel XVIII secolo si usava la nozione di “classe” per distinguere diversi strati della società e nel XIX secolo la si usava per stabilire una gerarchia: in alto le classi superiori, in mezzo le classi medie, in basso le classi inferiori. Marx, che negli anni Quaranta, ha introdotto con molta ampiezza rigore ed energia il concetto di “classe sociale”, ha detto: “Non sono io che ho inventato la nozione di “classe”, l'ho ripresa dagli autori francesi della Restaurazione, come François Guizot e Augustin Thierry, che avevano usato la nozione di “classe” per mostrare l'evoluzione della società francese verso il dominio della borghesia, verso la vittoria delle classi medie”. Dunque per i suoi contemporanei del XIX secolo la nozione di “classe” era importante, con una sola eccezione: alla fine del secolo i repubblicani hanno ricusato questa nozione perché presumevano che, con l'avvento della Repubblica, non ci fossero più che i cittadini e la rappresentanza politica della nazione nel parlamento e nel governo repubblicano. Presumevano che in quella società tutti i cittadini avessero uguali opportunità di mobilità sociale e di avanzamento sociale e che quindi tutti gli stati intermedi, come le classi, i corpi, i partiti, non avessero più ragion d'essere. Non è un caso che Gambetta abbia pronunciato la famosa formula che caratterizzò la Terza Repubblica: “Adesso comincia il regno dei ceti medi, dei nuovi ceti”. Non delle nuove classi perché “classe” era una configurazione troppo decisa, troppo impegnativa per essere compatibile con l'ideologia della Terza Repubblica in Francia.

Sembra che il termine “ceti medi” sia usato ancora oggi in Francia. Può parlarci del significato del termine “ceto” in rapporto a quello di “classe”?

“Ceti medi” è un termine usato anche per marcare la differenza con “classe” che sussiste nella produzione e nel campo della politica, mentre “ceto” è qualcosa di assai più indeterminato, che ha un'esistenza solo secondaria nel campo sociale e non si manifesta nella sfera politica. Quindi, alla fine del XIX secolo in Francia, la nozione di “classe sociale” era bandita in qualche modo dal vocabolario politico e nello stesso periodo i sociologi avevano grande difficoltà a introdurre questa nozione in un discorso accademico. Persone come Maurice Halbwachs o come Emile Durkheim facevano fatica a riabilitare la nozione di “classe” che in Francia era in contraddizione con l'ideale repubblicano di una società di cittadini. Nel XIX secolo, la nozione di “classe” era largamente diffusa, era usata per descrivere la realtà sociale ed era del tutto naturale che anche gli storici facessero ricorso a tale nozione, in particolare per analizzare le conseguenze sociali dell'industrializzazione, che costituisce il processo di trasformazione fondamentale nell'Europa del XIX secolo.

Gli storici hanno usato la nozione di “classe” per indicare tre cose: in primo luogo un cambiamento nei caratteri della società. In questo contesto gli storici hanno parlato di “società di ceti” da un lato, e di “società di classe”, dall'altro. La “società di ceti” era, approssimativamente, il tipo di società in vigore in Europa tra il 1650 e il 1800 circa, caratterizzata dal fatto che l'accesso alle posizioni sociali era determinata dalla nascita, dalla tradizione. Questa società era basata fondamentalmente su posizioni di diritto, su posizioni sancite dalla legge, quindi era una società statica, con una mobilità interna ridotta, in cui l'accesso alle posizioni sociali era fortemente canalizzato. Viene sostituita nel XIX secolo dalla “società di classe”, cioè una società in cui l'accesso a tutte le posizioni era, per principio, aperto, in quanto basato sul principio dell'eguaglianza giuridica. In essa, dal punto di vista ideale, astratto, la concorrenza era il meccanismo essenziale per permettere a tutti la partecipazione alle diverse classi. Gli storici hanno opposto dunque questi due tipi di società e hanno determinato la società del XIX secolo come una “società di classe”: questo è il primo uso del concetto di “classe”.

