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"Portiamoci dietro il meglio del passato"

Giuliano Amato con Giancarlo Bosetti e Silvio Trevisani

 

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Questo articolo appare sul numero 57 di Reset attualmente in edicola

Quando si parla del contenuto umanistico della politica, dei bisogni non immediatamente legati agli interessi economici, delle "domande di senso" che la gente rivolge ai politici, di solito un liberale risponde: no lasciamo fuori questi problemi, non sono attinenti. Lei pensa che questi temi debbano o no influenzare la costruzione di un discorso un politico per i nostri tempi?

Difficilmente ha senso che questi discorsi facciano parte delle azioni legislative o regolatorie di uno Stato anche se questa stessa affermazione va presa con un certo relativismo perché è direttamente legata all’altra questione: si può legiferare su temi che investano l’etica, la morale individuale e collettiva? La risposta di un liberale è tendenzialmente no, anche se deve ammettere che entro certi limiti è così, e gli esempi vengono da sè in un modo o nell’altro: tu l’interruzione della gravidanza la regoli. Un liberale preferirà certi modi a certi altri ma non potrà negare che comunque questa stessa materia rientra nell’ambito della regolazione. Detto questo, però, va anche aggiunto che non c’è affatto coincidenza tra azioni di governo e giurisdizione della politica.

 

È una differenza di cui non si parla spesso. Eppure sembra che essa conti.

La politica è qualcosa di molto più ampio delle azioni di governo: è uno dei modi attraverso i quali ciascuno di noi identifica se stesso nel contesto di una società. L’essere partecipi di una identità collettiva politica può concorrere a dare senso alla vita, e qui si tocca un punto cruciale in rapporto ai cambiamenti che abbiamo davanti. Noi abbiamo vissuto per secoli in un contesto nel quale c’erano una serie di contenitori della nostra esistenza che concorrevano a dare un senso alla medesima: la famiglia, il convento, l’esercito, la burocrazia. Poi, nel diciannovesimo secolo per gli esclusi dai conventi e dagli eserciti sono apparsi i partiti e i sindacati e buona parte del senso della vita era dato da queste strutture organizzate che ti situavano, ti davano uno status, ti facevano percepire dagli altri in una certa condizione.

Pensiamo a tutta la letteratura mitteleuropea a cavallo del secolo: la fine dell’impero austro ungarico, la fine degli eserciti hanno rappresentato fonte di crisi esistenziali per migliaia e migliaia di uomini, soprattutto maschi, perché essere ufficiali di quell’esercito rappresentava, come in decine di romanzi abbiamo percepito, ragione di vita. Questo naturalmente riguardava le élites. Poi sono arrivati gli esclusi, e per loro sono stati prima i sindacati e poi i partiti a dare un senso.

 

La partecipazione alla vita sindacale e politica diventava parte dell’esistenza.

Pensiamo a questa cosa bellissima, a quello che è stato il "tu" per le prime organizzazioni del movimento operaio. Finalmente l’individuo aveva un’identità collettiva non subordinata: questo è stato il "tu". Prima, io ricevevo del "tu" e davo del "voi" agli altri,. La mia condizione era segnata da questo mio essere subordinato, poi nelle Camere del lavoro, nei primi partiti degli esclusi ci si dava tutti del "tu". Eravamo esseri umani ed eravamo eguali; cosi’ si è sperimentata l’eguaglianza, il senso dell’eguaglianza. Un’identità individuale si è affermata attraverso un’identità collettiva. Essere perché partecipi di questo movimento.

 

Cosi’ nel passato. Ma ora le cose stanno cambiando.

La fine del ventesimo secolo ha cancellato queste cose, per mille ragioni: non tanto e non soltanto perché ha cancellato la classe generale, ma perché aveva nel frattempo distorto e fatto emergere il peso dell’organizzazione sull’identità dei singoli, aveva fatto emergere un’identità collettiva costruita su linee gerarchiche essa stessa. C’è forse una qualche unilateralità quando uno come me dice queste cose, perché la cosiddetta identità operaia non è mai stata un’identità solo subita, è sempre rimasto quel senso orizzontale di cui parlavo, non verticalizzato. Ma è fuor di dubbio, nella migliore delle ipotesi, che la inclusione degli esclusi è avvenuta. Ha fatto crescere in ciascuno il senso di sé, ha fatto meglio percepire che io sono in grado di pensare con la mia testa, mi ha portato dalla condizione di analfabeta che, come unica risorsa ho quella di poter dare del "tu" agli altri, alla formazione, all’istruzione diffusa, all’alfabetizzazione, ai figli che crescono nella scala sociale rispetto ai padri, e ha fatto emergere una serie di Io insofferenti delle derivate gerarchiche dell’organizzazione e ha portato a un mondo che oltre a perdere i confini interni cominciava a perdere anche quelli esterni. Esseri umani che hanno cominciato a incontrarsi, a muoversi, a creare aggregazioni in precedenza impensabili. L’orizzonte dei figli era la famiglia fino ad un’età molto avanzata, poi mille orizzonti si sono aperti per i figli e per i padri che hanno cominciato a uscire dai primitivi confini partitici e sindacali in cui erano. Ciascuno con il proprio Io.

