A) Maggioranze e coalizioni di
centrosinistra in Europa hanno o non hanno una visione comune della prospettiva politica.
Qual è l'area della convergenza e quale quella della divergenza.
E' innegabile che all'interno della grande famiglia del socialismo europeo, tra le
diverse anime della sinistra internazionale, vi siano differenze su singoli punti politici
o programmatici. D'altra parte sarebbe strano se non fosse così: per la diversa storia -
e mi riferisco non ad anni, ma a secoli, al formarsi e al consolidarsi di profondi tratti
identitari - di ogni singolo paese; per le differenti situazioni che le coalizioni di
sinistra e centro-sinistra hanno trovato dopo periodi, più o meno lunghi, di predominio
di ideologie liberiste e politiche conservatrici; per le diverse strategie comunicative
adottate di fronte a queste diverse situazioni, ai differenti scenari politici e sociali
in cui si è chiamati a muoversi. In più, occorre considerare che i tanti cambiamenti che
attraversano il nostro tempo stanno facendo emergere idee ed esperienze nuove, riformiste
e democratiche, verso le quali la casa del socialismo deve continuare ad aprirsi, con una
sempre maggiore spinta innovativa.
Questo può comportare, nell'immediato, una qualche difficoltà a trovare un linguaggio
comune. Ma questo, al tempo stesso, è il percorso che tutti dobbiamo intraprendere, se
davvero vogliamo trovare - prendo anch'io in prestito le parole di Grunberg - "la
teoria della nostra pratica". Una ricerca che possiamo affrontare sapendo che mai
come oggi, comunque, la sinistra internazionale appare unita sulle grandi opzioni di
fondo, attorno all'esigenza che la lotta per l'uguaglianza - che intendo come uguale
valore di ogni individuo, come pari opportunità per ogni cittadino - non può esplicarsi
se non coniugata con la libertà, la democrazia politica, il pluralismo sociale e
culturale, le differenze tra i sessi e gli individui, il riformismo come metodo
d'azione.
B) Le nuove, complesse e ricche "domande di senso" che i cittadini rivolgono
alla politica dopo un ciclo di benessere e individualismo durato decenni... La leadership
politica deve considerarle questioni non pertinenti in una visione liberale o deve saperle
affrontare?
Eccome se deve saperle affrontare
Quando diciamo, con Lionel Jospin, che vogliamo
un'economia di mercato ma non una società di mercato, intendiamo sottolineare che questa
esigenza, l'esigenza di "accompagnare" ogni individuo tra le insicurezze e le
possibilità generate dai processi di globalizzazione, deve essere propria della politica,
e comunque della politica della sinistra, dei riformisti. Essersi lasciati definitivamente
alle spalle, per fortuna, concezioni totalizzanti, ideologie finalistiche e atteggiamenti
di tipo paternalistico non significa "lasciar fare" tutto a una sorta di
complessivo "libero mercato" in cui solo pochi sono nelle condizioni di
acquistare la risposta alle proprie domande; non significa lasciar solo un individuo, un
cittadino, in uno scenario che si fa sempre più largo, più ricco di opportunità ma
anche più complesso. Sarebbe un passaggio sbagliato, da un estremo all'altro, che davvero
non ci possiamo permettere se non vogliamo che si diffondano comportamenti difensivi e
corporativi, se non vogliamo che si riducano il grado di coesione sociale e la fiducia nel
futuro dei cittadini.

Nessuna fine della politica, quindi. Al contrario, a molte delle nuove e pressanti
domande che abbiamo di fronte a noi è la politica che può fornire risposta. Una politica
in grado di ridurre le incertezze e i rischi di instabilità, capace di rendere universale
la difesa dei diritti umani, la protezione dei deboli, la regolazione democratica dei
conflitti sociali, la diffusione di sistemi sostenibili di welfare. Una politica, al tempo
stesso, non totalizzante, consapevole del proprio limite e pronta a intrecciarsi con i
soggetti e i protagonisti di una società sempre più ricca e articolata da cui salgono,
appunto, nuove e complesse "domande di senso".
C) Come rispondere, in concreto, agli interrogativi che nascono da interventi politici
europei e nazionali che riducono la stabilità del lavoro, la protezione sociale,
l'estensione degli automatismi universali del welfare?
Quello del welfare, delle filosofie di intervento in campo economico e sociale, è
sicuramente uno dei temi cruciali su cui si misura la capacità di risposta della nuova
sinistra internazionale, la sua sintonia con le trasformazioni in corso. Cominciamo, su
questo, a dire una cosa in modo chiaro: non è vero che welfare e sviluppo economico siano
in contrasto l'uno con l'altro. E' un welfare di cattiva qualità che può ostacolare lo
sviluppo, introdurre distorsioni che alla lunga non sarebbero sostenibili, spezzare -
invece di unire - il corpo sociale, diventare insensibile all'evoluzione concreta dei
bisogni all'interno di sistemi che cambiano rapidamente.
E' quindi sulla qualità del welfare che si gioca la scommessa dell'innovazione
sociale. E' su questo terreno che si può riuscire o meno a rispondere agli interrogativi
di oggi. Penso, allora, a un welfare che abbia come sue caratteristiche fondamentali la
lotta all'esclusione sociale, i regimi di assicurazione su base collettiva, le misure di
intervento solidaristico. Penso a un welfare che non si preoccupi solo delle condizioni di
partenza (dell'uguaglianza ex ante) ma che sia in grado di accompagnare - adopero di
nuovo, volutamente, questo termine - l'individuo e di sorreggerlo in ogni momento in cui
incontri un rischio di rilevanza sociale. Un welfare attivo, capace di offrire a un
cittadino disoccupato, ad esempio, non solo un sussidio, ma formazione adeguata,
opportunità di ingresso e di reinserimento, aiuto per non perdere l'abilità e il
capitale umano posseduto. Tutto questo anche mettendo in discussione - per quanto riguarda
l'Italia - il tradizionale modello centralistico dell'amministrazione pubblica e
introducendo grandi dosi di federalismo, promuovendo strategie di azione su base locale e
di sviluppo del terzo settore no profit.