Il secondo uso è finalizzato alla descrizione delle diverse dimensioni dell'ineguaglianza; il concetto di “classe” è servito in particolare per descrivere la distribuzione dei beni, la distribuzione dei titoli di studio, le vie d'accesso al potere. La borghesia, come classe “superiore”, deteneva infatti, in un certo periodo del XIX secolo, il monopolio del potere economico; la sua superiorità era riconosciuta, aveva accesso ai più alti gradi dell'educazione e deteneva il potere politico. Il terzo uso del concetto di “classe sociale” mira invece a cogliere e a definire i “collettivi” ovvero gruppi di persone che agivano insieme ed erano politicamente uniti; in questo contesto si è fatto appello spesso alla differenza che già Marx aveva stabilito tra la “classe in sé” e la “classe per sé”, in cui la prima, sulla base di determinate fattori, si trasforma. La “classe in sé” è un insieme economico e sociale di persone che vivono in condizioni simili e che, a partire da un certo momento, si impegnano insieme, si organizzano e agiscono per uno stesso ideale, costituendo la “classe per sé”. Gli storici hanno usato la nozione di “classe” per determinare quegli insiemi socio-economici, che, nel XIX secolo, si danno una certa forma di organizzazione politica e sviluppano una certa forma di azione politica, come la classe operaia o come la classe borghese.

Ci sono dunque tre significati della nozione di “classe sociale” che si ritrovano attraverso tutta la storia d'Europa, e che vengono usati in diversa misura dagli storici. Certo gli storici hanno bisogno di teorie, così come hanno bisogno di un fondamento storico per definire la classe sociale. Essi accolgono la lezione di grandi pensatori, tra cui spiccano le figure di Karl Marx e di Max Weber, ed usano il loro modo di interpretare le classi sociali.

Che cosa hanno trovato gli storici nell'opera di Karl Marx, per ciò che concerne la definizione delle classi sociali?

Hanno trovato nella sua opera una teoria che permetteva loro di distinguere, nelle strutture economiche e sociali, degli insiemi di persone che vivono nelle stesse condizioni. Marx ha individuato infatti nella sua opera, in particolare ne Il Capitale, le tre classi principali del mondo capitalista. Poiché il mondo capitalista è caratterizzato da un certo modo di estrazione del plus-valore, egli situava le classi sociali in rapporto all'estrazione del plus-valore nella produzione: la classe dei proprietari terrieri, o come diceva Marx, “Madame la Terre”, la classe dei capitalisti, “Monsieur le Capital”, e infine la classe operaia, la forza-lavoro. In altri scritti, come nel Manifesto del partito comunista, Marx intravede una tendenza secondo cui sempre più, col progredire dello sviluppo capitalistico, la classe dei proprietari terrieri e quella dei capitalisti si sarebbero fuse e si sarebbero ridotte numericamente, mentre la classe operaia, la classe lavoratrice sarebbe diventata quantitativamente sempre più determinante. Era legata a quest'idea di “classe sociale” la prospettiva che in futuro gli operai, divenendo coscienti del loro numero e della loro forza, avrebbero realizzato una rivoluzione sociale e socialista, per rovesciare l'ordine costituito.