 

Il processo di individualizzazione della vita moderna ha rimescolato le carte, ma come?

Ci sono una serie di vicende che hanno punteggiato tutto ciò. Una si può ricordare per il suo valore emblematico, è quella che porta al superamento, nel mercato del lavoro, della chiamata numerica a favore di quella nominativa. All’origine la chiamata numerica è una difesa dei più deboli perché l’uno vale l’altro nell’offrire pura forza fisica e allora la scelta dell’uno anziché dell’altro può avere motivazioni discriminatorie. Poi, si tratterà di mettere a disposizione del datore di lavoro non il braccio ma la mente. E a quel punto diventerà discriminatorio che ciascuno non possa far valere se stesso, che sia soltanto un numero e non una persona a far valere se stessa. E allora si inizierà a contrattare individualmente l’ingresso nel posto di lavoro. Questa è stata una vicenda chiave di un cambiamento che è molto più largo e che poco alla volta fa emergere l’identità individuale al di sopra dell’identità collettiva. Ciascuno è un io per sé. Cedono le strutture gerarchiche. Ciascuno è solo. È la talpa della libertà, che da quando è entrata nella storia secoli addietro ha inesorabilmente allargato la propria sfera d’azione: un principio universale inizialmente praticato per pochi non poteva non coinvolgere i più. Sta veramente accadendo che ciascuno è libero e che liberi non siano soltanto alcuni, ma masse di individui. Ma essere liberi significa essere soli davanti alle proprie scelte. E qui la libertà, oltre ad essere soluzione, diventa anche problema: perché quanto più si è soli, tanto più c’è bisogno di trovare un senso nuovo rispetto a quello che le strutture gerarchiche precedenti offrivano.

Senso della vita e protezione venivano offerti pero’ agli individui anche dal posto fisso dell’epoca fordista, prima dell’epoca della flessibilita’. L’"anziano Fiat" aveva dei punti di riferimento precisi e fonte di identità .

Il posto fisso, perbacco: certo anche l’essere un anziano Fiat è una fonte d’identità, però bisogna stare cinquanta anni alla Fiat per poterne essere partecipi in quei termini. Siamo davanti al vero problema morale di fine secolo: gigantesco, perché la politica non lo può ignorare, perché non può essere lasciato soltanto ai filosofi o alle religioni il compito di riempire di senso queste vite. Si potrà dire: tu una volta che sei libero, il senso lo devi trovare da solo. Perché questo è il significato della libertà. Tutto quello che veniva a te per eteronomia lo devi trovare per autonomia. E quindi sei solo con le tue scelte. Benissimo, ma qui c’è già un insegnamento: non bisogna mai dimenticare che la libertà è una conquista, e ormai una condizione, di milioni di individui, ma non ci si può aspettare che milioni di individui reagiscano alla libertà e vivano nella libertà come le migliaia o le centinaia. Milioni e milioni di esseri umani che sono giustamente liberi possono trovarsi in una condizione di grande incertezza davanti alla vita, ben più delle migliaia o delle centinaia. Perché quando si ragiona in termini di migliaia o centinaia di persone sappiamo che la loro vita è comunque segnata da ruoli, ma sono almeno i ruoli elitari. Le élites non sono mai sole e disarmate davanti alle loro scelte: chi appartiene ad esse un ruolo lo trova, un senso per la sua vita se lo trova comunque offerto. Puoi anche rifiutarlo, ma il problema che ti viene posto è quello di continuare l’azienda di tuo padre. Oppure tuo padre ti manda a prendere un dottorato che ti fa trovare un altro posto importante. Oppure sei una ricca signora che anche davanti ad una crisi familiare ha vie alternative per risolvere il suo problema.

Ma non è cosi’ per tutti.

