E' ancora una
“voce amica”
Enrico Menduni
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Questo articolo è stato pubblicato sul numero 69
(gennaio-febbraio 2002) di Reset .
Il contributo di Enrico Menduni è tratto dallla relazione di
apertura del convegno Giornate di lavoro sullla radio svoltosi a
Siena il 23 novembre 2001.
La radio vive una terza e fortunata giovinezza della sua lunga vita.
È stato il primo mass medium personale e mobile, ha lasciato i
salotti delle case (in cui ha lasciato ben piazzata la più giovane
sorella televisiva) per andare per le vie del mondo sotto forma di
transistor, di autoradio, di walkman; si è miniaturizzata come
apparato mentre cresceva a dismisura la sua funzione di medium delle
identità e della connessione, di strumento di informazione in tempo
reale e di contenitore soffice dell'oralità e dell'intimità.

Ha fornito musica di ogni genere, rappresentando una colonna sonora
della società contemporanea, un tappeto sonoro su cui camminiamo
sul lavoro e nelle città; si è alleata naturalmente al telefono
cellulare riempiendo di conversazioni e di SMS gli interstizi della
vita sociale, non solo in funzione fatica (che non è poi così da
disprezzare) ma come una grande narrazione orale, un composito
affresco delle mille sfaccettature di una società ormai complessa.
Un mezzo giovane e metropolitano che può essere anche povero,
frugale e semplice, no-profit, a bassa energia e costi ridotti;
parlare da una comunità o da un paese del terzo mondo,
clandestinamente da Belgrado o da Kabul appena liberata, dal campus
di una università come accade qui a Siena o in tanti paesi del
mondo.
Leggero, ma forte e rapido nell'informare e nell'aggiornare, nel
mantenerci connessi, nel fare aggregazione. L'incontro tra radio e
Internet è stato fecondo, versatile, intenso; oltre duemila radio
nel mondo trasmettono sul web e se questo accade più che in
televisione non lo si deve solo a un fatto tecnico, alla minore
larghezza di banda che richiesta da un file audio rispetto ad uno di
immagini in movimento, ma ad una filosofia per molti aspetti simile,
fondata sulla personalizzazione piuttosto che sulla massa, sulla
nicchia e sulla specializzazione piuttosto che su un broadcasting
generalizzato e generalista.
L’interesse - direi il fascino - che essa esercita su molti di noi
è enorme; tuttavia mi pare di poter affermare che il territorio e i
percorsi della radio di oggi rimangono in parte inesplorati o
impalpabili, che le sue funzioni sociali, il suo “senso”
profondo, la sua collocazione nel sistema dei media e nell’industria
culturale rimangono ancora indefiniti, o stabiliti per differenza
dalla televisione e altri mezzi, oppure sono come certi astri la cui
collocazione in cielo è stabilita con calcoli astronomici precisi,
ma che rimangono invisibili per la povertà dei nostri telescopi,
così da restare in qualche modo oggetti congetturali.
Se vogliamo tentare un paragone musicale, più vicino alla sonorità
del nostro mezzo, questi percorsi e territori radiofonici sono come
musiche di cui percepiamo distintamente il ritmo e riusciamo a
seguirlo, ma il cui retroterra culturale, il cui sfondo di
riferimenti e citazioni musicali ci è ignoto. Abbiamo bisogno di
uno sforzo collettivo per elevare la nostra conoscenza complessiva
del mezzo, di aggiornare le nostre carte geografiche sulla scorta
dei viaggi che ciascuno di noi ha fatto e su cui ci si sta
resocontando oggi, ma tentando di fare un passo avanti, di andare
oltre la rassegna delle esperienze e degli studi, di non limitarsi a
comporre un caleidoscopio di forme diverse che la radio può
assumere. Cercando invece tutti insieme di coglierne un senso
complessivo e più profondo, che leghi e sistematizzi tante nostre
esperienze parziali.
Il secolo del suono
Il Novecento dal quale veniamo, il secolo della comunicazione di
massa e della riproducibilità tecnica allargata dei testi e dei
meta-testi, non è stato soltanto il momento della nostra storia in
cui la cultura tipografica e gutemberghiana del libro e del
giornale, dell’alfabetizzazione e della scuola, è stato sfidato e
spesso messo in scacco dalla cultura dell’immagine; dalle immagini
fisse dei cartelloni pubblicitari e delle fotografie, da quelle
cangianti e mobili del cinema e della televisione, frequentate per
la prima volta da grandi masse, da maggioranze di persone.
Il Novecento è stato anche il secolo del suono. Come per gli
antichi la poesia era insieme canto e parola, così suono è di
volta in volta musica e parola, e spesso lo è contemporaneamente.