Questa ripresa della teoria marxista, che non era legata soltanto ai membri del Partito Comunista e ai marxisti ortodossi, ma aveva una diffusione assai più larga, ha spinto gli storici a insistere più specificamente sulla storia della classe operaia. Un numero considerevole di studi si sono interessati alle condizioni di lavoro degli operai, alla mobilità sociale nella classe operaia, ma hanno soprattutto insistito sul “movimento operaio”. L'impulso più forte di questa teoria è andato verso un'analisi di quella che è stata chiamata la “storia delle lotte operaie”, cioè delle diverse forme di organizzazione e di confronto tra operai e padroni negli scioperi, nelle insurrezioni, nelle rivoluzioni del XIX secolo: una immensa letteratura si è interessata a questi fatti. Tuttavia, già negli anni Sessanta e Settanta, certi aspetti della teoria marxista sono stati sottoposti ad una critica. Si è detto che era troppo “economicista”, cioè che vedeva le classi sociali unicamente nel loro aspetto economico, nel processo lavorativo, e ignorava le altre dimensioni dell'ineguaglianza sociale. In particolare si è rimproverato a Marx la visione troppo teleologica, troppo finalista della sua teoria, il fatto di vedere tutta l'evoluzione del XIX secolo integrata in un largo processo che va da una prima embrionale organizzazione degli operai, verso la sua radicale maturazione, culminante nella rivoluzione sociale. Gli storici hanno insistito sul fatto che quel processo non è necessariamente una successione lineare, come Marx aveva creduto, ma presenta arresti, deviazioni, evoluzioni divergenti tali che ne fanno forse solo una delle tendenze possibili, e non una evoluzione governata da una ferrea legge interna, dalla necessità, come i marxisti, a un certo momento, hanno sostenuto.

Un'altra critica contro la teoria marxista vuole mettere in luce la paradossalità di una delle sue tesi fondamentali: la classe più sfruttata, la più depressa, la più sottomessa al dominio del capitale, che la priva di tutte le sue risorse, di tutta la sua umanità, di tutta la sua dignità, sarebbe - sostiene Marx - nonostante tutto, capace di organizzarsi, di costituirsi in partito e di rovesciare l'ordine stabilito. Ci si è chiesti quindi come sia realmente possibile che una classe talmente depressa possa avere la forza di realizzare la rivoluzione. Gli storici hanno risposto che se guardiamo la realtà sociale, ci rendiamo conto che non sono gli operai sottopagati, non è il sotto-proletariato ad essere attivo nel XIX secolo, ma sono gli operai qualificati, quelli che hanno una tradizione, una cultura operaia, coscienza delle proprie risorse, a poter reagire contro l'ordine politico-economico: si è diventati dunque estremamente diffidenti nei riguardi di un certo “miserabilismo” della teoria marxista.

Qual è stata l'importanza delle teorie di Max Weber, al confronto con la prospettiva marxiana, nell'analisi della nozione di “classe sociale”?

Ci si può chiedere perché, verso la metà o verso la fine degli anni Sessanta, in certi paesi, la teoria weberiana abbia acquistato tanta importanza sul piano dell'analisi della storia sociale del XIX secolo: la ragione principale è che Weber aveva esteso la nozione di “classe sociale” per riuscire ad accogliere e spiegare altri, fondamentali, aspetti della realtà. Certo anche Weber diceva che ciò che costituisce il nocciolo di una classe sociale è il monopolio di un possesso, il possesso di un bene, della terra, del capitale, di una qualifica: questo monopolio si stabilisce nel mercato. Contrariamente a Marx che diceva che “la classe sociale si forma nella produzione”, Weber afferma: “La classe sociale si forma nel mercato”; è nel mercato che si scopre la classe sociale, il suo nucleo quindi è formato da un rapporto economico che si realizza nel mercato.

Per la teoria weberiana, quando si guarda la realtà storica bisogna partire dalle rappresentazioni delle classi sociali e le classi sociali sono formate essenzialmente da ciò che egli chiama “commercium et connubium”, cioè dai rapporti di vicinato, di parentela, dalle scelte professionali, dai contatti e dai conflitti quotidiani. Quindi dà molto più spazio alla realtà sociale di quanto abbia fatto Marx. Al tempo stesso Max Weber sostiene che non c'è teleologia nell'evoluzione delle classi sociali. Egli afferma: “Lungo tutto il XIX secolo si assiste a una lotta tra due principi: tra il principio di classe e il principio di corpo, il principio corporativo, come si dice in italiano, tra ceti e classi”; il principio corporativo è l'onore, il principio di classe che è l'eguaglianza-ineguaglianza.

