Brividi da stadio
Antonio Carioti
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“Ciò che più mi colpì fu proprio quanto la maggior parte degli
uomini intorno a me odiasse, veramente odiasse, essere
là. Per quel che riuscivo a giudicare, nessuno sembrò trarre
piacere, nel senso in cui intendevo la parola, da niente di ciò che
accadde in tutto il pomeriggio”.
Questo passo, tratto da un libro dello scrittore inglese Nick Hornby,
non descrive umori colti nell’anticamera di un dentista dalla mano
pesante, ma le impressioni dell’autore undicenne la prima volta
che il padre lo portò a vedere una partita dell’Arsenal, la
squadra di calcio londinese della quale si sarebbe perdutamente
innamorato.

Chi non è mai stato allo stadio potrebbe
stupirsi: ma come, il tifo non è uno svago, un divertimento?
Perché mai migliaia di persone dovrebbero pagare biglietti salati
(e spesso sobbarcarsi un mucchio di chilometri) per autoinfliggersi
tanta sofferenza? Invece le cose stanno proprio così, almeno per
gli appassionati più accesi.
“Piacer figlio d’affanno”, formula partorita dalla
straordinaria sensibilità poetica di Giacomo Leopardi, potrebbe
essere il motto unificante dei sostenitori di ogni squadra. Perché
il fascino principale del football consiste nella sua maledetta e
magnifica incertezza, nel fatto che una partita - magari la più
importante del campionato - può essere decisa da un rimpallo, da
uno scivolone, da un errore dell’arbitro, dai pochi centimetri che
fanno la differenza tra un gol e un palo. Un’incertezza che
produce ansia, tensione, paura.
Sono sensazioni difficili da descrivere, che ti prendono allo
stomaco molto prima del calcio d’inizio e che si acuiscono man
mano che scorrono i minuti. Cori, canti coreografie sono esorcismi
che possono lenirle, mai cancellarle del tutto.

Nemmeno il gol è un farmaco veramente efficace:
certo, quando la palla gonfia la rete avversaria si tocca per
qualche secondo l’apice della felicità, ma poi i dubbi riprendono
a roderti dentro, perché il vantaggio va difeso e possibilmente
incrementato, mentre basta un nonnulla per essere raggiunti. Un solo
gol di margine significa soffrire fino al novantesimo (anzi ben
oltre, ora che i recuperi si sono fatti così abbondanti), ma anche
due sono pochi, perché basta subire una segnatura per ritrovarsi
sui carboni ardenti. Forse tre possono dare una relativa
tranquillità, purché al fischio finale non manchi troppo tempo.
D’altronde, più si è penato e più intensa diviene la
soddisfazione quando il risultato è raggiunto. Niente esalta più
di una partita vinta allo scadere, dopo essere stati lungamente in
svantaggio, magari anche penalizzati dalla sfortuna e dalle
decisioni arbitrali. Il gol decisivo realizzato sul filo di lana è
il massimo dal punto di vista emotivo: segnarlo significa volare in
paradiso, subirlo vuol dire sprofondare all’inferno.
Lo sanno bene i supporter del Manchester United, che nel 1999 si
aggiudicò la Champion’s League con due reti nei minuti di
recupero, dopo essere stato sotto, giocando anche male, per tutto il
match. Ma lo sanno di gran lunga meglio i tifosi del Bayern Monaco,
che venne beffato dagli inglesi in quell’incredibile finale.
Infatti le sconfitte cocenti s’imprimono nella memoria molto più
profondamente delle vittorie trionfali. Per quanti successi possa
cogliere la Roma, i suoi sostenitori continueranno in eterno a
recriminare sul gol di Turone annullato in un incontro a Torino con
la Juventus, che costò ai giallorossi lo scudetto 1980-81. E
malgrado i tanti allori nazionali e internazionali, nulla potrà
mai, non dico estinguere, ma neppure ammorbidire l’ostilità verso
il Verona di noi milanisti, per i due campionati persi al Bentegodi
nelle ultimissime giornate delle stagioni 1972-73 e 1989-90.
Non a caso la Juventus è indiscutibilmente la squadra più odiata,
a causa del dominio esercitato per lunghi periodi sul nostro
football. “Bastardi, hanno rovinato la mia infanzia” è la
battuta pronunciata anni fa da giovane rossonero seduto accanto a me
sugli spalti di San Siro, mentre esultava per l’annuncio di un gol
subito dalla “Vecchia Signora” sul campo di una squadra
provinciale. Eppure in quel momento la Juve era staccata dal Milan
di parecchi punti e assolutamente tagliata fuori dalla lotta per il
titolo. In realtà il sogno proibito di molti, tra i quali
convintamente mi annovero, sarebbe vedere i bianconeri retrocessi in
serie B.
Sempre a proposito di Juventus, è significativo che i suoi tifosi
siano da sempre noti come i più tiepidi d’Italia. Quando si vince
troppo e con eccessiva facilità, la gioia si affievolisce.
Non ci sarà mai sotto la Mole una festa scudetto bianconera
straripante come quelle di Roma e Napoli, ma non è solo una
questione di carattere algido dei piemontesi. Infatti i sostenitori
del Torino, segnati da traumi come la tragedia di Superga e la morte
prematura di Gigi Meroni, sono animati da una fede incrollabile e
infuocata. Alcuni sono autentici “talebani del calcio”, che
celebrano la memoria di Valentino Mazzola e degli altri campioni
scomparsi con una devozione quasi religiosa.
Un altro aspetto molto importante del tifo è il suo carattere di
rito collettivo. Nella nostra società dominata dalla solitudine e
dal narcisismo, sono rare le occasioni in cui masse così numerose d’individui
vivono un qualsiasi avvenimento all’unisono, con le stesse
speranze e le stesse apprensioni nel cuore. Allo stadio è
assolutamente normale abbracciare uno sconosciuto, gesto oggi
plausibile solo in situazioni estreme.