Non soltanto l’immagine ha sfidato l’alfabetizzazione; lo ha
fatto anche il suono. E non mi riferisco a quel suono vicario
dell’immagine che è il sonoro dei media audiovisivi come la tv e
il cinema, obbligato ad accompagnare le immagini come una dama di
compagnia, come un corollario piacevole della percezione visiva,
come un complemento. Mi riferisco al suono solo (starei per dire al
suono puro), quello che sgorga nativo dalla riproduzione tecnica
della musica attraverso il disco e poi il CD; mi riferisco alla
registrazione e amplificazione elettroacustica della voce umana; e
soprattutto alla radiofonia, al broadcasting radiofonico. Per tutto
il Novecento, e nel secolo che da poco si è aperto, la radio
rappresenta il luogo più consistente in cui la voce e il suono si
presentano da soli, in totale autonomia espressiva, senza essere
accompagnati dalla parola scritta o dalle immagini.
Il territorio dell’oralità
Essa rappresenta forse il più vasto territorio dell’oralità che
ci sia dato riscontrare in civiltà come le nostre così
profondamente segnate (anche nel senso letterale del termine) dall’irrompere
della scrittura e poi dalla potenza meccanica della sua riproduzione
a stampa.
Si può affermare che, per la prima parte di questo secolo, la
comunicazione audiovisiva era ancora una risorsa scarsa e quindi la
radio rappresentava una scelta per necessità. Il cinema era muto,
la televisione non c’era. I famosi “radio days” degli anni ‘30
e ‘40 sono il fulgore estremo e già postumo di un’egemonia
della radio, che si era spartita i territori con il cinema (l’uno
re dello spazio pubblico, l’altra regina della sfera familiare e
privata) quando il re era ancora privo della parola e la regina
della vista. Con il film parlato il cinema rompe questo patto non
scritto con la radio, penetra fortemente nei suoi santuari: i primi
film nono sono solo sonori, sono cantati, sono film musicali.

La radio reagirà a questa irruzione creando nei propri laboratori
la televisione, il trionfo del dopoguerra, indissolubilmente legata
ai valori della ricostruzione e del benessere. Ricordo con affetto
questi radio days ma li trovo improponibili oggi. Oggi la
comunicazione audiovisiva non è più una risorsa scarsa, ma anzi
ridondante, assordante. Ciascuno di noi in ogni momento della sua
vita è fatto oggetto di un’offerta molteplice e larghissima di
contenuti audio e video. Se sceglie una radio, si tratta di un
ascolto elettivo, non di un ascolto per necessità. Con una carica
di intenzionalità, con un sistema di preferenze e di priorità, con
la consapevolezza che questo mezzo, meglio di altri, può darci un
qualche cosa che cerchiamo.
"Ascolto elettivo" significa sentirsi scelti e accettati
dal proprio pubblico e quindi corrisponde a sicurezza di sé o, se
si preferisce, a una maturità comunicativa. Questo spazio elettivo
radiofonico configura così un mondo vitale e condiviso fatto di
culture, linguaggi, atteggiamenti, stili di vita e di fruizione
culturale. Al suo interno si muove un complesso poliforme e
politeistico di tendenze e funzioni diverse, ma complessivamente il
mondo della radio sembra fortemente connesso alla capacità di
rappresentare la più efficace interfaccia comunicativa tra sfera
pubblica e sfera privata, personale e mobile, all'interno di una
dotazione mediale ormai molto raffinata e ampia di cui quasi tutti
noi, all'interno del mondo industrializzato, disponiamo.
Il pubblico cerca deliberatamente, un territorio (i vari territori)
della voce e del suono. Forse per motivi pratici, perché abbiamo le
mani impegnate dalle faccende domestiche o perché alla guida di un
veicolo non si può vedere la televisione. Ma probabilmente c’è
molto di più, l’intenzionalità, la volizione, dell’ascolto di
un testo per musica o voce sola, senza immagini né parole scritte.
Forse perché l’acusma, la possibilità del suono di farsi
ascoltare da qualunque luogo provenga, non ci costringe a fissare
gli occhi su qualche immagine o riga di stampa, non ci obbliga a
orientare il nostro campo visivo fino percepire quella e quella sola
immagine.
Forse perché si può ascoltare ad occhi chiusi, e perché gli
orecchi, diversamente dagli occhi, non hanno palpebre scorrevoli che
li chiudano. Perché la parola e la musica ci sollecitano un’azione
della mente per ricostruire da quei dati sonori una percezione in
cui li accoppiamo a un’immagine immaginaria, frutto di nostre
esperienze e proiezioni. Se musicalmente Pierino incontra il lupo,
ciascuno di noi lo vede in modo diverso, un lupo sincretico,
sintetico, non il lupo obbligato da un’immagine che mostra un
determinato lupo.