Weber ritiene che nei momenti in cui la congiuntura economica è dinamica, - in cui c'è una congiuntura “ascendente” -, domini il principio di classe; quando la congiuntura economica è discendente, si riaffermerebbe invece il principio corporativo, l'onore; la “società di classe” si ricostituirebbe non avanzando ma retrocedendo a principi anteriori di organizzazione sociale. Le classi non sono dunque un principio universale, come Marx pretendeva, della società capitalistica. Weber dice: “Bisogna analizzare sia quei momenti in cui si assiste a una evoluzione o a una rivoluzione delle classi sociali, al dominio del principio di classe, sia quei momenti in cui le classi sociali non strutturano più la realtà economica e sociale”. È una concezione molto meno finalistica, molto meno unilaterale, tanto più che Weber si è interessato ad altri aspetti, come, per esempio, al rapporto tra classi sociali e religione, che non ha alcun posto nell'opera di Marx. Weber, specialmente nel suo famoso libro L'etica protestante e lo spirito del capitalismo ha mostrato, o meglio ha supposto che ci fosse uno stretto legame tra il calvinismo, con la sua etica del lavoro, l'investimento industriale e la formazione del capitalismo.

Dunque si è interessato a degli aspetti che non avevano avuto rilievo nell'opera marxiana. Certo anche l'interpretazione della società, delle sue strutture e della sua evoluzione, fornita da Weber individua una teleologia, una finalità; a suo giudizio, tutta la società europea è dominata da un processo di razionalizzazione della vita, quindi da una formalizzazione dei rapporti, da una statizzazione della società e da quello che è stato chiamato il “disincanto del mondo” (Entzauberung der Welt), il cui risultato, da lui temuto, è che gli uomini si ritrovano sempre più ingabbiati, in una posizione di dipendenza da forze esteriori. Contrariamente alla teoria marxiana, che sviluppa la sua teleologia a partire dalle classi sociali, per Weber quella teleologia non si appoggia tanto su un'analisi delle classi sociali, quanto, piuttosto, la feconda, perché se si tiene conto del processo di razionalizzazione, bisogna domandarsi quale sia l'influenza dello stato sulla formazione delle classi sociali, quando si organizzano in forme proprie nel XIX secolo, riprendendo le strutture statuali e trasformandole in base ai loro scopi. Ci si può domandare ancora quale sia l'influenza della legge sulle classi sociali, quali siano le classi sociali che hanno un rapporto diretto con la legge, quando è che la classe operaia comincia a ricorrere alla legge e sviluppa una cultura legale. Quindi è una teleologia che pone questioni nuove e che ci conduce a problematiche nuove e apre più vasti campi di indagine, contrariamente all'analisi marxista, che pur possedendo una dinamica e una forza incredibili, è unidirezionale.

Qual è la fisionomia delle “corporazioni” e la loro evoluzione storica in Europa, all'interno del processo di formazione delle classi sociali?

Le corporazioni sono state “forme di organizzazione sociale delle città” in Europa dal XVI al XVIII secolo, caratterizzate dal monopolio sul mercato dei beni. Erano destinate essenzialmente a garantire a gruppi di maestri e artigiani il controllo su questo mercato nelle grandi città: questo controllo serviva a permettere la sopravvivenza, una vita decorosa ai maestri artigiani. Per assicurare il buon funzionamento delle corporazioni c'erano delle regole interne. Era un mondo estremamente regolato, in cui potevano diventare maestri solo coloro che conducevano una vita irreprensibile e avevano antecedenti familiari onorevoli; dovevano inoltre aver seguito tutto il cursus honorum. Le corporazioni, al tempo stesso, erano degli insiemi retti da riti e da simbologie; c'erano delle feste regolari, delle manifestazioni cittadine e dei santi protettori delle corporazioni. Ci troviamo di fronte a un insieme altamente strutturato e integrato. C'era una giurisdizione interna che regolava le diverse funzioni nella corporazione, la quale costituiva un raggruppamento essenziale alla vita della città.