Per i milioni e milioni di esseri umani questa scelta può essere drammaticamente tra la solitudine e un mondo che fa paura. C’era un passaggio, che ho trovato bellissimo, nel film "Il pianista dell’Oceano" di Tornatore. Ed è quando il protagonista decide di uscire dalla nave, si ferma a lungo sulla scaletta ma poi rientra e alla fine spiegherà: "Io per tutta la vita ho vissuto qua dentro, il mio mondo era tutto qua dentro, là fuori c’erano troppe opzioni. Da che parte dovevo andare: a destra a sinistra, quale strada dovevo prendere? Anche per vivere per organizzare la mia vita pratica era impossibile. Allora sono rientrato". Allora, milioni e milioni di esseri umani, quanto più deboli sono nella società, tanto più si trovano davanti a opzioni che fanno paura, che atterriscono.

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Rieccoci al problema delle scelte di vita e delle "domande di senso".

I milioni hanno bisogno di trovare un senso. La grande domanda del nostro tempo è: che cosa succede se non lo trovano? Mi viene in mente un altro film, "Taxi Driver", dove la mancanza di senso genera una implosione che può provocare l’impensabile nei rapporti con gli altri, fino alla violenza piu’ folle. Anche se questo è un esempio estremo. Quello che conta è che il problema si pone da sotto, e cioè nella coscienza di ciascuno, ma anche da sopra, e cioè ai fini del governo di una società cosiffatta. Io sono un convintissimo assertore, e questo fa parte della mia impostazione fondamentalmente liberale, che gli esseri umani sono animali di relazione, che la società è un tessuto fatto di relazioni tra persone, che ciascuno di noi vive attraverso le relazioni che ha con gli altri. E quindi da sotto, se vengono meno la capacità o la possibilità di stabilire queste relazioni, manca una componente essenziale della vita e della esplicazione della stessa libertà: libertà infatti è responsabilità verso se stessi e verso gli altri e deve essere praticabile su entrambi i fronti. Da sopra, c’è il problema del governo di una società democratica, perché in una società che riconosce, e non può non riconoscere, la libertà di tutti, la maggior parte delle scelte da cui dipende il funzionamento della società. In una società di democrazia liberale la maggior parte delle scelte le fanno i singoli. Il confine tra il giusto e l’ingiusto, tra il bene e il male in società come quelle che fronteggiamo oggi non è dato, né dai dettami delle chiese né dalle linee dei partiti, ma dalle bussole che ci sono in ciascuna coscienza. Davanti a milioni e milioni di coscienze sulle quali devi contare, come fai ad avere una ragionevole aspettativa che le scelte saranno quelle giuste? Un esempio che spesso faccio è questo: cosa ci garantisce contro il fatto che un giorno la maggior parte degli italiani non decideranno che il rosso dei semafori è uguale al verde? Il giorno che lo decidono non ci sarà nessun vigile che potrà far funzionare la circolazione. Tu hai bisogno che questa regola sia vissuta dall’interno. Certo, l’esempio è meccanicistico, automobilistico, ma riguarda anche le grandi scelte morali, sul come ciascuno stabilisce la sua relazione con gli altri. È un problema di uso della libertà , di questa straordinaria libertà di cui oggi giustamente gli esseri umani usufruiscono.

Non possiamo non vedere come la libertà’ delle scelte sia anche un problema di governo, se vogliamo una società’ che funzioni. Inesorabilmente perciò il problema entra nell’area della politica e la costringe a mettersi in grado di corrispondere alla ricerca da parte di ciascuno di un senso per la propria vita e quindi di quei collegamenti attraverso i quali la libertà di ciascuno diventa libera vita di relazioni con gli altri. La politica ha uno straordinario interesse a intercettarla tale ricerca. E a farsi intercettare.

 

E c’è il problema di come può’ avvenire questa intercettazione. Ora, il tono generale del discorso pubblico italiano sembra assai distante da questi problemi "di senso". In altri paesi, lo abbiamo visto nei contributi francesi e inglesi dello scorso numero di "Reset" c’è invece una maggiore sintonia tra bisogni ideali e spirituali degli individui e dialogo politico con la leadership? Blair parla espressamente della sua politica come "manifesto morale". Da noi non si esce dal perimetro degli interessi economici. Eppure, parlare per esempio di eliminazione delle pensioni di anzianita’ significa spingere a lavorare alcuni anni in piu’. È un tipico tema che coinvolge questioni di senso della vita. Come mai questo limite italiano?

È possibile per una sorta di reticenza; è possibile per una sorta di impreparazione ad affrontarlo ed è possibile per una sbornia di mercato politico da bipolarismo. Si è immaginato che il bipolarismo implichi semplicemente il fare offerte competitive sul mercato, volte a suscitare il gradimento. La prima frontiera più facile e più semplice è quella di offrire risposte a bisogni pratici, che è anche quello cui i politici sono più abituati: rispondere alle domande legiferando. In genere la politica traduce in leggi e le leggi ,come dicevo all’inizio, entrano solo in minima parte nelle questioni che riguardano il senso della vita, ed è giusto, in fondo, che sia così.

