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Stiamo perdendo il filo

Giancarlo Bosetti

 

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Questo articolo appare sul numero 57 di Reset attualmente in edicola

Stiamo perdendo il filo. Tutti stanno perdendo il filo della politica italiana. Non è più bene chiara la posta. Qual è? Imbarazzante, si propone la domanda più inquietante: perché dobbiamo occuparci di loro? Se non fossimo cittadini di provata fede democratica, con la vocazione ad esercitare con pazienza il diritto di voto ogni volta che si aprono le urne, sarebbe giunto il momento di occuparsi di altro, di immergersi, come si dice nella "società’ civile", di darsi a più redditizie attività’, a più divertenti hobbies, a più seducenti imprese intellettuali ed artistiche, alla pesca. Altro che la politica. Perdere il filo vuol dire per esempio sentir parlare di qualcuno che vuole "logorare" il governo e il suo capo, di un governo che non si vuole far "logorare", di qualcuno che vuole il rimpasto, di qualcuno che non lo vuole e non avere chiaro perché’ tutto questo ci dovrebbe riguardare. Logorare qualche cosa e a quale scopo?

Corroborare che cosa e a quale scopo? Ecco il problema: dove sta il filo? Quel filo che ci fa decidere se un governo, una coalizione, un gruppo dirigente ci stanno a cuore. Quel filo che ci dice se c’è una ragione di appartenenza, di simpatia, di interesse, di cultura, di comune progetto per cui ci sentiamo in qualche maniera legati ad una rappresentanza politica e alle sue sorti. O se quelle "sorti" sono soltanto "loro", non "nostre".

Perdere il filo vuol dire non essere più’ ben sicuri che la continuazione o la fine di una compagine di governo siano la continuazione o la fine di qualcosa di significativo per noi, per voi, per chi volete, al di fuori del personale di governo. La visione panoramica della politica italiana si è così annebbiata che non sapremmo dire con certezza se la sconfitta della formazione attualmente in carica sarebbe una sconfitta per la socialdemocrazia europea, sezione italiana, per un gruppo di rinnovatori liberaleggianti, per un gruppo di conservatori centristi. Sullo sfondo rimane la prospettiva, sempre leggermente inquietante che chiunque governi attualmente impedisce comunque a Berlusconi di prenderne il posto. Ma questo conforto ex negativo è sempre più’ sottile. Di certo non basta per alimentare un dialogo tra la leadership in sella e una cittadinanza più annoiata che terrorizzata dall’idea di veder cambiare il governo. Così non va.

Nessun rimpianto delle forti e tempestose passioni della politica di un tempo. Sappiamo che quelle passioni si portavano dietro un mare di guai, di scontri ideologici troppo assoluti, la guerra fredda, rischi per la democrazia. Sappiamo anche che un po’ di apatia – i teorici classici della democrazia insegnano – è fortunatamente il segno di una certa stabilità. Ma era necessario incoraggiare l’apatia fino a perdere di vista il filo di un discorso pubblico? E c’è qualcuno, nella vita politica italiana di oggi, che abbia davvero voglia di riprendere un dialogo con l’opinione pubblica sui problemi italiani?

Nel numero scorso di "Reset" abbiamo posto il problema di una politica che ha perso l’"anima" e che ne va cercando un’altra. Un problema che è quasi tutto della sinistra e delle maggioranze di centrosinistra, perché gli altri, la destra neoliberale, un’anima ce l’ha e coincide con quella del sistema economico, che è sempre più’ cinico del più’ cinico dei dirigenti politici. Abbiamo visto anche che non si tratta di un problema soltanto italiano. La costruzione monetaria europea è stata una tappa rilevante per tutti, ma il cammino forzato verso l’Euro ha avuto dei costi, in gran parte inevitabili, in termini di occupazione, ha prodotto anche molta incertezza sul cammino futuro, ha fatto molte concessioni, anche queste largamente inevitabili, alle ragioni dell’economia, ma ha ampiamente svuotato la discussione politica europea dei contenuti umani dell’economia. E questo non era inevitabile. Solo una male intesa lezione di ortodossia neoliberale poteva spogliare la scena pubblica di ogni ispirazione umanistica, solo degli interpreti frastornati dalla lunga egemonia conservatrice sul mondo occidentale potevano confondere la liquidazione delle grandi narrative salvifiche con l’entrata nell’epoca della tecnocrazia politica. È davvero un segno curioso dei tempi che discorsi sull’umanità’ e il calore di una nuova politica appaiano come novità’ folgoranti (e procurino trionfi elettorali) di una destra populista che arriva alle prime posizioni in Austria e in Svizzera. O che i tentativi di un filosofo come Peter Sloterdijk, con la sua teoria delle "Sfere" (si veda la documentazione su "CafféEuropa", www.caffeeuropa.it), di descrivere le laceranti incertezze della coscienza pubblica contemporanea e di ridefinire la posizione dell’individuo esposto ai venti dell’economia globale senza i vecchi solidi "involucri" protettivi (della famiglia, del posto fisso, di un’identità sicura), vengano quasi istintivamente interpretati come il portato di una cultura di destra. Non sono novità’ assolute. Lo sapevamo già che i successi elettorali di Le Pen avevano le loro basi più nelle banlieu che nei salotti della borghesia parigina, tant’è vero che il restyling della sinistra francese aveva puntato in una direzione più popolare, anche sotto il profilo dell’immagine, oltre che dei programmi.

