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Franco Monteleone
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Questo articolo è stato pubblicato sul numero 69
(gennaio-febbraio 2002) di Reset
Nel mese di dicembre del 2001 è apparso su “Internazionale” un
brillante articolo di Sarah Delaney, collaboratrice del Washington
Post, nel quale si esprimevano giudizi molto lusinghieri sulla radio
italiana, su tutta la radio, comprese le emittenti Radicale e
Vaticana. Nell’articolo si faceva riferimento, in modo
appassionato, anche alle reti radio della Rai. Colpiva, nelle parole
della giornalista americana, non solo la convinzione, ormai fin
troppo abusata, della nuova giovinezza della radio rispetto alla
televisione, ma soprattutto il grado di partecipazione emotiva, di
coinvolgimento intellettuale, di affettuosa disponibilità nei
confronti di molte trasmissioni, alle quali venivano riconosciute
doti eccellenti: una vitalità esuberante del rapporto con il
pubblico, un ruolo essenziale di informazione a tutto campo anche
per utenti già provvisti di altre fonti di diffusione delle
notizie, una gradevolezza esplicita della sua cifra spettacolare e
di intrattenimento. Non è frequente leggere, soprattutto da parte
di osservatori esigenti, opinioni tanto positive sulla radio
italiana.
Fino a qualche tempo fa un articolo di questo genere sarebbe stato
infatti impossibile. Anzi, assai sovente, il giudizio degli
stranieri sulla radio italiana, e sui media in generale, appariva
dettato da malcelata ostilità. Qualcosa sta cambiando? Siamo forse
alle soglie di un processo di radicamento più consapevole, e quindi
più espansivo, del significato e del ruolo attivo del mezzo
radiofonico? Articoli come quello appena descritto sono, ovviamente,
segnali deboli ma, in un certo senso, rivelatori di una tendenza che
sembra intravedersi all’interno della società italiana Accanto
alla crescita quantitativa dell’ascolto radiofonico e al favore,
assolutamente qualitativo, che il mezzo incontra presso il pubblico
c’è da registrare probabilmente una terza e forse fondamentale
novità: il cambiamento del rapporto “culturale” degli italiani
nei confronti della radio.

Per ora è solo una ipotesi. Essa andrà verificata nell’immediato
futuro con strumenti di indagine appropriati e innovativi (i limiti
pubblicitari di Audiradio vanno ormai denunciati senza riserve); ma
anche assecondata con forza, in tutte le sedi opportune, qualora se
ne verificasse la reale consistenza. Questo cambiamento si sta
manifestando secondo modalità del tutto spontanee, non codificate,
al di fuori dei recinti istituzionali. È un nuovo rapporto tra
emittenti e utenti, al quale non è forse estranea la presenza forte
della radiofonia privata, locale e commerciale.
Questo rapporto, formatosi già in origine con caratteristiche assai
labili, si è interrotto alcuni decenni or sono. Per chi si occupa
di storia dei mezzi di comunicazione di massa è ormai noto che, in
Italia, l’avvento della televisione ha impedito il completarsi di
questo particolare legame di coinvolgimento, antropologico e
culturale, tra gli ascoltatori e la radio. Questo legame era stato
al centro dello sviluppo radiofonico sia negli Stati Uniti che in
Europa, in primo luogo in Gran Bretagna. Ma in Italia esso comincia
a prender forma solo durante la seconda guerra mondiale. Passato al
fuoco delle vicende belliche, avrebbe dovuto rafforzarsi nell’epoca
della ricostruzione democratica allorché entrò in scena l’epifania
televisiva.
Pur avendo dietro di sé un modello editoriale all’altezza di
quelli europei, la radio italiana era tuttavia ancora troppo
fragile, e la sua fisionomia ancora troppo limitata dall’esperienza
provinciale di un popolo che faticosamente stava cercando la strada
della modernità. La radio, nel dopoguerra, aveva accompagnato la
vita degli italiani mano a mano che essi andavano scoprendo nuovi
benefici e si liberavano dalla schiavitù del bisogno. Essa divenne,
per pochissimo tempo, il rassicurante suggello di una ritrovata
identità: sicura la scelta degli interlocutori sociali, sicura l’identificazione
della famiglia come cellula elementare dell’ordine e della
convivenza, sicura l’ispirazione cattolica dei suoi riferimenti
ideologici.