Il margine di libertà
Forse perché ci piace questa ginnastica mentale ricostruttiva, e ci
fa bene un margine di libertà di poter colorare i suoni e le voci a
nostro piacimento. Sta di fatto che 31 milioni di persone ogni
giorno in Italia percorrono i territori dell’oralità. Da Platone
in poi l’umanità si interroga sulle conseguenze che la
trascrizione scritta del pensiero ha avuto, passando dal mito alla
storia, dalla cultura orale al pensiero. Non è forse senza
significato una frequentazione così assidua di un territorio di
oralità, quasi un’isola etnica in un mondo in cui si fronteggiano
cultura alfabetica e cultura audiovisiva.
Le ultime scaramucce sono le parole di Piero Citati su “Repubblica”
di qualche domenica fa e quelle più bonarie, ma intinte in un humus
pedagogico e alfabetizzante, della signora Ciampi. Riflettendo sull’oralità
descritta da Walter Ong e sulle osservazioni sul pensiero selvaggio
di Claude Lévi-Strauss, e poi sentendo un rap, o la voce di un disc
jockey, ma anche la cronaca ritmata di un evento, ci pare che esca
rafforzata l’idea dell’oralità come bricolage comunicativo, e
della radio come delle poche forme postmoderne di oralità, molto
diversa dalla recitazione di un testo scritto, o dal sonoro
audiovisivo, che insieme rappresentano la pratica prevalente dell’oralità
contemporanea.
Un territorio si diceva; un’isola etnica, ma fortemente
frequentata da persone che vivono nel mondo della carta e dell’immagine
e che sentono il bisogno di andarci, e spesso. Una specie di Tijuana,
un Messico ronzante, sonoro e vicino, accessibile da una California
di Hollywood, di Palo Alto e di Silicon Valley; un Messico dove
forse non abiteremmo per tutta la vita, ma dove sentiamo
ripetutamente il bisogno di andare, come un necessario complemento
alla nostra esperienza intellettuale.
I radio days erano belli, ma erano un ascolto per necessità, come
la televisione in bianco e nero della Rai. Possiamo ricordarli con
simpatia, ma forse è più bello vivere oggi dove ogni ascoltatore
ti sente perché ti sceglie, perché quello che la tua radio fa è
quello che lui vuole e che sceglie in un panorama quanto mai
agguerrito di offerte multimediali. Con la radio la musica ha
assunto una particolare centralità nella società contemporanea. Un
linguaggio popolare universale, il più consistente e tangibile
elemento di sopranazionalità nella cultura di massa.
Generalmente si ritiene che i mezzi audiovisivi siano più perfetti
e completi di quelli “monosensoriali” come la radio, eppure gran
parte della vitalità della radio è spiegabile come aderenza alle
speciali caratteristiche del suono e della voce. Quando si sono resi
disponibili altri mezzi di comunicazione domestici con la
possibilità di mostrare immagini, come la televisione, e cioè
quando la radio ha perso il suo ruolo di necessità, di surrogato di
un'immagine mancante, la sua aderenza allo statuto del suono e della
voce si è dimostrata più stretta e più vitale.
Lo statuto dell'immagine nella nostra società è quella del
monopolio della realtà, anche quando ne è noto il carattere
artificiale. L'immagine della realtà è il principale simulacro, un
suo alter ego, un'emanazione diretta del vero: un "segno
macchiato di realtà", ha scritto Maurizio Bettini. La
fotografia, il cinema, la televisione hanno rinsaldato la credenza
di un immagine "che consente alla realtà di durare", che
ricerca costantemente la sua "veridizione", il suo
apparire vera (Calabrese).
Leggerezza impalpabile
La fotografia è "letteralmente una emanazione del
referente", senza mediazioni, una specie di Sindone impregnata
di un corpo, una evidenza, un "certificato di presenza".
L'immagine, tecnicamente riprodotta e così certificata, è assunta
come prova irrefutabile della realtà, in un eterno “reality show”.
Un culto dell'evidenza che si nutre dell'illusione che vedere basti
a conoscere, sostanzialmente svalutativo del ruolo del linguaggio e
del pensiero. In fondo l'esigenza di articolare un linguaggio e
quindi di organizzare un pensiero può essere nata nel remoto
passato dall'"impossibilità di trasportare l'evidenza",
di "renderla direttamente accessibile agli altri uomini";
un'impossibilità a cui i media audiovisivi hanno dato nel Novecento
una risposta che appare più accessibile del pensiero.
