È moderna
perché assomiglia alla nostra vita
Piero Scaramucci con Mauro Buonocore
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Questo articolo è stato pubblicato sul numero 69
(gennaio-febbraio 2002) di Reset
Il giorno della viglia di Natale del 1975 è la data che vede la
nascita ufficiale di Radio Popolare, un’emittente milanese
cresciuta dal fenomeno delle radio libere, le protagoniste dello
sfaldamento del monopolio statale sull’etere alla metà degli anni
settanta. Nata come radio locale, con la ferma idea di promuovere un’informazione
libera da proprietà politiche ed economiche, Radio Popolare è la
testimone di un successo che l’ha vista crescere fino ad uscire
dall’ambito milanese nel 1992, quando nasce il network che
diffonde su scala pressoché nazionale le trasmissioni di punta
della sua programmazione. Ma l’espansione non si ferma ed arriva
ad utilizzare il satellite che dal 2001 le permette di essere
ascoltata in tutta Europa. Abbiamo chiesto a Piero Scaramucci, uno
dei fondatori ed attuale direttore di Radio Popolare, di provare a
ragionare sull’attuale realtà della radio

Che atmosfera si respirava negli anni che videro nascere le radio
libere?
Le radio libere nascono innanzitutto dietro una spinta
commerciale, come è accaduto più tardi per le televisioni, è la
spinta di privati con interessi commerciali che sfonda il monopolio
dello Stato. Le radio politiche arrivano subito dopo e sono un’invenzione
dei movimenti della sinistra extraparlamentare per allargare la
propria comunicazione che fino a quel momento era fatta di giornali
e di volantini; nascono ed acquistano una fortissima identità
perché hanno già un loro pubblico pronto, che non aspetta altro
che di avere uno strumento di comunicazione più ampio.
Nelle pagine di presentazione che il sito di Radio Popolare
dedica alla sua storia si legge che l’emittente si propone una “lettura
critica della realtà” e vuole assumere “la contraddizione come
elemento fecondo da non nascondere”. Cosa significa?
Questo è un testo del 1990 che però riprende quella che era l’ispirazione
della radio alla metà degli anni settanta, cioè di non schierarsi
con una componente del movimento, ma di intendere la sinistra nel
suo complesso come area all’interno della quale accettare le
contraddizioni. Il che vuol dire che i dissensi che emergevano dal
cofronto tra parti diverse della sinistra extraparlamentare non
venivano taciuti, se ad esempio nasceva una discordanza tra
Movimento Studentesco ed Avanguardia Operaia, questa contraddizione
veniva portata alla luce dell’attezione degli ascoltatori. Quindi
la radio era sicuramente di sinistra, però inaugurava una linea che
voleva conservare libertà di giudizio, e soprattutto esplicitare la
contraddizione ovunque si manifestasse. E questa resta la linea di
Radio Popolare, che vede nel confronto e nella discussione i suoi
punti di rifermento principali.

