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Autonomia dei giornalisti e interessi aziendali:
concetti che, in linea teorica, stanno insieme come il diavolo e l'acqua
santa. Soprattutto in un paese come l'Italia dove i giornali sono spesso
i gioielli della corona di patrimoni dai contorni indefiniti. Ha dunque
ragione Lowell Bergman, il protagonista della vicenda di cronaca da cui
è tratto il film Insider, quando afferma candidamente: "Per come
sono strutturati i media oggi, l'autonomia dei notiziari è a
rischio"?
"In effetti", dice Giuseppe Turani,
economista ed editorialista di Repubblica, "se uno guarda come sono
fatte le proprietà dei gruppi editoriali italiani dovrebbe dire: 'Da
qui possono venir fuori solo i peggiori giornali del mondo'. Invece
nella realtà non è così..."
Merito dei
giornalisti?
"Più che altro, è una conseguenza del fatto
che non c'è un rapporto così stretto tra l'editore e la redazione. Il
sistema di trasmissione degli interessi, degli input, degli ordini non
è così automatico come la gente pensa. E io alla figura dell'editore
fisso nello stabile della redazione non ci ho mai creduto. Gli editori
sono dei signori mediamente ricchi che ogni tanto vanno anche al mare,
al cinema, non stanno fino alle undici di sera a leggere
il loro giornale".
Qual è la
peculiarità dell'assetto proprietario dell'editoria italiana?
"Da noi c'è un capitalismo molto piccolo e
poco sviluppato. Economicamente parlando, siamo un piccolo stagno. Ci
sono un paio di gruppi che contano dieci volte più degli altri e il
meccanismo risulta perciò bloccato. Metteteci poi che la televisione è
per definizione organizzata in duopolio, e diventa perfettamente inutile
fare dibattiti sulla libertà di informazione. Prima di tutto cominciamo
a smontare il duopolio televisivo".
Dunque
bisognerebbe limitare per legge la proprietà dei mezzi di informazione,
in modo da aumentare il numero degli editori?
"No, bisognerebbe intervenire a monte
riformando il capitalismo italiano di cui la proprietà dei giornali è
semplicemente lo specchio. Un capitalismo più articolato, più
variegato, con più protagonisti dello stesso peso, farebbe bene al
mercato e le proprietà editoriali terrebbero i giornali solo se
rendessero perchè sono fatti bene e la gente li compra. Altrimenti
tanto varrebbe per loro investire in una fabbrica di calze oppure aprire
un ufficio su Internet. E in un capitalismo aperto, se di Romiti e De
Benedetti ce ne fossero cinque o sei, dell'assetto proprietario delle
aziende editoriali non interessebbe praticamente nulla a nessuno".

Secondo lei sulle
redazioni italiane vengono effettivamente esercitate pressioni da parte
del gruppo di interessi rappresentato dall'editore?
"Non posso escludere che succeda, ma io, in
trent'anni che faccio questo mestiere, non me ne sono mai accorto. E non
credo che Romiti, De Benedetti o Rieffeser, del gruppo Monti, stiano lì
tutto il giorno a controllare che cosa si pubblica sui loro giornali.
Nemmeno il Minculpop riusciva a dirigere tutto."
I manuali di
giornalismo riportano immancabilmente l'episodio di Albertini, direttore
del Corriere della Sera, che cacciava dalla redazione l'editore,
presentatosi per discutere il contenuto di un articolo, intimandogli di
ripresentarsi solo al momento della riscossione dei dividendi. Secondo
lei, oggi, l'autonomia del giornalista è un'utopia o una possibilità?
"Dipende molto dal carattere, dalla statura,
dal peso specifico delle singole persone. Se metti mio cugino a dirigere
un giornale, l'editore gli fa fare quello che vuole. Se metti, invece,
una personalità di grande peso e livello, all'editore risulta un po' più
difficile imporsi, anche perché il direttore ha il suo buon nome da
difendere. Si torna comunque al problema di prima: se c'è un
capitalismo articolato e una stampa articolata, posso anche, come
direttore, ribellarmi all'editore, nel senso che posso andarmene in un
altro posto. Se sono un bravo professionista, dopo due ore ho la
scrivania pronta in un altro giornale. Essendo il nostro meccanismo così
ristretto, invece, per un direttore opporsi alla proprietà non è così
semplice".