A questo culto dell'evidenza paiono sottrarsi il suono e la voce,
che sembrano dotati di uno statuto di maggiore astrazione. Il suono
non ha il vincolo di dover rappresentare la realtà, ma di
accompagnarla; la parola descrive o commenta la realtà, non è
tenuta a sostituirla. Questa è forse la “leggerezza” impalpabile
della radio. Con questa inarrivabile colloquialità la radio
raccoglie e riproduce tecnicamente parole e musiche che molti di noi
sentono necessarie, e di cui vogliono quotidianamente
approvvigionarsi per soddisfare esigenze personali profonde. Lo ha
fatto abbandonando ogni monumentalità, compresi i bei mobili di
legno o bakelite che contenevano gli apparecchi degli anni ’30-’50.
La radio si è miniaturizzata senza perdere di efficienza. Mi
colpisce il verbo che si usa per il Walkman: il walkman si indossa,
come un vestito; ci sta letteralmente addosso, gli auricolari ce li
infiliamo nelle orecchie. Nel termine “medium” è contenuta una
concezione arbitrale della comunicazione: il medium è qualcosa di
intermedio fra l’emittente e il ricevente, come un pugile sul
ring. È una concezione vecchia. La radio rompe questa simmetria, si
sbilancia fortemente verso il ricevente, gli entra in un taschino,
si miniaturizza e si nasconde nei suoi oggetti privati o nel
cruscotto dell’auto, diventa parte e protesi dell’ascoltatore,
il primo vero personal medium e il primo medium mobile. In questo
senso, è il primo dei nuovi media.
Diventa una metafora della funzione audio nella società
contemporanea, progenitrice di una funzione di interfaccia vocale
con cui dovrà fare i conti anche il computer ancora così attaccato
al suo schermo e non così “invisibile” (Norman) come si
pretende, se vorrà diventare davvero oggetto di uso quotidiano e
non solo mobile da ufficio, piattaforma mobile e non più stanziale,
e quindi comandabile da chi ha le mani e la vista occupate in
qualche altro lavoro, capace di mandare segnali audio sostitutivi di
quelle “finestre di dialogo” senza oralità, biglietti scritti e
un po’ puntigliosi recapitati da un orgoglioso sistema operativo.
Questo triplice processo di miniaturizzazione, mobilizzazione e
vicinanza al soggetto ricorda molto quello che ha investito il
telefono, non a caso un altro mezzo di solo audio. Il telefono ha
preferito la miniaturizzazione e la mobilità del cellulare
all'ingombrante postazione fissa del videotelefono, seguendo un
percorso di sempre maggiore informalità, flessibilità e
personalizzazione mobile della comunicazione che indica la stessa
linea di tendenza della radio.
Una comunicazione privata
La comunicazione privata comincia così a distinguersi in due
ambiti: una sfera familiare dominata da apparati fissi, pesanti,
sempre più simili ad elettrodomestici; una sfera privata e
personale, individuale, tendenzialmente mobile, fatta di apparecchi
minuscoli e leggeri, di costo modesto, dalla vita operativa più
breve, che seguono il loro proprietario in ogni luogo, ricreando
attorno a lui condizioni di intrattenimento e di informazione una
volta possibili solo nell'ambito familiare (e, prima ancora, solo
nei luoghi pubblici).
L’utente della radio ha quindi una prossimità virtuale con tutti
gli eventi della vita pubblica perché, in una maniera speciale,
partecipa ad essi. La sua sfera privata incorpora ora, forse per la
prima volta, elementi propri della sfera sociale. Non importa quanto
sia lontano dai grandi centri, quanto modesta sia la sua abitazione:
ogni giorno arrivano nella sua casa quelle notizie del momento e
quell’intrattenimento pregiato che avevano costituito, fino
allora, un bene poco mobile, scarso e costoso. Tutto ciò che prima
era esclusivo, costoso, raro, eccezionale, lento nella diffusione,
tende a diventare accessibile, gratuito, frequente, quotidiano, in
tempo reale.
Il walkman con le cuffie, che isola il suo utilizzatore
dall'ambiente circostante (un vagone della metropolitana, una strada
della città) inserendolo in una sua propria "bolla
comunicazionale" è la più chiara espressione - prima del
telefonino- di un totale rimescolamento della sfera pubblica e della
sfera privata, una volta così nettamente distinte. Il ragazzo con
il walkman o con la radio si muove in uno spazio pienamente pubblico
ma, grazie all'azione di filtraggio delle cuffie, rinuncia agli
stimoli provenienti da quella sfera pubblica sostituendoli con
quelli suoi propri, della sua tribù cultural-musicale, che ha
accuratamente scelto portandosi dietro la sua compilation in
musicassetta o la sua stazione radio preferita.
