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"Morali e responsabili per ricominciare"

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Questo articolo appare sul numero 57 di Reset attualmente in edicola

La politica si deve occupare solo di individuare i campi degli schieramenti, di definire la geometria più o meno coerente delle alleanze, di mediare tra gli interessi degli individui e delle categorie oppure tutto questo non basta?

La politica non può mai essere soltanto soluzione dei bisogni o semplice organizzazione degli interessi, deve prospettare dei valori. E a quei valori coniugare di volta in volta la rappresentanza. Bisogna comprendere che se la politica prescinde dai valori e non è in grado di rispondere alle nuove "domande di senso" perde forza di attrazione. Oggi il rischio è che la scomparsa dell’ideologia, un limite del Novecento ma anche una forza capace di dare una gerarchia di valori e di appartenenza, porti con sé anche la scomparsa di idealità. Questo rischio è mortale per la politica: perché una quota consistente di persone non soltanto rischia di non essere più attratta - che già sarebbe un problema serio - ma addirittura può essere allontanata da una politica incapace di prospettare valori.

Questo rischio riguarda forse non solo l’organizzazione della politica.

Nel declino o nell’impoverimento degli involucri della rappresentanza politica, i partiti tradizionali, e dall’altra parte invece nell’esplosione della rappresentanza sociale in varie forme, da quella degli interessi (sindacato, associazione d’impresa) fino a quelle vastissime del terzo settore (che possiamo definire in genere di volontariato), c’è un po’ la conferma di questo rischio. Anche nella rappresentanza sociale, dove sono marcati gli interessi, la loro difesa dev’essere legata – è legata – a gerarchie di valori. Questo spiega, ad esempio, perché in un paese come il nostro, ma anche in Europa, dove il fenomeno era inizialmente rovesciato, c’è un fortissimo prevalere del sindacalismo confederale rispetto a quello autonomo.

Qual è la differenza essenziale tra i due?

Il fatto che nel primo la rappresentanza di interessi è mediata sulla base di valori. Il sindacato confederale ha dei valori che sono i diritti, la solidarietà; gli autonomi rappresentano solo interessi. Se guardiamo oltre la rappresentanza sociale, al mondo vastissimo del volontariato o del terzo settore, il fenomeno è ancora più marcato. Perché una persona decide di dedicare una parte del suo tempo ad attività che tradizionalmente sono organizzate in forma volontaria? Perché lì identifica alcuni dei suoi valori: il prendersi carico e cura degli altri ha come fondamento l’esercizio della solidarietà, cioe’ un valore radicato in tantissime persone e in tante culture anche diverse tra di loro, da quella laica liberale sino a quella religiosa. Lì si ritrova una gerarchia di valori che altrove, nella politica, si è persa. Non si giustificherebbe diversamente il rinsecchimento delle antiche forme di rappresentanza politica. Per questo è importante che la politica torni ad assorbire ed esprimere. Una dimensione astratta e asettica della politica è pericolosissima per tutti.

La valorizzazione del rischio individuale, la richiesta di una maggiore responsabilità degli individui verso se stessi e la società, richiedono un più intenso dialogo tra cittadini e politica sulle scelte di vita e sui loro motivi.

Io credo tantissimo nella funzione dell’individuo e nella sua assunzione di responsabilità. Il punto e’ che non ci deve essere una scissione tra l’assunzione di responsabilità individuale e quella collettiva. Dipende molto da quali sono gli atti e le forme con le quali questi atti vengono realizzati in politica e in genere nella gestione dell’attività umana. La connessione tra l’assunzione di responsabilità e i valori è semplice. Lo stesso esercizio di responsabilità non è mai astratto, riguarda attività concrete del vivere umano. Quello che invece è sbagliato e pericoloso – e pure si tratta di una tendenza visibile in campo e che ha effetti distruttivi – è l’idea che l’esercizio delle responsabilità debba avvenire senza un quadro di riferimento, come scelta tecnocratica astratta che si realizza prescindendo dalla politica e dalle sue forme anche quelle più tradizionali. Qui si tende a fare una contrapposizione, che io respingo, tra le varie forme della rappresentanza politica – la dimensione collettiva – e la società civile intesa come somma di figure singole che esercitano responsabilità scisse dal contesto – la dimensione individuale –: da una parte una società civile senza cemento e coesione, dall’altra una politica insensibile per le problematiche individuale. Ora, io credo che la scissione tra le due dimensioni non sia inevitabile.

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Parliamo in concreto di dimensione morale della politica. Tony Blair ha lanciato per esempio il suo manifesto morale proponendo una grande battaglia sociale contro il fenomeno delle gravidanze tra le adolescenti. È giusto? E’ un modo nuovo di fare politica?

Per loro è nuovo, per noi no. La politica si è sempre occupata di queste cose. Le battaglie per l’emancipazione femminile sono un esempio clamoroso di valori che non sempre sono nati dentro la politica ma che poi la politica ha aiutato, ha organizzato, ha rappresentato. Capisco che può colpire una scelta come quella di occuparsi delle bambine dodicenni. Forse vuole dire semplicemente che lì il livello di separazione tra i bisogni delle persone e la politica era oramai paradossale.

Cos’ha da dire la politica rispetto alla crisi delle cosiddette istituzioni conchiglia: il posto fisso, la fabbrica , la comunità locale la famiglia. Non nasce da questa crisi il bisogno di un dialogo politico più ricco di contenuti umani e psicologici. La politica deve ritrarsi da questi terreni oppure deve affrontarli? È giusto dire che il tema della "vita buona" o della felicità debba rientrare nel discorso pubblico?