La fine delle
dinastie editoriali è stata un bene o un male?
"Beh, sono finite anche le dinastie tessili,
quelle dell'industria meccanica...il capitalismo cambia, ci sono quelli
che si adattano e quelli che non si adattano, e subentrano nuove
figure".
Come vede l'arrivo
di editori stranieri che investono nei gruppi editoriali italiani?
"Gli stranieri pensano che, salvo poche
eccezioni, gli editori italiani, vecchi o nuovi che siano, non sappiano
fare il loro mestiere, soprattutto nel mercato dei giornali
specializzati. E hanno ragione: una rivista come Focus, ad esempio, gli
editori italiani non sono capaci di farla, perché si muovono per
posizioni contrapposte - c'è quello che non ha il settimanale di peso
politico e vorrebbe averlo, quell'altro che non ha il quotidiano e cerca
di conquistarselo. A fare Focus, che è un bellissimo giornale, che si
legge bene e con grande interesse, non ci pensa nessuno. Allora gli
stranieri si sono probabilmente resi conto che da noi c'è un grande
spazio per mettere a frutto il loro know how".
Eppure sono stati
proprio gli editori stranieri arrivati in Italia a chiedere nuove regole
per limitare lo starpotere tv e redistribuire le risorse della pubblicità...
"Sono perfettamente d'accordo, anche se poi
sono dell'idea che chiunque dovrebbe poter fare qualunque cosa gli venga
in mente. Questa regola per cui chi possiede quotidiani non può
possedere reti televisive è arcaica. Stabiliamo che uno possa avere un
solo canale tv e poi però non rompa più le scatole. E la prima a farlo
dovrebbere essere proprio la Rai.
Nell'attuale duopolio televisivo, la Rai con tre
canali e Berlusconi con tre, è necessario un osservatorio ciclopico
dove si contano i secondi dei vari interventi di politici. Se invece ci
fosse in Italia una legge che dice, chiunque può possedere un solo
canale e basta, avremmo sei reti tv diverse e forse non ci
preoccuperemmo troppo di contare i minuti che Bertinotti ha avuto a
disposizione su Rai3 o su Rete4, perché Bertinotti parlerebbe dove gli
capita, un po' qui e un po la'. Con due soli network è inevitabile che
si vada a fare tutti i conti.".
Secondo lei, la
connotazione del prodotto giornalistico come business non snatura un po'
quella che dovrebbe essere la missione ideale del giornalista?
"Non si può pretendere che esista un
giornalismo fatto esclusivamente a fin di bene. Ormai tutto gira intorno
alle imprese, e i giornalisti, giustamente, vogliono guadagnare dei bei
soldi, come tutti. Se non fosse così, i talenti migliori andrebbero a
fare altre professioni. Solo pochi hanno la vocazione del monaco, ed è
perché hanno da risolvere il problema del loro rapporto con Dio. I
giornali, per fortuna, sono fatti da laici. E quindi io sono per dei
giornali che funzionino come delle imprese.
Quando a Milano si pose il problema del salvataggio
del Corriere, dopo la fine di Rizzoli, si erano inventati 27 mila
soluzioni diverse. C'era anche chi voleva fare intervenire i più grandi
gruppi bancari, che però avrebbero dovuto delegare la nomina del
direttore a una specie di consiglio superiore dei rettori delle
università. Io dico che la migliore garanzia per il lettore e per il
cittadino è quella di vivere in un paese in cui c'è un capitalismo
articolato e variegato con tanti protagonisti, una di quelle società,
insomma, che si chiamano aperte".
Come mai nei
grandi giornali, o anche in tv, si fanno sempre meno inchieste?
"Ma perché l'inchiesta è ormai materiale per
giornalisti sfigati. Se vuoi davvero fare carriera, coltiva la tua
scrivania e diventa magari cronista parlamentare".
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