Nemmeno i grandi concerti rock hanno lo stesso
effetto, poiché ad essi manca un fattore cruciale, l’imprevedibilità
della rappresentazione cui si assiste. Uno spettacolo musicale, per
quanto pirotecnico, ha un esito scontato. Invece una partita di
football si può vincere, perdere o (non sempre) pareggiare, quindi
è tanto più appassionante quanto più si presenta aleatorio il
risultato finale.
Ne consegue che la partecipazione attiva del pubblico all’evento
acquista tutto un altro significato: al concerto si tratta solo di
accompagnare l’esibizione di chi suona e canta, mentre i tifosi
sono animati dalla convinzione di poter influire con i loro
incitamenti sulle sorti del match, fungendo - come si suol dire - da
dodicesimo uomo in campo. Espressione palese di tutto ciò è il
comportamento dei giocatori che, dopo un successo esaltante, vanno
verso la curva per gettare alla folla le loro magliette, come in un
omaggio simbolico ai fan più agguerriti per il contributo che essi
hanno dato al raggiungimento della vittoria.
Naturalmente tutti questi discorsi valgono appieno solo per chi è
presente di persona intorno al rettangolo di gioco, infinitamente di
meno per chi assiste a una partita trasmessa in tv. Non a caso tra
amici spesso ci si organizza per seguire insieme un incontro
importante davanti al teleschermo, in modo da ricreare almeno una
parvenza della magica atmosfera che si respira allo stadio.
Nulla sarebbe più deleterio, per la passione calcistica, che
costringere l’intera massa dei tifosi all’ascolto televisivo,
costruendo impianti sempre più piccoli e dotati di tutti i comfort,
riservati a una clientela danarosa che vive la partita quasi come un’occasione
mondana.
Una certa logica commerciale spinge in questa direzione, ma rischia
di rivelarsi controproducente. Il calcio è un affare, soprattutto
come veicolo pubblicitario, anche perché suscita sentimenti forti.
Anestetizzare le emozioni potrebbe alla lunga affossare il business.
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