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Recensione/Insider

Paola Casella



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Insider, diretto da Michael Mann, scritto da Michael Mann ed Eric Roth, con Al Pacino, Russell Crowe, Christopher Plummer, Lindsay Crouse

Insider ha una trama complessa e stratificata, che inizia raccontando un conflitto e poi, a due terzi della narrazione,  passa a parlare di un altro, anche più drammatico e di maggiore rilevanza sociale.  La storia, basata su un fatto realmente accaduto, anche se ampiamente romanzato in fase di sceneggiatura, è quella di Jeffrey Wigand (Russell Crowe), alto dirigente di un gigante dell'industria del tabacco (la Brown e Williamson, uno dei sette nani, come vengono ironicamente definite le multinazionali che si spartiscono il mercato del fumo legale) che, dopo essersi opposto ai metodi illeciti con i quali la sua azienda aumentava chimicamente il potenziale additivo dei propri prodotti, viene licenziato e minacciato di ritorsioni qualora decidesse di rendere pubblico ciò che ha scoperto. In parte per vendicarsi del torto subito, in parte per togliersi un peso dalla coscienza, Wigand decide di vuotare il sacco rilasciando un'intervista a "60 Minutes", il programma di inchiesta più seguito d'America, trasmesso dalla rete televisiva nazionale CBS.

La decisione di Wigand è anche frutto delle pressioni di uno dei produttori e autori del programma, Lowell Bergman (Al Pacino), aggressivo e determinato prima nel fiutare la storia, poi nel coltivarne la fonte e infine nel demolire le resistenze della sua Gola profonda.  Bergman è animato da furore messianico perché, oltre ad avere ben presente ciò che fa audience, è convinto che "il pubblico debba sapere": un hidalgo della notizia, un accanito sostenitore dell'importanza di un'informazione onesta e senza peli sulla lingua.

E' dunque uno choc per Bergman (oltre che per Wigand, che per rilasciare l'intervista ha messo in gioco carriera e famiglia) scoprire che la CBS, in procinto di essere acquistata dalla multinazionale Westinghouse, rifiuta di trasmettere le rivelazioni dell'ex dirigente per paura di rimanere invischiata in una costosa causa legale (e si sa che "l'industria del tabacco non perde mai in tribunale").  Quello che sembrava un classico scontro Davide e Golia fra un ex dipendente e il colosso aziendale che l'ha fatto fuori (e che comunque in questo momento è il "nemico" del grande schermo più politically correct, vista anche l'animosità personale di Bill Clinton contro l'industria del tabacco) diventa una battaglia ideologica sulla libertà di informazione, e su quanto la proprietà economica dei mass media (soprattutto in un'epoca di merger multimediali e di megasinergie aziendali) possa influenzare il contenuto dei "prodotti" di informazione.

Il tema è grande, non solo nel senso di vasto, ma anche nel senso di importante.  E Michael Mann gli dedica un grande film, non solo nel senso di riuscito ma anche di gigantesco: le inquadrature sono immense, i primi piani mastodontici. Mann, che ha alle spalle una serie di film d'azione assai ben confezionati - da L'ultimo dei Moicani a Heat - è, con Peter Weir, uno dei pochi registi contemporanei ad esprimersi visivamente così in grande, e a credere nel grande cinema.  Mann però non utilizza la vastità spaziale allo scopo tradizionale del cinema americano: se un tempo il cinemascope serviva a mostrare ampie distese territoriali (i campi di battaglia dei film di guerra, le sconfinate praterie dei western), in Insider serve a evidenziare ciò che è importante ai fini della trama: l'insignificanza dell'uomo Lowell Bergman a mollo in un oceano enorme e agitato, la solitudine di Wigand che gioca a golf in uno sterminato campo da golf semideserto. 

La tendenza al gigantismo di Mann per sottolineare il minimo dettaglio è ancora più evidente in certi primi piani di Wigand, così grandi che un suo occhio arriva a occupare un terzo dello schermo: e non si tratta solo della padronanza espressiva di un regista che mette accenti narrativi con l'immagine, ma anche di coerenza fra stile cinematografico e contenuto narrativo, poiché Insider ci insegna a diffidare di ciò che ci viene propinato dai mass media, soprattutto dalla televisione, perché tutto ciò che vediamo è manipolato e manipolabile, ed essere visibile non significa necessariamente essere vero (e infatti, nonostante i primi piani, non riusciamo mai a oltrepassare la superficie esteriore di Wigand per capire fino in fondo l'uomo).  Inevitabile il riferimento al Blow up di Antonioni, dove un particolare, ingigantito all'eccesso, si rivelava più fuorviante che utile alla scoperta della verità.