Ben vengano allora le fatiche di chi cerca di curare questo disagio con terapie democratiche, razionali e orientate al progresso sociale (concetto che credo debba essere riabilitato, in attesa di meglio). Ben venga il richiamo di Amartya Sen al valore della "fraternità". Ben vengano gli sforzi di Blair di tradurre il progetto della "terza via" in un disegno che manifesta apertamente i suoi caratteri "morali". In Italia un tentativo in questa direzione – contrastare la disumanizzazione della politica – non sembra voler cominciare, nonostante i segnali elettorali, nonostante i sondaggi sull’impopolarità’ della politica. Abbiamo interpellato tre leader della sinistra italiana, Giuliano Amato, Walter Veltroni, Sergio Cofferati, i quali si mostrano del tutto in sintonia con questa esigenza. La "talpa liberale", di cui parla Amato, ha ben scavato la nostra società’ portando enormi benefici su un terreno che avrà’ ancora bisogno di scavi per lungo tempo. Ma il lavoro della talpa, che alleggerisce gli individui da vecchi fardelli, non significa in alcun modo che sia necessaria la desertificazione della scena pubblica, l’eliminazione di una comunicazione chiara, diretta, simpatetica sui progetti politici. Il cinismo del sistema economico può’ coincidere con il cinismo dei ruoli di comando solo tra i responsabili dei budget aziendali (e anche lì con molta fatica). Può essere praticato come metodo di governo dai premier neoliberali (peraltro quasi tutti spinti per il momento all’opposizione), ma non può diventare di sicuro l’ "anima" della sinistra. Perché la sinistra non può accettare che la politica diventi cruda professionalità, o come sostiene Cofferati, tecnica di governo senza ideali da servire; infatti, in quel caso essa appare al servizio di nient’altro che il benessere e la gratificazione degli uomini di governo, il che non è particolarmente avvincente per tutti noi. Lo è comunque molto meno di quanto non interessi a milioni di appassionati il benessere dei più amati cantautori, attori, campioni dello sport. Se vogliamo dire il concetto con il linguaggio della semiologia il politico è in sé un significante, non un significato. E deve badare a non svuotarsi di contenuto, a non perdere per strada il messaggio per cui gli elettori lo hanno messo al potere o ce lo lasciano, a non diventare un puro veicolo di se stesso, il simbolo di un messaggio che non c’è.

Non si tratta di tornare ai paternalismi dei vecchi partiti di massa (si veda la discussione sul saggio di Peter Mair), ma neppure di cadere nella trappola per cui tutto ciò’ che ha a che fare con le idee, gli ideali, il "senso" dell’azione pubblica sia una violazione dei principi fondamentali di libertà’ degli individui. La giurisdizione della politica (Amato) è più’ ampia di quella dell’azione di governo. La fase della formazione di una volontà’ pubblica, attraverso libere contrapposizioni di opinioni diverse, ha ancora bisogno di organizzazioni politiche, non si può’ ridurre al corto circuito mediatico tra uomini di governo e grandi audience, via tv. Che il segretario dei Ds dica che "ancora non ci siamo" fa bene sperare. Il mestiere della politica, una volta via dai vecchi partiti di massa, diventa più’ difficile. Si richiedono interpretazioni più sofisticate e non più’ garantite dal marchio di una grande organizzazione. Proprio come nel lavoro, nell’epoca della flessibilità’, si richiede un maggiore intervento della intelligenza e autonomia dei singoli, cosi’ nel rapporto tra politica e cittadini non ci sono più automatismi "fordisti" da catena di montaggio. Quando si chiede agli individui un grado di responsabilità’ enormemente più’ grande (nella costruzione di una carriera contributiva pubblica-privata, nella disponibilità alla formazione continua, nel lasciare un posto di lavoro per cercarsene un altro) poi diventano effettivamente più’ autonomi, anche nel giudizio sulle cose pubbliche. E dalla politica pretendono molto di più’, a cominciare dal confronto, cui aspirano, sul senso generale di un’azione di governo.

 

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