D-E) La valorizzazione del rischio individuale, la richiesta di una maggiore
responsabilità degli individui verso se stessi e la società, richiedono un più intenso
dialogo tra cittadini e politica sulle scelte di vita e sui loro motivi. Come affrontare
questo nuovo bisogno? Che cosa ha da dire la politica di fronte alla crisi delle
istituzioni-conchiglia: il lavoro fisso, la fabbrica, la comunità locale, la famiglia? La
politica deve ritrarsi da questi temi oppure deve affrontarli? E' giusto dire che il tema
della "vita buona" o della felicità debba rientrare nel discorso pubblico?
Non c'è dubbio sul fatto che ci stiamo sempre più allontanando dai vecchi modelli, da
modi e sistemi di produzione e di vita contrassegnati da rigidità e appartenenze ben
definite. Ed è chiaro che questo significa che ogni individuo si trova ad avere
l'esigenza di muoversi in uno spazio più ampio e più mobile di quanto non fosse in
passato. Ma anche che ogni individuo, ogni cittadino, ha al tempo stesso l'opportunità di
esercitare molto di più, rispetto a prima, due fondamentali principi: quello della
responsabilità e quello dell'autonomia. Alle istituzioni, alla politica, non tocca certo
stabilire quali forme deve assumere la vita delle persone e quali vie occorre seguire per
arrivare alla "felicità", alla realizzazione di se stessi. Alla politica - e di
certo a quella della sinistra, dei riformisti - spetta però il compito di evitare che la
nostra si configuri come una "società dell'incertezza", dando risposte, dando
"sicurezza" ai ragazzi che sanno che non necessariamente avranno un posto fisso,
a coloro che temono per le proprie pensioni, a chi ha paura per la propria incolumità
personale. Alla politica, alla politica della sinistra, spetta il compito di mettere
ognuno nelle condizioni di scegliere la propria via e di proseguire lungo di essa, il
compito di consentire l'esercizio di questi due principi (responsabilità e autonomia) e
il libero dispiegarsi delle individualità e dei talenti. Lo abbiamo scritto anche nel
Contributo dei Democratici di sinistra per il Congresso dell'Internazionale Socialista: la
nostra preoccupazione è quella di investire nel capitale umano, è quella di aumentare
gli investimenti nei sistemi di istruzione e formazione adattandoli alle reali esigenze
del mondo del lavoro, di far sì che la formazione continua non sia più un lusso che solo
poche imprese e pochi lavoratori si permettono, di fare in modo che le nostre società
aumentino gli investimenti sulla cultura e sulla sua accessibilità, in particolare in
connessione con le nuove frontiere della società dell'informazione.
E alla politica spetta il compito di favorire - è un altro principio fondamentale - la
piena e cosciente partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Per consentire questo
è necessario moltiplicare i modi e i luoghi in cui i cittadini possono incidere nelle
scelte pubbliche e intervenire nei processi decisionali. Ma è necessario anche aggiungere
un ingrediente fondamentale, imprescindibile, che è quello che nasce dalla coniugazione
della politica con l'etica: occorre davvero dare un senso profondo alla propria azione di
governo, serve davvero la capacità di trasmettere la percezione che dietro una manovra
economica, dietro un provvedimento finanziario, c'è un progetto, c'è una
"missione" che si vuole perseguire, ci sono dei valori, delle idee profonde. E'
un problema, quello del rapporto di fiducia tra la leadership politica e i cittadini, che
dipende anche - concordo, in questo, con le cose scritte da Bosetti nell'ultimo numero di
Reset - da un profondo impegno personale di chi della politica è protagonista. Solo così
si può provare a colmare quella distanza tra politica e cittadini che è tratto comune di
tutti i paesi europei e ferita particolarmente profonda per l'Italia. Solo così si può
far crescere l'idea e la pratica di un riformismo che non può essere se non è anche
"carico di passione", di slanci morali e di visione progettuale.
F) Come si collega - se si collega - tutta questa tematica con il dibattito politico
italiano?
Ancora non ci siamo. Questo collegamento è ancora troppo labile, troppo fragile. Non
voglio certo mettermi in cattedra, però farei un torto a me stesso se non ribadissi, qui,
quello che vado dicendo da un bel po' di tempo: è ora che la politica italiana si
interessi meno al balletto di dichiarazioni, repliche e smentite cui assistiamo
quotidianamente. Per quello che mi riguarda è quello che sto cercando di fare, è quello
che ho fatto mettendo al centro della nostra azione - superando anche un certo scetticismo
iniziale, quasi si stessero contraddicendo le regole del più elementare realismo politico
- le grandi questioni attorno a cui si gioca la qualità umana del futuro del pianeta: la
povertà, la fame, il sottosviluppo, la macroscopica diseguaglianza nell'accesso alle
risorse economiche mondiali; i diritti umani, il loro integrale rispetto e l'estensione
della democrazia a qualunque latitudine; il valore della rivoluzione delle migrazioni e
della costruzione di società multiculturali e multietniche; la difesa attiva
dell'ecosistema dai rischi derivanti dall'inquinamento e dallo sfruttamento irrazionale
delle risorse naturali. Non si tratta semplicemente di ridisegnare - e non sarebbe
comunque poca cosa - le priorità della nostra agenda politica. Su questi temi si
ridefinisce l'identità stessa della sinistra internazionale, di una nuova sinistra,
capace al tempo stesso di avere valori e produrre innovazione.