La felicità dev’essere un obbiettivo costante per la politica. La felicità è fatta da condizioni materiali che migliorano, progressivamente, ma deve essere fatta anche dal rispetto dei valori. Qui ci sono una dimensione materiale e una culturale che non vanno mai separate. E’ evidente che in una società che si trasforma la politica deve essere in grado in primo luogo di orientare queste trasformazioni. Non le può solo stare a guardare come ricaduta di processi economico-sociali indotti dall’esterno. Se si limita a razionalizzare fatti già avvenuti allora è sconfitta. Siamo di fronte a un cambiamento delle dinamiche economiche e anche delle forme di rappresentanza dei bisogni delle persone, la politica se ne deve occupare. La felicità è stabilità e certezza di un percorso. Uno dei fenomeni più preoccupanti e pericolosi nella società moderna è proprio l’opposto: l’incertezza, l’instabilità in tutte le sue forme, da quelle istituzionali a quelle del vivere della singola persona.

Parliamo per esempio del rapporto tra posto fisso e flessibilità.

È evidente che se la politica è in grado di programmare un’economia ricca di occasioni di lavoro e di rendere i cittadini molto forti e consapevoli di se’, con un alto livello di scolarità e di formazione, sconfigge una delle cause principali di incertezza. La frammentazione delle carriere di lavoro deve avere come compensazione immediata un numero di occasioni elevate e dall’altra parte sul versante della domanda serve consapevolezza , padronanza di se e degli elementi di conoscenza che permettono di scegliere. Se ci sono queste due cose la politica ha vinto la sua sfida, ha trasformato un elemento negativo, che è quello della frammentazione che genera instabilità, in un’occasione, in una potenzialità: il singolo individuo può scegliere tra tante occasioni e lo fa consapevolmente disponendo di se’, del suo tempo, della sua vita. Per dirlo con una banalità, è molto più importante poter fare tanti lavori diversi di qualità che farne uno solo per tutta la vita di poca qualità. Se guardiamo alle generazioni che ci hanno preceduto - e in parte anche alla nostra - è vero che molti hanno avuto la certezza del posto fisso, però erano 40 anni da operaio alla catena. Un posto fisso voleva dire stabilità e certezza, accompagnati però da un contraltare negativo: bassa qualità del lavoro e del reddito, e di conseguenza bassa qualità della vita. Il che portava alla stratificazione fra chi aveva il posto fisso di qualità e chi aveva il posto fisso di basso profilo. Era una società più stabile, senza potenziale angoscia, ma con un’articolazione e stratificazioni di classe difficilissime da rompere. La politica deve rovesciare questa situazione. I nostri vecchi hanno riempito la valigia e sono andati lontano da casa semplicemente perché non potevano scegliere niente. Questa non era mobilità o flessibilità: non erano forme diverse di prestazione nello spazio e nel tempo, nuove occasioni di scelta e di crescita Oggi per affrontare seriamente questo problema il presupposto è un rinnovato dialogo tra politica e cittadini capace di ridare senso alle scelte di vita.

Esiste un problema di moralizzazione della politica?

La moralità è alla base della qualità della politica. La "sana" politica non è solo efficacia nell’operare è anche capacità di costruire consenso con la credibilità degli obbiettivi e con un certo modo di perseguirli. Una politica torbida, non trasparente può avere obbiettivi alti ma non otterrà consenso. E poi c’è anche il problema della linearità di comportamento: guai all’improvvisazione. Si può cambiare rotta in modo consistente ma deve essere chiara ed esplicitata la ragione per cui in certe circostanze si muta orientamento.

Quali sono le ragioni delle difficoltà del centrosinistra italiano?

Il paradosso della politica italiana sta nel fatto che nella prima fase – quella dell’Ulivo - si creano le condizioni per un quadro economico e sociale migliore sia pure tra tantissime difficoltà; nella seconda – governo D’Alema - quando le condizioni sono oggettivamente migliori l’alone positivo si attenua e addirittura scompare con le prime verifiche anche elettorali non positive. È un paradosso sul quale la sinistra farebbe bene a interrogarsi. Nell’appannamento sembra ci sia chiaro il diffondersi di una convinzione: che il ritorno del "partito tradizionale" finisca per essere prevalente rispetto agli elementi di trasformazione e di cambiamento che l’Ulivo aveva indotto. Ci si ritrova con 12 organizzazioni politiche. Non si è mai visto. E questo è il risultato di un modello elettorale imperfetto. Per cui ci veniamo a trovare adesso in un oggettivo processo di riflusso: da un ipotesi bipolare che favoriva le aggregazioni nuove si è ricaduti in una situazione che produce non soltanto la coalizione come forma di governo ma anche la frammentazione nella coalizione. Continuo a pensare che la legge elettorale non sia cosa marginale, anzi è fondamentale per spingere verso forme di bipolarismo e costringere le forze che si confrontano a ricercare il consenso sulla base di un programma che sia la traduzione materiale dei propri valori. Bisogna fare le cose insieme: valori, diritti e bisogni da una parte e, dall’altra, una struttura di rappresentanza adeguata che si ponga il problema di intercettare l’ansia, l’incertezza e la solitudine determinati da fasi di cambiamento rapido. Non c’è più l’ideologia? Ci deve essere però un’idealità forte che in verità oggi non si vede.

 

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