Le città nel XVIII secolo si basavano sulle corporazioni e le corporazioni a loro volta partecipavano alla gestione della città e in certi paesi, nel momento in cui si diventava maestro artigiano, si acquisiva lo statuto di “borghese”: è questo il caso della Germania e della Svezia, meno dell'Inghilterra, dove c'era una situazione diversa. Dunque le corporazioni erano organizzazioni con funzioni estremamente diverse, che andavano dalla produzione fino alla disciplina della mano d'opera impiegata, dalle forme consociative fino alla partecipazione al potere cittadino. Questo è il “tipo ideale”, il modello, in un certo senso, delle corporazioni.

Nel XVIII secolo questo modello però già non corrispondeva più alla realtà. In primo luogo c'erano delle differenze nazionali importanti: in Inghilterra, già nel XVIII secolo, le corporazioni avevano poco potere e poca influenza sulla società inglese, perché il potere politico si era formato assai presto ed erano sparite assai presto le differenze tra ambienti locali, regionali e nazionali. Le corporazioni sono sparite tanto più presto, quanto più il capitale commerciale invadeva l'ambito dell'artigianato. Nel XVIII secolo quindi le corporazioni non esistevano già più e anche là dove esistevano ancora non avevano più alcun potere, cioè non riuscivano a mantenere una posizione di monopolio sul mercato. In Francia la situazione è la seguente: alla fine del XVIII secolo, vengono avversate fermamente le corporazioni, e lungo tutto il XIX secolo le corporazioni come realtà sociale si vanno indebolendo, le vertenze tra piccoli maestri e grandi maestri aumentano e il governo stesso, che mira ad accrescere la produzione nazionale, è ostile alle organizzazioni corporative che ne ostacolano lo sviluppo. Esse limitano naturalmente la produzione in una città in quanto non vogliono che siano aperte le porte alla produzione proveniente da fuori. Nella città le corporazioni hanno come scopo principale di mantenere un livello di vita confortevole per i maestri, ma non di produrre tanto quanto è effettivamente possibile.

E' Turgot che, nel 1776, proibisce le corporazioni in Francia; a tale decreto consegue la protesta dei maestri artigiani. Questi prospettano il rischio dell'instabilità sociale in quanto, a loro giudizio, se si aboliscono le corporazioni, si scivola nel disordine, i lavoranti si confondono con i maestri e si crea in Francia un “mondo alla rovescia”. Quindi già prima del 1789 in Francia, le corporazioni erano una istituzione messa in questione ed esposta al rischio dell'estinzione; non fa meraviglia che, dopo l'89, con la Rivoluzione Francese, le corporazioni siano state del tutto abolite. In Germania al contrario, mentre c'è un indebolimento di certi meccanismi corporativi, di certe parti delle corporazioni che non riescono più ad organizzare integralmente la professione, lo stato insiste a conservare le stesse corporazioni: è in questo paese quindi che durano più a lungo.

Come si presenta la struttura socio-economica della corporazione nel XIX secolo, nei diversi Paesi europei?

In Inghilterra non hanno alcun ruolo nell'organizzazione dei rapporti sociali e nella costituzione dell'orizzonte mentale degli artigiani e degli operai. Le corporazioni non sono un modello che funzioni in Inghilterra; qui si vede piuttosto il mondo industriale retto dalle leggi dell'economia, non esiste un mondo dei maestri, un'ideologia dei maestri artigiani, opposta a quella degli operai, ma ci si schiera secondo gli interessi economici. Al tempo stesso, la coscienza che si afferma in Inghilterra è quella del trade, cioè della “professione”. Ci si organizza secondo la professione e si vuol mantenere una certa unità della professione stessa e poiché questa unità è di ordine economico, tra agenti economici, non si ricorre allo stato, ma si dice che “se si hanno dei problemi bisogna risolverli da sé”, con l'auto-difesa, l'auto-organizzazione. Dunque nel caso dell'Inghilterra le corporazioni, che erano in decadenza già dal XVI secolo, non hanno alcun ruolo nel definire l'ideologia e le frontiere sociali del XIX. In Francia - bisogna ricordare che questa ha abolito le corporazioni nel 1791 e che tutti i governi successivi si sono rifiutati di ripristinarle - curiosamente le corporazioni sopravvivono, in quanto ideologia all'interno del movimento dei lavoratori dipendenti (compagnons).