Qualcosa di simile al flâneur di Baudelaire: per lui "è una
gioia senza limiti prendere dimora nel numero, nell'ondeggiante, nel
movimento, nel fuggitivo e nell'infinito. Essere fuori di casa, e
ciò nondimeno sentirsi ovunque nel proprio domicilio, vedere il
mondo, esserne al centro e restargli nascosto." Così si
amministra il piacere di essere solo in mezzo alla massa, di
concentrarsi su di sé senza negarsi gli stimoli e le emozioni dello
stare in mezzo agli altri. Quella che era l'esperienza esclusiva di
avanguardie intellettuali nella Parigi ottocentesca si altera e si
trasforma, a contatto con la riproduzione meccanica ed elettronica
della comunicazione, in una pratica di massa.
Grazie al suo apparato comunicazionale fissato alla cintura il
ragazzo con il transistor, o il walkman, porta con sé la sua sfera
privata, attraversando con essa uno spazio pubblico da cui gli
giungono solo stimoli attenuati e scarsamente significativi. La sua
estraneità dalla dimensione pubblica è manifesta, perché le
cuffie sono evidenti e spesso il corpo si muove ritmicamente al
suono di una musica che sentiamo appena: una distanza sociale è
marcata, l'appartenza a quella tribù di cui noi non comprendiamo il
linguaggio è esibita e, talvolta, ostentata. Quella particolare
identità è percepibile solo a pochi, i membri di quella tribù, i
suoi eventuali antagonisti e pochi altri, come la firma geroglifica
su un graffito urbano non si preoccupa di essere compresa dal
pubblico generico: gli basta di arrivare agli altri writers.
L’uso quotidiano
Soltanto grazie a questa loro assoluta "privatezza" e
"personalità" e al loro incremento della bolla
comunicazionale i nuovi mezzi mobili, a cominciare dalla radio,
hanno potuto diventare l'oggetto d'uso quotidiano, ma anche la
proiezione di simboli e stati d'animo relazionali, che oggi
constatiamo.
"Spazio elettivo" significa sentirsi scelti e accettati
dal proprio pubblico e quindi corrisponde a sicurezza di sé o, se
si preferisce, a una maturità comunicativa. Questo spazio elettivo
radiofonico configura così un mondo vitale e condiviso fatto di
culture, linguaggi, atteggiamenti, stili di vita e di fruizione
culturale. Al suo interno si muove un complesso poliforme e
politeistico di tendenze e funzioni diverse, ma complessivamente il
mondo della radio sembra fortemente connesso alla capacità di
rappresentare la più efficace interfaccia comunicativa tra sfera
pubblica e sfera privata, personale e mobile, all'interno di una
dotazione mediale ormai molto raffinata e ampia.
La ormai nota ibridazione fra radio e telefono, fra radio e
Internet, non è soltanto dovuta ad affinità tecnica, ad una sorta
di determinismo tecnologico, ma allo svolgimento di funzioni sociali
complesse, sul confine tra sfera privata e sfera pubblica, in cui
tutti questi media sono in vario modo coinvolti. L’integrazione
fra i media, peraltro, è lo scenario del futuro, e non lo affermo
per motivi tecnologici ma perché è quello che meglio va incontro
ai gusti estetici diffusi e ai nuovi modelli di percezione (Sinibaldi
al Convegno di Teramo).
Questa capacità di interfacciare sfera pubblica o sfera privata si
sostanzia poi in varie funzioni svolte. Mi piacerebbe molto che ci
scambiassimo opinioni su questo. Sicuramente c’è una funzione
connettiva, una capacità di fare connessione. C’è poi una
capacità di rispondere ad esigenze identitarie e partecipative, che
forse è un corollario della funzione connettiva.
Credo che le funzioni connettive siano dovute al fatto che molti di
noi, mentre svolgono una qualsiasi attività, nel lavoro come nel
tempo libero, hanno il desiderio di essere accompagnati tramite la
radio da suoni e voci che danno loro l'idea di non essere isolati e
lasciati a se stessi ma connessi in modo flessibile ai loro simili.
È un’esigenza molto antica e profonda nella storia umana.
Situazioni come la solitudine, il bosco, il mare aperto, il buio
della notte da sempre rappresentano simbolicamente la possibilità
di smarrirsi o di essere aggrediti. La radio costituisce anche la
risposta della scienza ottocentesca e della modernità a questa
angoscia; la radiotelegrafia senza fili ha rappresentato la prima
possibilità di connettersi per una nave in mare aperto, in tempo
reale, attraverso l’oceano. Una innovazione di enorme importanza:
vedere un battello scomparire oltre l’orizzonte aveva sempre
significato perdere ogni contatto con esso e non poter raccogliere
una eventuale richiesta di soccorso. La simbologia del naufragio del
“Titanic”, fino ad Enzensberger, e del ruolo della radio, è
tutta qui.