Ma lei ha distinto prima tra sfera del governo e sfera della politica.

E’ infatti su una politica capace di concorrere all’identità che c’è la reticenza: soprattutto dei partiti di sinistra che avvertono il bisogno di cambiare rispetto ai tempi in cui fornivano identità collettive che oggi appaiono coattive davanti all’esplosione di libertà. E così non si è preparati ad affrontare diversamente la questione, col risultato di restare emarginati, o addirittura estraniati, rispetto ai temi che per la coscienza di ciascuno, per il senso che fornisce identità a ciascuno, contano di più.

 

E allora come si fa a spostare la sensibilita’ della nostra politica?

Qui si pone con chiarezza la superiorità del dibattito che ha cominciato a svolgersi nel Regno Unito e che ha cominciato a svolgersi in Francia, su una politica che solo se è esemplificazione del giusto riesce a coinvolgere in direzione della scelta per il giusto i tanti individui che la osservano. Una volta si diceva: a me non interessa che il politico sia ladro, basta che sia efficiente. Ecco, oggi probabilmente una risposta del genere non può più essere data, non perché sia venuto meno il cinismo a questo mondo, ma perché il bisogno di scegliere tra giusto e ingiusto non può lasciar fuori la politica. Almeno da parte di chi sente il bisogno del giusto. Da questo punto di vista io rimasi molto colpito quando lessi alcuni anni fa un’inchiesta dell’ "Economist" sull’Islam e il capitalismo occidentale in cui, sostenendo che l’Islam aveva ragione nell’accusare il capitalismo occidentale di perdita di quei confini etici che ne avevano giustificato largamente lo sviluppo finché la religione aveva funzionato da cornice morale dei comportamenti, l’"Economist" diceva: se la sinistra ha un compito nella società di oggi, quel compito è ridare etica ai comportamenti individuali e collettivi. Perché l’"Economist" si rivolgeva alla sinistra? Perché questo è un bisogno che sente l’elettore di sinistra, abituato alla solidarietà, a riconoscere se stesso anche negli altri, al valore etico della stessa azione collettiva. Questo punto di vista fa parte di un’identità che gli individui che affollano la potenziale platea elettorale della sinistra sentono molto: sono quelli che questo valore leggevano nell’identità di classe, nell’identità sindacale, nell’identità militante, quegli stessi che oggi vorrebbero che questo valore rimanga sia pure reinterpretato, sia pure trasformato e non imposto; e sono quelli, sopraggiunti, che sono indifferenti alla politica perché la considerano una palestra di cinismo.

 

Forse la prudenza dei politici italiani ad avventurarsi sul terreno morale è giustificato dalla terra bruciata fatta da tangentopoli, dai sospetti giustificati da episodi atroci e comici come quello di un dirigente politico arrestato per tangenti subito dopo un comizio contro la corruzione.

Il politico non deve fare la predica contro la corruzione, deve esemplificare una vita non corrotta, che è una cosa diversa. È il problema della riconoscibilità. La politica ha modi diversi di manifestarsi: c’è quella che si esercita sui rami bassi, che è l’essere vicini, il lavorare insieme alla gente comune. E in questo caso c’è uno scambio continuo. Poi c’è la politica fatta dai personaggi che si vedono soltanto in televisione, di cui si legge soltanto sui giornali. Ecco, se questi si mettono a fare delle campagne morali, anch’io in qualche modo me ne risentirei: fai il tuo lavoro – penserei – e io le prediche vado a sentirle da un’altra parte. Da lui o lei mi aspetto che esemplifichi una vita dalla quale non mi sento distante, nella quale posso riconoscere un’identità che è anche mia, una vita fatta di discrezione, di modalità dimesse, di frugalità, che è sempre stata una dote dei dirigenti politici particolarmente amati dall’elettorato, da un certo elettorato. Queste non sono affatto cose minori. Una cosa che per esempio a me da’ molto fastidio è assistere al ricambio tra classi dirigenti di aree politiche diverse e dover constatare poi che una parte almeno di quella nuova finisce inesorabilmente per assimilare le modalità comportamentali di chiunque l’abbia preceduta.

 

L’esperienza socialista è stata, a questo proposito, rovinosa.