I lavoratori dipendenti si organizzano, nella prima metà del XIX secolo, sul modello delle corporazioni anteriori, introducono feste, riti, simboli, e tentano di stabilire il monopolio su un certo settore. I maestri non accettano operai non qualificati e vivono in una atmosfera corporativa da Ancien Régime, la quale è rappresentata in Francia dalle associazioni operaie (compagnonnages) della prima metà del XIX secolo. È assai curioso che anche nella rivoluzione del 1848 gli operai radicali, che vogliono risolvere la questione sociale nel senso dell'espropriazione, che hanno dunque delle concezioni estremistiche, formulano le loro rivendicazioni in un vocabolario “corporativo”, parlano di “corpi”, di “comunità”. Dunque ancora nel 1848 si attinge a una tradizione corporativa, che tende tuttavia a sparire dal movimento operaio francese quando, nella seconda parte del XIX secolo, il marxismo si installa progressivamente al suo interno. Dunque curiosamente in Francia il modello corporativo passa dalla parte dei lavoratori dipendenti. In Germania, o almeno in una sua parte, le corporazioni sussistono fino al 1869, anno in cui anche le ultime corporazioni furono abolite nella regione del Mecklenburg. Ciò vuol dire che le corporazioni sussistono per due terzi del XIX secolo e in ciò il caso dell'Italia è simile a quello della Germania, perché anche in Italia, a Torino, a Genova, queste durano con le loro strutture fino alla metà del XIX secolo.

Proprio perché le corporazioni hanno avuto una vita così lunga, l'ideale corporativo è un ideale a cui padroni e maestri artigiani potevano appellarsi. Si faceva riferimento al modello corporativo, si chiedeva, ancora alla fine del XIX secolo, che il mondo dell'artigianato fosse organizzato secondo il modello corporativo e in Germania c'è tutta una tradizione di pensiero che concepisce la soluzione dei problemi sociali in termini corporativistici. “Corporazione” era dunque un termine alla moda largamente diffuso in Germania (alla fine del secolo scorso) e mi sembra che si possa cogliere una differenza tra Francia e Germania nella diversa importanza che avevano le corporazioni in quei due paesi, perché in Francia il mondo dell'artigianato è poco organizzato, mentre in Germania è fortemente organizzato. Credo che questa sia la conseguenza e trovi la sua spiegazione nel fatto che gli artigiani, nella società francese, non avevano alcuna tradizione corporativa che permettesse loro di organizzarsi, mentre in Germania le corporazioni erano continuate nelle associazioni di categoria e queste erano legate a quelle da una tradizione ininterrotta.

Inoltre una seconda differenza potrebbe essere questa: che in Francia la stessa identità dell'artigiano era in via di estinzione nel XIX secolo: non c'era più l'apprendistato, l'apprendistato era entrato in decadenza nella seconda metà del XIX secolo e in certe grandi città francesi, come, per esempio, Lione, il termine di “maestro artigiano” non compariva nemmeno più sulle liste elettorali. Al contrario, in Germania, la tradizione corporativa ha contribuito a conservare un ambiente chiuso, strutturato, funzionante secondo certe regole, altamente auto-organizzato, il quale aveva un potere politico fondamentale nella società tedesca, in grado di influenzare le decisioni dei vari governi.

Cosa significa, nel periodo della formazione delle classi sociali in Europa, l'aumento della “mobilità sociale”?

