Stiamo perdendo il filo. Tutti stanno
perdendo il filo della politica italiana. Non è più bene chiara la posta. Qual è?
Imbarazzante, si propone la domanda più inquietante: perché dobbiamo occuparci di loro?
Se non fossimo cittadini di provata fede democratica, con la vocazione ad esercitare con
pazienza il diritto di voto ogni volta che si aprono le urne, sarebbe giunto il momento di
occuparsi di altro, di immergersi, come si dice nella "società civile",
di darsi a più redditizie attività, a più divertenti hobbies, a più seducenti
imprese intellettuali ed artistiche, alla pesca. Altro che la politica. Perdere il filo
vuol dire per esempio sentir parlare di qualcuno che vuole "logorare" il governo
e il suo capo, di un governo che non si vuole far "logorare", di qualcuno che
vuole il rimpasto, di qualcuno che non lo vuole e non avere chiaro perché tutto
questo ci dovrebbe riguardare. Logorare qualche cosa e a quale scopo?
Corroborare che cosa e a quale scopo? Ecco il problema: dove sta il filo? Quel filo che
ci fa decidere se un governo, una coalizione, un gruppo dirigente ci stanno a cuore. Quel
filo che ci dice se cè una ragione di appartenenza, di simpatia, di interesse, di
cultura, di comune progetto per cui ci sentiamo in qualche maniera legati ad una
rappresentanza politica e alle sue sorti. O se quelle "sorti" sono soltanto
"loro", non "nostre".
Perdere il filo vuol dire non essere più ben sicuri che la continuazione o la
fine di una compagine di governo siano la continuazione o la fine di qualcosa di
significativo per noi, per voi, per chi volete, al di fuori del personale di governo. La
visione panoramica della politica italiana si è così annebbiata che non sapremmo dire
con certezza se la sconfitta della formazione attualmente in carica sarebbe una sconfitta
per la socialdemocrazia europea, sezione italiana, per un gruppo di rinnovatori
liberaleggianti, per un gruppo di conservatori centristi. Sullo sfondo rimane la
prospettiva, sempre leggermente inquietante che chiunque governi attualmente impedisce
comunque a Berlusconi di prenderne il posto. Ma questo conforto ex negativo è
sempre più sottile. Di certo non basta per alimentare un dialogo tra la leadership
in sella e una cittadinanza più annoiata che terrorizzata dallidea di veder
cambiare il governo. Così non va.
Nessun rimpianto delle forti e tempestose passioni della politica di un tempo. Sappiamo
che quelle passioni si portavano dietro un mare di guai, di scontri ideologici troppo
assoluti, la guerra fredda, rischi per la democrazia. Sappiamo anche che un po di
apatia i teorici classici della democrazia insegnano è fortunatamente il
segno di una certa stabilità. Ma era necessario incoraggiare lapatia fino a perdere
di vista il filo di un discorso pubblico? E cè qualcuno, nella vita politica
italiana di oggi, che abbia davvero voglia di riprendere un dialogo con lopinione
pubblica sui problemi italiani?
Nel numero scorso di "Reset" abbiamo posto il problema di una politica che ha
perso l"anima" e che ne va cercando unaltra. Un problema che è
quasi tutto della sinistra e delle maggioranze di centrosinistra, perché gli altri, la
destra neoliberale, unanima ce lha e coincide con quella del sistema
economico, che è sempre più cinico del più cinico dei dirigenti politici.
Abbiamo visto anche che non si tratta di un problema soltanto italiano. La costruzione
monetaria europea è stata una tappa rilevante per tutti, ma il cammino forzato verso
lEuro ha avuto dei costi, in gran parte inevitabili, in termini di occupazione, ha
prodotto anche molta incertezza sul cammino futuro, ha fatto molte concessioni, anche
queste largamente inevitabili, alle ragioni delleconomia, ma ha ampiamente svuotato
la discussione politica europea dei contenuti umani delleconomia. E questo non era
inevitabile. Solo una male intesa lezione di ortodossia neoliberale poteva spogliare la
scena pubblica di ogni ispirazione umanistica, solo degli interpreti frastornati dalla
lunga egemonia conservatrice sul mondo occidentale potevano confondere la liquidazione
delle grandi narrative salvifiche con lentrata nellepoca della tecnocrazia
politica. È davvero un segno curioso dei tempi che discorsi sullumanità e il
calore di una nuova politica appaiano come novità folgoranti (e procurino trionfi
elettorali) di una destra populista che arriva alle prime posizioni in Austria e in
Svizzera. O che i tentativi di un filosofo come Peter Sloterdijk, con la sua teoria delle
"Sfere" (si veda la documentazione su "CafféEuropa",
www.caffeeuropa.it), di descrivere le laceranti incertezze della coscienza pubblica
contemporanea e di ridefinire la posizione dellindividuo esposto ai venti
delleconomia globale senza i vecchi solidi "involucri" protettivi (della
famiglia, del posto fisso, di unidentità sicura), vengano quasi istintivamente
interpretati come il portato di una cultura di destra. Non sono novità assolute. Lo
sapevamo già che i successi elettorali di Le Pen avevano le loro basi più nelle banlieu
che nei salotti della borghesia parigina, tantè vero che il restyling
della sinistra francese aveva puntato in una direzione più popolare, anche sotto il
profilo dellimmagine, oltre che dei programmi.