No, non mi appunterei in questo modo contro quell’esperienza, anche perché ciò a cui penso in questo momento tende a ripetersi al di là dei colori politici. Quando noi socialisti entrammo al governo la prima volta negli anni ‘60, suscitava in molti di noi quella sana ilarità che avevamo ereditato da una storia di opposizione il fatto che alcuni, appena diventati sottosegretari, se ti invitavano a cena, avevano il cameriere con i guanti bianchi. Ci sembrava ridicolo perché prima non era così: prima si andava a cena e si portava tranquillamente il piatto in cucina. Lui, o lei, la padrona di casa, o tutti e due insieme, servivano e portavano la pentola con la minestra in tavola. Perché era cambiato tutto? Perché erano diventati sottosegretari? E noi ridevamo. Sana risata. Ora, non provocare occasioni per quel genere di risate è già uno stimolo alla sintonizzazione su una lunghezza d’onda che può far percepire al cittadino che abbiamo un’identità comune. Questo non è affatto un dettaglio. È importante, perché il politico ha una visibilità. Questa è una questione etica che conta; e che ne trascina tante altre con sé.

 

Questi aspetti morali del comportamento hanno un legame con la crisi di consenso dei governi di centrosinistra? La crisi sembra riguardare soprattutto la Germania e in buona misura l’Italia, a giudicare dai risultati elettorali e dai sondaggi. Sicuramente pesano altre ragioni. Ma, per esempio, non credo che un certo risentimento degli elettori dipenda dal fatto che il governo italiano sta affamando i pensionati. E il distacco dei giovani?

Noi oggi abbiamo ansietà e incertezze di primaria grandezza nelle nostre società, che derivano dai mille cambiamenti di cui ciascuno ha percepito la consistenza ma di cui non si capisce la direzione: dove vanno a parare questi cambiamenti? Che cosa succederà con l’immigrazione e con le nuove tecnologie? Che cosa succederà di me quando sarò grande in un mondo che sarà tanto diverso da quello che oggi conosco? Tante e tante incertezze, e in realtà, se ciascuno è solo nel cercare una risposta a queste domande, difficilmente si orienterà verso una politica che non riesce a raggiungerlo, cercherà e troverà chissà quali vie di fuga. Io ho avuto questa sensazione: nel 1996, a metà degli anni ’90, queste incertezze hanno giocato a favore della sinistra in Europa. Incertezze uguale bisogno di protezione, bisogno di protezione uguale voto a sinistra. La sinistra per rispondere a questa domanda che le è stata rivolta ha bisogno di essere e anche di apparire solidale, perché apparirlo non è meno importante dell’esserlo. Io non credo che la sinistra al governo in Italia non sia stata e non sia solidale con chi ha questi problemi di incertezza, ma non è apparsa tale. E per apparire contano le sintonizzazioni: bisogna arrivare a parlare a coloro nei confronti dei quali si cerca di esser solidali e arrivare a parlare è difficile se vengono meno quei canali identitari che consentono a me, che non riesco a percepirlo, che tu stai lavorando per me, se non esclusivamente per me. E’ la grande carenza della nostra politica: i vecchi canali identitari si stanno essicando e i nuovi non li abbiamo ancora trovati.

Io non ho la ricetta: cerco solo di capire qual è il problema. E capisco che, se non lo risolviamo noi, quelle stesse incertezze, quello stesso bisogno di protezione, potranno rivolgersi in tutt’altra direzione politica. E forse, qua e là per l’Europa, hanno già cominciato a farlo.

 

Il vecchio Pci di Berlinguer era carico di discorsi morali e di identita’, ma questo passato è a doppio taglio.

Qui pesano molto i passati perché altro è modificare un partito laburista che ha trasformato la sua cultura ma che ha una tradizione alla quale continua a richiamarsi, altro è avere una sinistra fatta da un partito socialista che è praticamente scomparso e e da un partito ex comunista che sente il bisogno di cancellare, addirittura di dimenticare il passato comunista, diventando un’impossibile "nata ieri". Sono stato io, più volte, che in questi anni ho detto agli ex comunisti: non buttate via il bambino insieme all’acqua sporca. Certe reticenze che vedo nell’affrontare certi temi sono figlie del fatto che erano stati affrontati in una prospettiva di partito comunista e quindi oggi si preferisce dimenticare e voltar pagina. Non è giusto che sia così, perché quel partito è stato verticale e orizzontale, è stato anche una fonte di identità orizzontale come lo è stato il partito socialista. In entrambi i casi abbiamo buttato via il bambino con l’acqua sporca. Io mi pongo questa domanda: è possibile districare filo da filo ed evitare che la giusta cancellazione di uno o più fili li cancelli tutti? Nella storia, certo, tutto è stato intrecciato, ma nella costruzione del futuro è proprio necessario che io cancelli tutto, non sono in grado di districare e di portarmi dietro ciò che ancora ha un valore?

 

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