È una domanda in realtà complicata, perché il termine “mobilità sociale” è un termine metaforico e bisogna quindi chiedersi che cosa si intende con esso, che cosa si può comprendere con questa nozione. In generale, la “mobilità sociale” viene concepita dagli storici in due modi: come “mobilità di carriera”, come cambiamento da una posizione a un'altra nel corso di una carriera sociale e poi come mobilità “intergenerazionale”, come cambiamento di posizione sociale nel corso delle generazioni. Per determinare se vi sia mobilità sociale, gli storici considerano i titoli professionali entro una scala gerarchica, passando dall'operaio non qualificato all'operaio qualificato, al caposquadra, al piccolo imprenditore: tutta la gerarchia sociale è presente in questo contesto. Quindi bisogna chiedersi quale significato di “mobilità sociale” intervenga nel discorso e come la si possa determinare. Quando si guarda indietro agli studi sulla mobilità sociale, si constata che essa è stata concepita in modi assai diversi. Alla fine del XIX secolo, all'interno di un movimento “eugenetico” si è voluto vedere nella mobilità sociale un criterio per determinare, all'interno della società, la superiorità di alcuni individui sugli altri.

Negli anni '50 e '60 si è voluto vedere nella mobilità sociale una conquista della società liberale, in particolare americana, e quindi una via di diffusione dell'americanismo. Quindi gli storici si sono posti la questione: è utile parlare di mobilità sociale anche per il secolo XIX ed, eventualmente, qual è la sua fisionomia? La mobilità sociale è stata misurata basandosi su determinate fonti e queste, per il XIX secolo, sono sempre gli atti di matrimonio. Si coglie di una persona, nel momento in cui si sposa, la differenza tra la sua professione e la professione del padre - sempre in un quadro borghese o piccolo-borghese -, quindi si mettono a confronto due persone in due momenti molto diversi della carriera sociale.

A partire da queste fonti si ha una visione prospettica della realtà sociale nel XIX secolo, una visione gerarchica dei diversi livelli in cui essa si divide. Bisogna chiedersi però se non sarebbe meglio concepire la mobilità sociale in un senso molto diverso e parlare piuttosto di cambiamenti di posizione nella società senza perciò pretendere che ci sia un'ascesa, una promozione o una discesa. Per fare un esempio è abbastanza chiaro che negli studi dedicati alla mobilità sociale nel secolo XIX, si potrebbe dire che, se uno è stato prima maestro artigiano, e poi è diventato operaio, ci troviamo di fronte a un declassamento, a una caduta nella condizione operaia. Una occupazione che dura tutto l'anno però può essere, anche per un piccolo imprenditore, una promozione, nel senso di un impiego più stabile, più certo, benché al tempo stesso si possa dire interpretare la stessa situazione in termini “negativi”, come un fenomeno di “stagnazione”. In un ambiente però in cui le posizioni sociali cambiano rapidamente e incessantemente è evidente che mantenere una posizione rappresenta, in un certo senso, una promozione sociale: se si resta fermi in un mondo in cui tutti gli altri cambiano posizione e cambiano verso posizioni meno buone, questo è già di per sé una promozione.

Dunque, i termini stessi della mobilità sociale devono essere riveduti, devono essere rimessi in questione, perché nel corso del XIX secolo sono tutt'altro che ovvi. Mi sembra quindi che si possa discutere con profitto sul concetto di “mobilità sociale” nel XIX secolo e interrogarsi se vi siano gruppi sociali rispetto a cui questo fenomeno risulta particolarmente forte. Per questo si può ricorrere a un'idea espressa dal filosofo e sociologo tedesco George Simmel. Egli afferma l'importanza strategica delle classi medie nella costituzione della società; con queste, a suo giudizio, non si introduceva soltanto una classe in più nella società, ma si introduceva un elemento nuovo nelle società moderne, proprio perché all'interno delle classi medie gli individui potevano operare un cambiamento delle loro posizioni, una rettifica delle loro carriere professionali e personali, senza perciò essere costretti a rovesciare la società.