La radio e il concetto di connessione rimangono per tutto il
Novecento saldamente intrecciati. Dalle Oggi un tassista, un ragazzo
del Pony Express, una guardia giurata o un tecnico dell’Enel non
sono veramente tali se non sono provvisti di rumorosi walkie-talkie
(un altro nome significativo) con cui comunicare "via
radio" a qualche invisibile e a noi preclusa “centrale
operativa” i dati della loro efficienza. Volontari della
Protezione civile dalle divise variopinte impiegano un 'enfasi
paramilitare nel riferire alla "base", per radio, ogni
minimo dettaglio.

L’esigenza di connessione è dunque ben radicata nello spirito del
tempo ma, negli spazi della vita in cui sta a noi decidere, optiamo
spesso per una connessione debole, che non abbia nulla a che fare
con il controllo gerarchico che è l’altra faccia dei
walkie-talkie e delle “centrali operative”. La radio si adatta
molto a questa richiesta. Gli ascoltatori non hanno desiderio di
essere molto concentrati su quello che ascoltano - anche perché
stanno facendo qualche altra cosa - e non amerebbero una
programmazione che richiedesse da loro molta attenzione, ma
desiderano questa presenza di sottofondo, che rappresenta una
connessione blanda ma costante e accessibile in ogni momento con i
loro simili e con la società.
Compattezza delle sfera personale e privata e stili di vita fondati
sulla mobilità sono quindi un amalgama solo in apparenza
contraddittorio, per il quale Williams parlò di
"privatizzazione mobile". La radio, che arriva ovunque
senza essere in nessun posto, contribuisce nel suo nomadismo ad una
"ipertrofia dei non luoghi" le situazioni metropolitane
standardizzate, anodine, sui cui si innesta la nostra esperienza
personale, fatta di una pluralità di livelli e di identità. La
vita nelle grandi città ci ha già offerto tante occasioni di
percezioni multiple. Ad esempio, sto viaggiando in metropolitana e
penso ai casi miei, ma intanto ascolto distrattamente la musica del
suonatore ambulante, sbircio i titoli dal giornale del vicino, mi
accingo ad una personale statistica su chi darà una moneta al
suonatore e chi no. In un caffè converso con chi è seduto al mio
tavolo e lo ascolto con attenzione, come faceva Roland Barthes
"e nello stesso tempo, come un testo, come un paragramma, come
in una stereofonia, intorno a me c'è tutto un campo di diversioni,
persone che escono e entrano, scatta l'ordine romanzesco."
Si oppone al silenzio
Possiamo persino scegliere di appartarci e stare da soli - fare una
passeggiata in bicicletta o stenderci sul letto senza far niente - e
poi attivare come bilanciamento questa forma di connessione
provvista dalla radio. La radio è qui come "un tappeto
sonoro" che si oppone al silenzio e al suo carico di
implicazioni emotive; una colonna sonora di musica nota e gradita,
eventualmente con brevissimi inserti parlati, all'interno di un
"continuum musicale nel quale muoversi in ogni momento della
giornata." Una fruizione musicale quasi in automatico, quasi
"preterintenzionale", una ritmizzazione e direzionalità (vettorialità)
della propria vita; un "ritmo urbano", una interfaccia tra
tempo sociale e tempo personale.
Altri invece danno la loro preferenza ad una programmazione parlata.
Può trattarsi di una conversazione leggera, di accompagnamento,
anche con telefonate degli ascoltatori, con una forte componente
fàtica. Alcuni critici severi, particolarmente annidati nei
settimanali e nei quotidiani ma talvolta anche negli istituti di
linguistica delle università, demoliscono con argomenti corrosivi
questa programmazione che spesso invece riesce benissimo nel suo
specifico intento, quello di offrire alle persone, in un continuo
bricolage di concetti e di pensieri, il tono e il ritmo della
società a cui essi ritengono di appartenere. Una sorta di sintonia
fine della regolazione sociale. Il pensiero corre al telefonino,
alle ricorrenti chiamate con persone amiche e alla produzione di
senso condiviso che questa pratica permette.
In realtà sia il telefonino che la radio, quando assolvono a
funzioni connettive, premiano i loro utenti anche con la particolare
soddisfazione di ciò che potremmo chiamare un potenziale (anche se
illusorio) raddoppio del time budget. Nel comunicare mentre si
cammina o nell'ascoltare mentre si lavora si reagisce all'ansia di
un tempo che sembra non bastare mai, si ha l'impressione di mettere
a profitto tempi obbligati (come le soste ai semafori), di
raddoppiare le proprie facoltà espressive, di aderire ad una
modalità dinamica che sembra propria di questa società, imitandola
con una nostra rappresentazione dell'attivismo.