La grande trasformazione dell’Italia da paese prevalentemente
agricolo a potenza industriale alterò sensibilmente alcune delle
premesse economiche e sociali che avevano legittimato quel modello
di comunicazione radiofonica, proprio mentre esso si trovava nella
delicata fase di consolidamento del rapporto “culturale” con gli
ascoltatori. L’irrompere scomposto della televisione costrinse la
radio (caso tipicamente italiano) al blocco della sua maturazione:
essa dovette abituarsi a convivere con tutte le differenze che
andavano manifestandosi nel paese e a coesistere, da posizioni di
minoranza, con la frammentazione culturale che diventerà il tratto
distintivo dei decenni a venire. Nell’anomalia, quindi, con cui si
afferma in Italia il predominio sociale della televisione va
spiegata l’improvvisa perdita di tensione culturale che il mezzo
radiofonico, nonostante il grande impulso ricevuto negli anni tra le
due guerre, registra a partire dalla fine degli anni Cinquanta.
A differenza di molti paesi europei, in Italia è venuta così a
mancare una vera e propria “cultura della radio”. Essa, sia
chiaro, non ha nulla a che vedere, nell’evoluzione storica del
mezzo durante la seconda metà del secolo, né con la sua qualità
che è stata altissima, né con la sua funzione che è stata
insostituibile. Si è trattato piuttosto di un fenomeno che, come
tanti altri, ha accompagnato la rapida e tumultuosa corsa degli
italiani verso quella “scomparsa delle lucciole” di cui parlò
Pasolini e che, sull’altare del benessere, ha sacrificato valori,
tradizioni, culture. In un paese avido di nuove legittimazioni la
radio, mezzo povero, ha sofferto della mancanza dell’investitura
intellettuale, accademica, pedagogica, persino mediatica, e
popolare, che invece ha giovato alla sua Grande Sorella.
In Europa questa investitura era avvenuta con largo anticipo
soprattutto da parte di artisti, scrittori, uomini di cinema e di
teatro; e quindi anche l’avvento della televisione, pur
contribuendo a ridurre il ruolo della radio un po’ dovunque, non
è mai riuscito - come in Italia - a declassare il mezzo in
categorie marginali. Da noi, persino le frequenti celebrazioni dell’invenzione
marconiana e le rievocazioni delle tappe del suo sviluppo hanno
avuto quasi sempre una fisionomia culturale di tipo archeologico e
nostalgico, per non parlare della trivialità del chiacchiericcio
squalificato con cui abbiamo recentemente assistito ad alcune
trasmissioni televisive sul centenario del primo collegamento
transoceanico via etere.

La radio italiana, negli anni, è comunque diventata moderna, forse
più della televisione, nonostante l’indifferenza della politica,
delle istituzioni, e della stessa Rai. Lo è diventata grazie al
mercato e alla spinta che esso ha dato al cambiamento degli stili,
dei linguaggi, dei format. Se la ricerca teorica, anche nelle sedi
universitarie, è ancora insufficiente, tuttavia la radio è, più
della televisione, protagonista nell’innovazione di prodotto. Ecco
perché vorrei azzardare l’ipotesi che una nuova “cultura della
radio” stia nascendo in Italia. E’ un processo che va sostenuto
e alimentato, in primo luogo dalla stampa, ma anche dalla stessa
televisione, almeno quella pubblica, il giorno in cui ritornerà ad
essere una istituzione seria e autorevole. In secondo luogo dalle
facoltà di scienze della comunicazione, finora troppo condizionate
dall’egemonia televisiva.
“Giornate sulla radio” come quelle recentemente organizzate dall’Università
di Siena sono in tal senso episodi incoraggianti che non devono
rimanere isolati. Soprattutto la ricerca e l’approfondimento sulla
storia della radiofonia è un terreno di analisi scientifica che
merita grande impegno, anche per le nuove opportunità consentite
dall’ottimo lavoro di catalogazione dei materiali fonici di oltre
mezzo secolo conservati nelle Teche della Rai. Più ricerca e
approfondimento, inoltre, sui linguaggi e sull’innovazione
tecnologica, dove sarà necessario e determinante il contributo
istituzionale, editoriale e culturale, della radiofonia privata. È
un processo importante per l’intera società italiana, dove si
sono progressivamente affievolite le ragioni stesse dell’identità
nazionale, ma dove proprio la radio, tra l’altro, potrà dare
nuovi stimoli alla formazione dell’identità europea.
L’ingombrante presenza di una televisione, oltretutto in gran
parte squalificata, non è sostenibile in un paese, come l’Italia,
dove sono ancora carenti molte delle sue strutture formative. La
televisione ha imposto il pettegolezzo laddove la radio può
favorire la conversazione; ha diffuso la cultura dello scontro e non
quella della persuasione; ha creato un mondo di ricchezza virtuale
dietro la quale non vi è alcuna solidità. Una radio più
partecipe, più amica, più vicina ai sentimenti e all’intelligenza
delle persone è oggi più che mai necessaria. Se in questa
direzione qualcosa si sta muovendo occorre prenderne atto ma
soprattutto occorre, da parte di chi governa le dinamiche di
formazione dell’opinione pubblica, favorire in tutti i modi la
rinascita di una presenza sempre più consapevolmente avvertita del
mezzo radiofonico tra quei trenta milioni di ascoltatori quotidiani
che vorremmo un po’ più cittadini e un po’ meno consumatori.
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