All'interno della classe media i cambiamenti di posizione sociale avevano luogo normalmente, perché si poteva salire dal basso in alto, senza che ciò comportasse la necessità di cambiare il carattere della società. Se si applica questa teoria al XIX secolo si nota una differenza fondamentale tra Francia e Germania. In Francia, il mondo delle classi medie era un mondo senza frontiere, nel quale un giorno si poteva essere imprenditore, un altro giorno operaio e si passava dal padronato al salariato, senza limitazioni giuridiche o statutarie. In Germania invece, in cui l'artigianato costituiva un gruppo ben organizzato, le frontiere corporative e giuridiche precise separavano i due livelli. Si potrebbe forse spiegare il maggior grado di stabilità della società francese, nonostante tutte le differenze sociali, con l'esistenza di questo spazio dinamico, nel quale i diversi gruppi sociali potevano muoversi tra operai qualificati e piccoli funzionari, potevano cambiare facilmente la loro posizione, mentre la società tedesca era più stratificata, più nettamente divisa al suo interno e forse, perciò, meno stabile.


In conclusione, ci potrebbe dire qualcosa sull'insorgere di conflitti sociali nel quadro della articolazione in classi della società e, in particolare, in rapporto all'evoluzione della piccola borghesia?

Credo che sia importante, nella considerazione del XIX secolo, volgere lo sguardo dai conflitti al non-conflitto. Il XIX secolo è stato indicato per troppo tempo come un periodo di accresciuta conflittualità, di scioperi, di insurrezioni, di tentativi rivoluzionari, di instabilità. Mi sembra che ora, pur senza dimenticare i conflitti, bisogna chiedersi parallelamente se esistono altre forme di arbitraggio dei conflitti, altre forme di vita in comune, altre forme di conflitto. In questo contesto mi sembra che la storia dei conflitti interni alla piccola borghesia sia molto importante, perché mostra che da un lato questi sono esistiti, per tutto il XIX secolo, in certi settori, sia pur secondari, della piccola impresa. Sono esistiti però anche dei rapporti di intesa tra padroni e operai, durati fino alla Prima Guerra Mondiale, e c'erano laboratori e botteghe in cui vigevano rapporti di convivialità.

D'altro lato, si vede che, alla fine del XIX secolo, in particolare, nella piccola impresa, si ricorreva sempre più frequentemente, per risolvere i conflitti, a forme giuridiche quali i Conseils de prud'hommes in Francia e i Kaufmanngerichte in Germania, si ricorreva cioè alle istituzioni per l'arbitraggio dei conflitti esistenti in un ambiente in cui i sindacati erano rari e le controversie avevano bisogno di essere risolte con l'intervento di mediatori esterni. Mi sembra dunque che si debbano vedere insieme i due aspetti: i conflitti della piccola impresa, che andavano continuamente diminuendo lungo il XIX secolo in Germania, in Francia, in Inghilterra e in Belgio, anche perché gli operai qualificati entravano nella grande industria, e, al tempo stesso, le istituzioni per l'arbitraggio delle vertenze, che acquistavano importanza, nella misura in cui diminuiva il potere di negoziazione, il potere di contestazione degli operai nella piccola impresa.

L'altro aspetto, per ciò che concerne i conflitti, è che non bisogna considerare unicamente i conflitti di lavoro, ma volgere l'attenzione ai conflitti di quartiere nelle città, ai conflitti tra dettaglianti e consumatori operai e integrare altri campi di lotta in una più generale storia dei conflitti sociali, la quale non comprenda solo le lotte operaie, già abbondantemente studiate. Per fare un esempio in questo senso, a Parigi, prima del 1900, davanti ai tribunali c'era un gran numero di processi tra proprietari di case e locatari operai che non pagavano e tra piccoli commercianti e operai che non potevano pagare le merci acquistate nei loro negozi. Queste considerazioni potrebbero estendere la visione del conflitto al di là del mondo del lavoro e darle un più ampio respiro, integrando, all'analisi dei conflitti, diverse dimensioni.


(traduzione: Francesco Fanelli)



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