È "il fascino della simultaneità, la scoperta che da un lato
lo stesso uomo, nello stesso istante, passa per molteplici
esperienze diverse, indipendenti e inconciliabili, dall'altro uomini
diversi e in luoghi diversi vivono spesso la stessa esperienza; che
in diversi punti della Terra, affatto isolati l'uno dall'altro,
accade nello stesso tempo la stessa cosa - questo universalismo che
la tecnica moderna ha rivelato all'uomo è forse la vera origine
della nuova concezione del tempo e dei procedimenti saltuari e
discontinui con cui l'arte moderna raffigura la vita."
Senza barriere
Credo significativo che questo brano, efficace testimonianza di
polisemie, politeismi e pluralità di esperienze nella stessa
persona, così vicino all'esperienza radiofonica, sia stato scritto
cinquant'anni fa, quando questo tipo di radio quasi non esisteva, e
per un motivo ben diverso: illustrare l'attività letteraria di
Proust e Joyce. Come abbiamo notato parlando di Baudelaire,
nell'arco di un secolo le testimonianze delle avanguardie sono
diventate esperienza di massa.
In un mondo fatto di nicchie e di tribù molti di noi chiedono alla
radio di aiutarli a riconoscersi nell'identità che hanno scelto e a
specchiarsi in essa. Di coltivare il loro particolare mix di
appartenenza e individuazione fornendo solo il senso di quella
determinata identità, che può essere una scelta totale, come la
scelta di fede, ma anche l'investimento di una parte della nostra
persona o anche di ciò che stabiliamo che sia - come avviene nelle
comunità virtuali della rete - senza coinvolgere tutto il resto. È
una comunità di adesione e di riconoscimento che può essere anche
temporanea, perfino della durata di una sola sessione di ascolto;
una comunità senza membership e senza pagamento di quote, tessere e
bollini, senza un momento vero e proprio di accettazione del nuovo
arrivato, senza attività sociale e tenui riti di ingresso se non
l'atto unilaterale di accendere la radio; una comunità largamente
immaginata, ma non per questo meno reale: perché aperta, inclusiva,
senza barriere.
La radio è il luogo dove questa identità viene confermata e
rifornita di sempre nuovi complementi e addizioni; per fare un
paragone, come quei programmi per computer che scaricano
automaticamente da Internet i loro aggiornamenti. Qui l'ascolto è
più attento, anche con componenti rituali. L'identità che è in
gioco può essere la musica, una certa musica, dietro la quale più
o meno chiaramente si disegna una figura sociale; ma anche
un'identità culturale, o politica in senso più o meno stretto.
Può essere un'entità geografica, etnica o linguistica, anche
dialettale, o legata a particolari consumi culturali. L'importante
è che quella specifica emittente sia percepita come uno dei luoghi
dell'arcipelago su cui insiste tale identità. Di qui può nascere
la partecipazione.
È stato spesso definito con l'espressione "radio di
servizio" quel complesso di informazione, aggiornamento,
previsioni meteorologiche, bollettini sul traffico e sulla
navigazione, dati di borsa, messe a punto e aggiustamenti in diretta
del nostro vivere sociale; ma si tratta di una definizione
riduttiva. Certo sono informazioni che "ci servono", che
ci rendono un servizio suggerendo comportamenti e pensieri, ma in
realtà sono molto di più. Attraverso queste informazioni si
sostanzia la partecipazione attiva ad una società, l'inclusione, e
anche forme della competizione sociale.
Barthes parla di "infra-saperi", collezioni di percezioni
parziali, raccolta di indicazioni utili e curiosità, studio di
particolari, che teniamo in memoria perché ci interessano, da essi
traiamo qualche piacere, e su di essi moduliamo il nostro comparire
nella società. La radiofonia permette di esplicare queste funzioni
in forma ripetuta e decentrata. Ad esse si affida l'ascoltatore per
modulare i vari momenti e aspetti della sua vita quotidiana e per
seguire quegli eventi la cui partecipazione diretta gli è per vari
motivi (dalla lontananza fisica all'urgenza di altre occupazioni)
preclusa.
Gli aggiornamenti informativi che ascoltiamo oggi, i notiziari, gli
elenchi di dati, quotazioni, temperature o dati sul traffico sono
solo apparentemente anodini. Segnalano implicitamente che non sono
accadute cose più importanti di loro, perché altrimenti il
contenuto sarebbe stato diverso; molti di essi ci sono magari
indifferenti, qualcuno però si illumina di un significato
particolare: perché parla delle quotazioni delle obbligazioni in
cui abbiamo investito i nostri risparmi, o della transitabilità
dell'autostrada che stiamo percorrendo, di una campagna o di un
evento che stiamo seguendo. Ma non si tratta soltanto dei nostri
minuti interessi particolari; queste notizie "spot"
ribadiscono la presenza costante di un'arena pubblica, collettiva,
che esiste (e di cui facciamo parte) anche se non si identifica in
nessun luogo fisico esclusivo (i palazzi della politica o le
istituzioni o le sale per riunirsi) e se la frequentiamo solo
episodicamente.