Autonomia e libertà di giudizio sono consolidate anche nell’assetto
proprietario?
Sì. Ad un certo punto della nostra storia la struttura della Srl,
che aveva fatto nascere la radio, ha iniziato a starci stretta
perché alcuni dei soggetti fondatori si erano estinti e quindi i
soggetti politici che rimanevano potevano iniziare a costituire una
sorta di egemonia sulla radio, è nata così l’esigenza di
cambiare la struttura socetaria. Questa fase della nostra storia ha
rappresentato un periodo molto tormentato. Alcuni lavoratori della
radio hanno aperto un dibattito durissimo alla fine del quale la
società è stata trasformata in Spa, il pacchetto di controllo è
nelle mani della cooperativa dei lavoratori di Radio Popolare,
mentre il resto è polverizzato in circa dodicimila azionisti, il
che scongiura la possibilità materiale che si formi un controllo.
Inoltre la metà del bilancio della radio è costituito dal gettito
degli abbonamenti. Attualmente abbiamo circa sedicimila abbonati che
sono uno strumento formidabile di autonomia che ci consente di avere
rapporti con la pubblicità senza però mai arrivare a pericoli di
dipendenza dal mercato pubblicitario. Quello che abbiamo cercato di
conservare come nostra caratteristica è l’indipendenza da
soggetti forti politici e da soggetti forti economici che ci possano
in alcun modo condizionare. Bisogna anche sottolineare che queste
dinamiche avvicinano la radio ed i suoi ascoltatori: azionisti ed
abbonati vivono la radio come qualcosa che in qualche misura
appartiene loro.
Le radio libere sono state un fertile terreno di sperimentazione,
un campo di ricerca di soluzioni sempre nuove e più adatte alla
descrizione del divenire del reale, in particolare Radio Popolare
sembra mettere in pratica un sistema di comunicazione che sappia
coinvolgere ogni angolo del reale.
Siamo una radio che sta molto in mezzo alla gente ed ha scelto di
andare sui posto a raccontare la realtà che vogliamo portare agli
orecchi dei nostri ascoltatori. Questo non riguarda soltanto le
news, ma un po’ tutta la programmazione.; la radio ha sempre
cercato di guardarsi in giro sia per la musica che per l’intrattenimento,
anche con la realizzazione di feste e di avvenimenti. La
nostra idea parte innanzitutto pensandoci come una radio locale, a
questo si aggiunge la convinzione che ciascuno ha bisogno di sapere
tanto quello che accade in Afghanistan, quanto quello che hanno
buttato nel cesto dell’immondizia vicino casa. Quello che ne viene
fuori è l’idea di una realtà da raccontare a trecentosessanta
gradi.
Lei ha lavorato per molto tempo anche in Rai; radio libera e
radio di stato, viste dall’esterno, sembrano due mondi
diversissimi, ma visti dall’interno come si possono descrivere?
La Rai ha il peso di un formalismo tipico della cultura italiana. È
lenta perché nella nostra cultura c’è una tradizione di
paternalismo e di conformismo che si riflette inevitabilmente nella
produzione dell’informazione e nella comunicazione di massa.
Inoltre la Rai subisce i condizionamenti della politica e della
società economica, ed è un peso che si sente nel lavoro quotidiano
di chi costruisce l’informazione; ma questo non riguarda soltanto
il servizio pubblico, l’autonomia delle redazioni è un problema
che in Italia riguarda un po’ tutta la grande comunicazione.
Le radio libere conservano ovviamente un margine maggiore di
autonomia di azione e di scelte, anche se adesso si sta delineando
anche nelle radio un fenomeno di concentrazione, si veda ad esempio
il caso della Mondadori che ha acquistato il controllo sulla radio
del Sole-24 Ore e su un paio di agenzie. Questo delle concentrazioni
è un fenomeno da osservare con attenzione, perché ci avverte che
le isole di indipendenza che sopraviveranno saranno sempre più
delle eccezioni, delle esperienze umane e politiche controcorrente.
Parliamo dei rapporti con gli altri media. Il telefono è stato
ed è un parente stretto della radio; la tv è una sorella in
competizione che l’ha costretta a trovare nuove strade, nuove
soluzioni, nuove identità ricacciando la radio in altri spazi da
quelli che aveva guadagnato.
Il boom televisivo ha messo la radio in un angolo e l’ha un po’
marginalizzata, però l’esplosione delle private alla metà degli
anni settanta ha gettato le premesse per un rilancio del mezzo
radiofonico; in questi ultimi anni poi, credo che si stia
rilanciando. Io la considero un mezzo di comunicazione molto
moderno, nel senso che è molto affine ai modi di vita che noi
abbiamo, veloci, pieni di impegni, ricchi di attività multiformi e
quindi ci è necessario uno strumento molto veloce e duttile;
inoltre abbiamo bisogno di essere in contatto in continuazione con
tutto il resto del mondo, vogliamo immaginare che tutto il mondo sia
raggiungibile e conoscibile.

Per quanto riguarda la fruizione delle notizie c’è chi
sostiene che il messaggio ascoltato rimanga poco impresso nella
memoria, e che quindi l’informazione radiofonica non venga
percepita dagli ascoltatori in maniera consistente.
Questo è vero. A volte, ad esempio, ci capita di mandare in onda
delle trasmissioni impegnative, che per essere seguite hanno bisogno
di molta attenzione, e molti ascoltatori ci telefonano chiedendoci
delle repliche. Però ci sono modi di utilizzare il linguaggio che
possono favorire la comprensione e la memorizzazione di chi ascolta.
Una delle tecniche per sopperire a queste lacune del mezzo
radiofonico consiste nel non abbandonare gli argomenti,
trascinarseli dietro per alcuni giorni, seguire la storia e non
concepire la notizia come una cosa che nasce e muore lì; la notizia
è il segmento di una linea ha un inizio, prosegue e va avanti,
bisogna seguirla nel suo evolversi.
Abbiamo parlato di telefono e di televisione, non possiamo
evitare di parlare del rapporto con Internet. Sembra che questi due
media si parlino, che abbiano iniziato una conversazione proficua.
Forse la nascita delle radio libere può addirittura ricordare l’entusiasmo
dei primi siti, la facilità tecnica, i bassi costi per produrre
informazione, l’esaltazione di chi si sente pioniere di un nuovo
modo di comunicare. In più le radio fanno sempre più affidamento
su Internet durante la loro programmazione. Perché questi due mezzi
si parlano così bene?
In effetti c’è un’analogia tra la nascita di Internet nel
decennio che si è da poco chiuso e la nascita delle radio libere
negli anni settanta. Il pionierismo, la libertà e l’interattività
di comunicazione sono senz’altro dei punti di contatto tra questi
due fenomeni. Nella concezione delle radio private politiche l’interattività
è un dato essenziale, l’utente è chiamato ad intervenire non
solo per chiedere, ma anche per dibattere e dare notizie.
Un altro punto di sinergia con Internet riguarda proprio quello che
dicevamo poco fa: Internet può essere usato anche per fissare la
memoria. Sul nostro sito pubblichiamo in continuazione notizie, o
passaggi di interviste o documenti di qualche interesse che mettiamo
in onda, l’ascoltatore ritrova così una parte delle informazioni
che magari gli sono sfuggite durante il primo ascolto.
Certo che un sito che affianchi una stazione radiofonica è un costo
che attualmente non sembra ripagarsi, ma è uno strumento dal quale
non si può prescindere perché non ce l’hanno tutti ma sono molte
le persone che ce l’hanno e che lo vogliono usare.
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