Malgrado le sue dimensioni, Insider è un film sorprendentemente intimo, anche perché l'intera vicenda è raccontata attraverso un'ottica da, appunto, insider, anche a livello visivo: pensiamo alle scene in cui la telecamera è praticamente posizionata dietro l'orecchio di Wigand, e noi lo seguiamo mentre entra nella hall di un albergo, o in un'aula di tribunale, vedendo esattamente ciò che vede lui.  Un simile grado di sovrapposizione visiva fa sì che non ci sia, fra noi e il supertestimone, alcuna distanza critica o emotiva.  Semplicemente viviamo in tempo reale le sue disavventure, affrontandole con crescente disagio, ma anche con un coinvolgimento diretto che fa sì che le due ore e mezza del film trascorrano senza accorgercene.  Lo stesso scopo ha anche la colonna sonora, che commenta in modo emotivo e spiazzante persino i passaggi più didascalici dell'iter legale: come Peter Weir, Michael Mann lascia al commento musicale il compito di veicolare nel modo più immediato possibile quanto di irrazionale e incontrollabile sottende anche la più disciplinata delle vicende umane.

 Il risltato è che un film diretto con precisione matematica e con un rigore formale al limite della pignoleria abbia sul pubblico un impatto emotivo assolutamente viscerale.  Anche la sceneggiatura, un perfetto esempio di quel "sadismo narrativo" di cui si parla nei corsi di scrittura creativa, ha la sua parte: incalzante e senza tregua, mette continuamente i due protagonisti a confronto con scelte sempre più drammatiche, restringendo le loro opzioni (di qui il crescente senso di claustrofobia di certe scene pur visivamente immense) e alzando il livello delle conseguenze di quelle scelte.  Il ritmo narrativo è quello del thriller d'azione - basti pensare all'incipit della vicenda Wigand-Bergman, con quello scambio frenetico e inquietante di messaggi via fax -  anche se il film è in realtà un excursus morale, una parabola su quali compromessi siamo disposti ad accettare, e quale sia il nostro prezzo.

 Anche le caratterizzazioni dei protagonisti diventano sempre più estreme, e in tempo reale vediamo due esseri umani trasformarsi in due personaggi da tragedia greca (o scespiriana), ognuno con il suo tallone d'Achille che, guarda caso, è in fondo lo stesso: l'imperativo di "esserci", anche nel senso di rappresentare un modello, per chi li ama.  Nella biografia di Bergman, appena accennata, questa esigenza è una diretta conseguenza dell'abbandono subito dal padre; in quella di Wigand deriva dal senso di colpa per aver abbandonato una moglie malata e una figlia indifesa. 

Questo fa sì che due personaggi apparentemente molto diversi - l'uno dirigente e scienziato, l'altro giornalista e umanista; l'uno sostenitore del quieto vivere e membro della middle class affluente, l'altro agitatore nato e intellettuale radical chic - appartengano alla stessa storia, accorgimento narrativo indispenabile perché una storia "funzioni".  Va a Mann e al suo cosceneggiatore Eric Roth, già autore di Forrest Gump, il merito di aver minimizzato le differenze fra i due protagonisti, soprattutto quelle politiche (Wigand è un repubblicano di quelli che credono nel diritto costituzionale a tenersi un arsenale in casa, Bergman un democratico liberal di quelli che vivono ancora col mito dei Chicago Eight - e infatti ancora adesso il vero Bergman vive e insegna a Berkeley) per sottolineare invece i comuni principi.  Il che è anche un modo di dire che certi valori - l'integrità personale, la coerenza, l'onestà - non dovrebbero appartenere a nessuno schieramento politico, ma alla dignità umana in generale.

