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Segnalazione/Brill's
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Dieci anni fa Michele Serra decise pubblicamente di
interrompere il suo rapporto di collaborazione con Epoca perchè il
nuovo assetto proprietario della casa editrice - Mondadori - non gli
consentiva di continuare il suo lavoro "con la necessaria serenità
di spirito". "La sola vera libertà che abbiamo noi
pennivendoli", scrisse allora Serra, nel suo articolo di commiato
dal settimanale, "è venderci, quando possiamo, a chi ci pare.
E non venderci a chi non ci garba". Col tempo non ha
cambiato idea, e ce lo spiega in questa intervista a cuore aperto,
schernendosi: "Spero che le mie risposte non sembrino troppo
romantiche o retrò".
Il film Insider
solleva il problema di quanto la proprietà aziendale dei colossi
multimediali rischi di limitare la libertà di informazione.
Lei che ne pensa?
Il discorso è enorme.
A me fa impressione non tanto il fatto che le proprietà
editoriali si concentrino in mano a pochissimi gruppi quanto il fatto
che il prodotto che ne deriva sia molto omogeneo e conforme.
Se anche in occidente esistessero solo 4 o 5 multinazionali
dell'informazione, ma ciascuna si diversificasse dalle altre nel
linguaggio e nelle intenzioni, sarei meno preoccupato.
Certo, i vincoli diretti di interesse e controllo economico sono
quelli più sporchi, ma che sul Corriere della Sera non vengano
pubblicati attacchi frontali alla Fiat - o su Repubblica a De Benedetti
- è una cosa di cui il lettore tiene conto, e quindi non lo
scandalizza. Mi sembra
invece che il problema più grande, quello macroscopico, sia che le
cosiddette scienze di mercato condizionano alla base la comunicazione,
che esce già "formattata" a seconda di un input aziendale.
In questo modo la comunicazione diventa qualcosa di profondamente
fasullo e dozzinale, poverissimo di contenuti e terribilmente omologato.
I prodotti Mediaset e Rai, ad esempio, si confondono gli uni con
gli altri: è impressionante.
Settimana scorsa sono stato a quella che credevo
ingenuamente fosse una riunione di creativi di ambito Rai e mi sono
invece trovato davanti una convention produttiva organizzata con gli
stessi criteri non solo di Mediaset ma anche di Fiat o di una qualsiasi
azienda del settore della moda: si è parlato fondamentalmente di quote
di mercato, di ottimizzazione del prodotto.
Questo tipo di conformismo deriva direttamente dalla cultura
aziendale e dal predominio dei manager all'interno delle aziende.
E' terribile vedere i creativi che fanno i manager e i manager
che fanno i creativi.
Di questi tempi
infatti i giornalisti vengono definiti "produttori di
contenuti".
Certo, perché sono trattati come galline ovaiole.
Dimenticandosi che quello giornalistico è un prodotto a forte
contenuto intellettuale, e che se c'è una regola che ogni persona che
comunica impara è che il mittente della comunicazione deve sentirsi
indipendente, l'input deve rimanere esterno all'azienda, il che
costituisce un posizionamento quasi tecnico rispetto ai mezzi di
produzione. Poi ovviamente
nessuno si scandalizza se si deve arrivare a una confezione del prodotto
che è anche compromesso e mediazione, ma l'idea che anche l'input della
creatività debba rientrare nel meccanismo produttivo aziendale mi pare
delirante e anche controproducente, perché il prodotto, ad esempio
quello televisivo, diventa sempre più prevedibile, noioso e uguale.
L'informazione dovrebbe poter scegliere parole e strade sue, ed
è perché non è così che i quotidiani si trovano in una crisi
spaventosa.
Quali
condizionamenti subisce il giornalista da parte della proprietà?
Il giornalista viene ossessionato in partenza dall'idea di pubblico che
si sono fatti i manager: devi scrivere determinate cose per determinate
persone. Secondo me
invece il messaggio nella bottiglia si lancia senza sapere chi lo
riceverà, semplicemente perché si ha urgenza di scrivere quelle cose
dentro a quella bottiglia. Il pubblico non esiste, è un magma
indefinibile le cui reazioni per fortuna sono difficilmente
preventivabili, è un insieme di persone in cui ognuno fa storia a sè,
anche come consumatore, perché ha interessi che non sono incasellabili.
Non credo che quello sforzo gigantesco di incasellamento che è
il marketing riesca ad aiutare chi deve comunicare a farlo meglio.
Io ho sempre lavorato come se scrivessi per tre persone: me stesso, chi
mi vuole bene e due amici. Dopodichè
mi è successo con grande stupore che altre persone che non conoscevo mi
leggessero.Se tutto fosse così prevedibile e programmabile come crede
il marketing sarebbe molto triste.
Per fortuna molto è affidato al caso, alle emozioni, alle strane
correnti che si stabiliscono tra chi parla e chi ascolta, tra chi scrive
e chi legge.