Il formato radiofonico ci permette di scorrere questi brevi
frammenti informativi con la rapidità della voce di uno speaker,
smistando rapidamente le informazioni cui decidiamo di attribuire un
grado più o meno altri di attenzione: così noi partecipiamo a
nostro modo al vivere della società, al suo pulsare come corpo
collettivo. Non c'è bisogno di scomodare lo splendido film "Good
morning Vietnam", ma bastano le trasmissioni del primo mattino
di molte emittenti radiofoniche dell'Italia di oggi per dimostrare
come la radio "dia la sveglia" al paese, con un linguaggio
fortemente timbrico, un moderno rito solare che evoca il mettersi in
moto da ogni parte di persone, veicoli, attività, per costruire
insieme la giornata che comincia a dispiegarsi anche con il nostro
contributo, perché ad essa siamo connessi di momento in momento, un
aggiornamento dopo l'altro, tramite le onde della radio.
Fucina di novità
Questa dunque è la nuova radio. Non è un apparato tradizionale,
divenuto marginale per l'esproprio operato dalla televisione,
circondato dall'affetto poco impegnativo per le cose nobili, colte e
non più tanto utili. È un vitale comparto economico,
contraddistinto da una elevata pluralità di cui non troviamo tracce
nell’asfissiante duopolio della televisione. Ma anche un
contenitore per attività di non profit, di volontariato, di cultura
e anche di preghiera. È un luogo dove si offre lavoro qualificato
ai giovani, compresi i nostri studenti. È una fucina di novità
tecnologiche, come la radio digitale. È un esempio di rapporti
pubblico-privato. È un modo transnazionale, Europeo, americano, del
Terzo e del Quarto mondo, insieme.
I media studies, sono per la radio in ritardo rispetto all’oggetto
del loro studio, che va molto più veloce di loro. Ci sono per
questo ritardo, in Italia, molte ragioni. Non vorrei tralasciare la
scelta di Ettore Bernabei di privilegiare lo sviluppo della
televisione e la cooptazione di intellettuali che attorno a questo
processo si coagulò. Un'intelligente ricercatrice, Lidia De Rita,
con una committenza della Rai, si recò nel profondo Sud e
documentò l'amore per la televisione di contadini analfabeti privi
di corrente elettrica, che dovevano percorrere chilometri a piedi
per raggiungere un apparecchio tv.
La tv era il loro primo ingresso nella civiltà. La brillante
ricerca e la bella prosa meridionalista colpirono anche gli ambienti
intellettuali progressisti del tempo, e influirono sulla
"Storia linguistica dell'Italia unita" di Tullio De Mauro,
in cui è contenuto un giudizio sommario sul contributo della radio
alla creazione di una lingua nazionale. Nel corso della sua ricerca
la De Rita aveva trovato presso i suoi contadini arcaici ben cinque
radio a transistor, che funzionavano benissimo anche senza la
corrente elettrica, ma tutta presa dalla sua inchiesta sulla
televisione e dall'ansia di dimostrare che essa, e nient'altro,
costituiva il viatico per la modernità, non aveva nemmeno chiesto
loro che uso ne facessero.
Discutiamo di questo ritardo, ricordandoci però che non è solo un
fatto italiano anche se in Italia ha assunto forme peculiari., e
constatando in tutti noi, grandi sforzi per superarlo. Quello che è
certo, è che l’università italiana non può in questo campo (se
non in tutti), muoversi in splendido isolamento. Occorrono molti
collegamenti in più rispetto a quelli che realizzati. La giuntura
con gli studi linguistici sul parlato è ancora insufficiente.
Modesto il rapporto con i musicologi. Non strutturato il rapporto
con centri di ricerca esterni all’Università che pure realizzano
ricerche importanti e in cui lavorano personalità di spicco della
riflessione sulla radio. Ma soprattutto da sviluppare è il rapporto
con le istituzioni del mondo radiofonico
E ancora la dimensione europea. A Siena ci abbiamo provato con una
radio di Ateneo e istituendo una laurea specialistica in Radiofonia
e linguaggi multimediali che partirà a ottobre 2002. Ma si può
fare molto di più anche con il lavoro in rete, e dare a tutti dei
risultati tangibili.
L’auspicio è che la varietà e la ricchezza dei linguaggi
radiofonici, l’innovazione tecnologica, i molteplici usi sociali
del mezzo, la sua dimensione pubblica e partecipativa, i modi per
crescere ancora e per intrecciarsi con le aspettative dei giovani e
degli studenti, con la stessa impalpabile leggerezza con cui sono
entrati nella nostra vita di ricercatori e di studiosi.
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