 La magistrale recitazione dei due protagonisti (e di Christopher Plummer nel ruolo dell'anchorman Mike Wallace, di cui quale parleremo in seguito) rispecchia esattamente lo stesso criterio: speculare e contraria (ricordiamo che, nel thriller Heat, Mann aveva raccontato un altro duo di "facce della stessa medaglia", riunendo per la prima volta sul grande schermo Al Pacino e Robert De Niro, nei ruoli complementari di un poliziotto e della sua preda). Se Pacino, in grande forma, recita con enfasi e passione il classico cane sciolto idealista e insubordinato (remember Serpico?), Russell Crowe riduce al minimo la gestualità (e ricordiamo quanto fosse invece "fisica" la sua performance in LA Confidential) e l'espressività facciale per calarsi nei panni di Jeffrey Wigand, un uomo qualunque entrato in un gioco più grande di lui, che davanti alla palese ingiustizia, più ancora che alla pericolosità delle pratiche della Brown e Williamson, tira fuori un'ostinazione da mulo, più ancora che un coraggio da leone.

 La performance di Crowe è più degna di nota di quella di Pacino (e infatti gli è valsa una nomination all'Oscar, sfuggita invece al piccolo italoamericano) perché il suo ruolo è molto più ingrato e "sottopelle": Wigand non esplode mai, al massimo implode, e silenziosamente. Crowe, che era stato scelto personalmente da Sharon Stone come suo compagno in Pronti a morire per il suo "magnetismo sessuale", appare in Insider ingrassato e (artificialmente) invecchiato, e riesce a dare a un personaggio sfuggente e sgradevole una qualità ipnotica che lo rende comunque il perno della vicenda.  Come dire che la statura morale può trasparire anche dal più opaco degli esseri umani.

 Allo stesso modo la storia di Insider, che si presterebbe a decine di scene madri, e a numerose sequenze di esultanza all'americana stile"gimme five", è quasi del tutto privo di retorica.  Quando la moglie di Bergman gli dice "Hai vinto" (e glielo dice in modo sommesso, a letto, in un momento di intimità domestica) lui replica perplesso: "Vinto cosa?".  La telecamera non indugia sui (pochi) successi dei protagonisti, che non si autocompiacciono mai.  L'unica scena celebrativa (per durata, per ampiezza visiva) è quella in cui Wigand, dopo aver testimoniato contro la Brown e Williamson, si lascia andare ad un sorriso di sollievo.  Ed è una scena muta, filmata con una carrellata circolare che allo stesso tempo ne abbraccia e contiene l'emozione. 

E' anche l'unica pausa nell'incalzare degli eventi, che concede al protagonista un attimo di tregua: ricorda da vicino quella di Thelma e Louise nella quale Susan Sarandon, lanciata in fuga attraverso i grandi spazi del Southwest, ferma l'auto ed esce a respirare l'aria della notte.  Anche quella scena è muta, eppure anche lì si ha l'impressione di sentire il rumore del vento.

 Se la storia e il grosso del tempo filmico appartengono a Wigand e Bergman, la caratterizzazione più memorabile è tuttavia il cammeo di Christopher Plummer nel ruolo di Mike Wallace.  Wallace, sconosciuto da noi, è una figura leggendaria del giornalismo americano, una specie di Enzo Biagi d'oltreoceano.  O meglio: un'icona televisiva che, all'integrità professionale di giornalista di inchiesta alla Zavattini, unisce un appeal da star mediatica alla Mike Bongiorno (o alla Emilio Fede, nella sua valenza rileccata e piaciona).

 Wallace, quello vero, è furioso perché il ritratto che Insider fa di lui è quello di un aziendalista pronto a cedere la propria autonomia giornalistica in nome della stabilità della corporation che gli paga lo stipendio (da favola).  Forse gli pesa anche la connotazione narcisista con la quale Plummer colora (e parliamo anche di guance imbellettate) la sua caratterizzazione.  Ma non dovrebbe: Plummer, Mann e Roth hanno fatto del personaggio di Mike Wallace quello in cui lo spettatore può maggiormente identificarsi, perché è il più riconoscibilmente umano.  Wallace sta a Insider come Pietro sta al Vangelo: non un profeta coraggioso ma un uomo fallibile, pronto ad ammettere la propria fallibilità.  Indimenticabile la scena (muta, anche quella) in cui ognuno dei tre protagonisti principali nel momento della messa in onda dell'intervista televisiva ottengono il rispetto cui più tengono al mondo: quello delle figlie per Wigand, quello della moglie per Bergman, quello di sé per Wallace.

 Insider potrebbe chiudersi sulla scena in cui Wallace entra nella sala regia di "60 Minutes", rassegnato ad affrontare le reazioni dei colleghi quali che esse siano, invece che su quella di Bergman che esce dal palazzo della CBS come Donchisciotte.  Perché Insider è un film che preferisce parlare di uomini, piuttosto che di eroi.

 

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