Ho anche un piccolo caso concreto da raccontare a
suffragio della mia tesi: quando mettemmo in piedi Cuore fu fatta una
ricerca di mercato il cui responso fu che l'inserto avrebbe venduto
circa 50-60 mila copie fra i 30-40enni di sinistra.
Ma il marketing non ci prese minimamente, per nostra grande
fortuna, perché vendemmo il triplo di quello che ci avevano
pronosticato, e cioè 160.000 copie, a un pubblico composto soprattutto
di ventenni.
Qual è il tipo di
condizionamento più forte per un giornalista?
Quello politico è oggi molto meno forte di quello
aziendale. Lo si vede quando una sola persona assume entrambi i poteri,
come nel caso di Berlusconi: l'istinto al condizionamento politico da
parte di Berlusconi potrebbe essere quello di avere tre telegiornali
perfettamente allineati con le posizioni del Polo, ma il condizionamento
aziendale, per un calcolo produttivo preciso, fa invece sì che si
decida di avere un telegiornale "neutrale". Il fatto che il
TG5 sia guardabile anche da un pubblico di sinistra senza vomitare
corrisponde a una pianificazione aziendale dell'informazione Mediaset.
Ovviamente serve anche come foglia di fico politica, ma di base c'è la
coscienza che il telegiornale principale del gruppo non può essere
fatto alla Liguori o alla Fede perché perderebbe parte del pubblico,
punto e basta. E' una
decisione di marketing.
Quale può essere
l'antidoto al controllo aziendale dell'informazione?
L'antidoto è lottare, litigare. In ogni situazione bisogna cercare, con i propri mezzi, quando
se ne ha il piccolo potere, di discutere, di tenere duro, di dire dei
no. Se il livello di compromesso che ti viene richiesto è medio alto
bene, altrimenti dici di no e amen.
Molti giornalisti e intellettuali non lo fanno perché non si
accontentano di un pubblico di nicchia, anche se ci sono pubblici di
nicchia attraverso i quali si può campare benissimo. Certo,
non si diventa ricchi. C'è un prezzo da pagare alla coerenza, discorso
banalissimo ma profondamente vero.
Allentando la propria gabbia di resistenza o di discussione
entrano in casa più quattrini. Il potere di corruzione da parte del
denaro e dei modelli di vita di un ambiente nel quale il denaro circola
a fiumi, come quello della televisione, è fortissimo.
I soldi sono una bella cosa, quindi capisco che facciano parte
del dicorso a pieno diritto: nessuno vuol fare della retorica pauperista.
Ma la vera scelta è sempre fra fare quello che piace a te o quello che
piace agli altri, e molti, per fortuna, cercano ancora di fare quello
che piace a loro e sono felici anche se non sono ricchi.
E' una
responsabilità individuale, allora.
Sì, secondo me sì: in una fase di conformismo
acuto come quella che stiamo vivendo penso che la presa di posizione, o
anche solo il dubbio individuale, siano l'unica salvezza possibile. Non vedo in questo momento grandi antidoti politici in senso
ben organizzato e strutturato. E' buffo, si
sta verificando un capovolgimento dei ruoli: la destra aziendale, che è
l'unica vera grande destra, parla nel nome dei grandi numeri e delle
masse, e la sinistra deve riformattare attorno alle libertà e ai
diritti individuali. Sono tornato da poco dalla serata di Genova per De
Andrè, un artista che era proprio l'antitesi rispetto al discorso
produttivo aziendale: irregolare e pigro, non seguiva le norme del
mercato e faceva i dischi quando voleva lui, perché prima doveva
scattargli la voglia di dire una cosa e poi si poneva il problema della
confezione. De Andrè, che pure era il più profondamente di sinistra di
tutti gli artisti di sinistra, lo era soprattutto per questo suo essere
totalmente fuori dalle regole della produzione coatta.
Forse però la
globalizzazione del mercato non consente più di sottrarsi a certe
regole.
Tutti dicono che non può più esistere nulla di
piccolo, perchè il pesce grosso mangia inevitabilmente il pesce
piccolo. Io non ci credo,
credo invece che le piccole e medie aziende culturali possano
sopravvivere all'interno del loro ambito.
Il problema è che nessuno accetta di restare all'interno di un
ambito limitato. Si diventa vittime di un condizionamento a priori per cui si
crede che di non riuscire a nuotare da soli, ci si mette in testa di
essere pesci piccoli e si finisce per andare a cercare il pesce grosso e
infilarglisi in bocca.
Io invece mi auguro che ciò che è troppo grosso
prima o poi scoppi, come la rana che diventa bue: il collasso di certi
macrosistemi provoca sempre un brivido di piacere in chi non ama il
troppo potere. Spero che la megalomania paghi un dazio, e che fra cento
anni ci si racconti con sgomento di quel periodo storico nel quale si
credette che soltanto le macroaziende potessero stare sui mercati,
quando poi invece i colossi aziendali fecero la fine dei dinosauri,
mentre sopravvissero gli organismi più agili, i piccoli mammiferi, come
le lontre, che a me piacciono tanto.
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