Ben vengano allora le fatiche di chi cerca di curare questo disagio con terapie
democratiche, razionali e orientate al progresso sociale (concetto che credo debba essere
riabilitato, in attesa di meglio). Ben venga il richiamo di Amartya Sen al valore della
"fraternità". Ben vengano gli sforzi di Blair di tradurre il progetto della
"terza via" in un disegno che manifesta apertamente i suoi caratteri
"morali". In Italia un tentativo in questa direzione contrastare la
disumanizzazione della politica non sembra voler cominciare, nonostante i segnali
elettorali, nonostante i sondaggi sullimpopolarità della politica. Abbiamo
interpellato tre leader della sinistra italiana, Giuliano Amato, Walter Veltroni, Sergio
Cofferati, i quali si mostrano del tutto in sintonia con questa esigenza. La "talpa
liberale", di cui parla Amato, ha ben scavato la nostra società portando
enormi benefici su un terreno che avrà ancora bisogno di scavi per lungo tempo. Ma
il lavoro della talpa, che alleggerisce gli individui da vecchi fardelli, non significa in
alcun modo che sia necessaria la desertificazione della scena pubblica,
leliminazione di una comunicazione chiara, diretta, simpatetica sui progetti
politici. Il cinismo del sistema economico può coincidere con il cinismo dei ruoli
di comando solo tra i responsabili dei budget aziendali (e anche lì con molta fatica).
Può essere praticato come metodo di governo dai premier neoliberali (peraltro quasi tutti
spinti per il momento allopposizione), ma non può diventare di sicuro l
"anima" della sinistra. Perché la sinistra non può accettare che la politica
diventi cruda professionalità, o come sostiene Cofferati, tecnica di governo senza ideali
da servire; infatti, in quel caso essa appare al servizio di nientaltro che il
benessere e la gratificazione degli uomini di governo, il che non è particolarmente
avvincente per tutti noi. Lo è comunque molto meno di quanto non interessi a milioni di
appassionati il benessere dei più amati cantautori, attori, campioni dello sport. Se
vogliamo dire il concetto con il linguaggio della semiologia il politico è in sé un
significante, non un significato. E deve badare a non svuotarsi di contenuto, a non
perdere per strada il messaggio per cui gli elettori lo hanno messo al potere o ce lo
lasciano, a non diventare un puro veicolo di se stesso, il simbolo di un messaggio che non
cè.
Non si tratta di tornare ai paternalismi dei vecchi partiti di massa (si veda la
discussione sul saggio di Peter Mair), ma neppure di cadere nella trappola per cui tutto
ciò che ha a che fare con le idee, gli ideali, il "senso"
dellazione pubblica sia una violazione dei principi fondamentali di libertà
degli individui. La giurisdizione della politica (Amato) è più ampia di quella
dellazione di governo. La fase della formazione di una volontà pubblica,
attraverso libere contrapposizioni di opinioni diverse, ha ancora bisogno di
organizzazioni politiche, non si può ridurre al corto circuito mediatico tra uomini
di governo e grandi audience, via tv. Che il segretario dei Ds dica che "ancora non
ci siamo" fa bene sperare. Il mestiere della politica, una volta via dai vecchi
partiti di massa, diventa più difficile. Si richiedono interpretazioni più
sofisticate e non più garantite dal marchio di una grande organizzazione. Proprio
come nel lavoro, nellepoca della flessibilità, si richiede un maggiore
intervento della intelligenza e autonomia dei singoli, cosi nel rapporto tra
politica e cittadini non ci sono più automatismi "fordisti" da catena di
montaggio. Quando si chiede agli individui un grado di responsabilità enormemente
più grande (nella costruzione di una carriera contributiva pubblica-privata, nella
disponibilità alla formazione continua, nel lasciare un posto di lavoro per cercarsene un
altro) poi diventano effettivamente più autonomi, anche nel giudizio sulle cose
pubbliche. E dalla politica pretendono molto di più, a cominciare dal confronto,
cui aspirano, sul senso generale di unazione di governo.