Il documento della sinistra
repubblicana
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Il documento della sinistra
repubblicana
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A Giovanni Berlinguer, Piero Fassino,
Enrico Morando
Una delle correnti della sinistra riformista confluite nei Ds agli
Stati generali di Firenze - quella di tradizione democratica, laica,
repubblicano-azionista - sente l’esigenza di farvi avere
osservazioni e puntualizzazioni, rispetto ai documenti connessi alla
vostra candidatura alla segreteria, in uno spirito ben preciso.
Nella preparazione e nello svolgimento del congresso sarebbe certo
letale uno scontro per il controllo del partito; ma il problema vero
è che la condizione di crisi dei Ds e della politica di
centro-sinistra ripropongono per intero i termini di quella svolta
radicale che era stata ipotizzata e che è andata oscurandosi per
incertezze, errori ed omissioni.
E’ perciò, il nostro, un contributo critico alle mozioni
congressuali presentate, che possono tuttora, per regolamento,
essere modificate. E che, a nostro giudizio, vanno modificate
andando oltre gli orientamenti di valore e gli indirizzi generali.
Entrambi sono indispensabili. Ma il problema del congresso è di
tradurli in proposizioni e scelte politiche coerenti e chiaramente
definite. Occorre cioè, a nostro giudizio, che il congresso sia la
sede effettiva della nuova connotazione politica dei Ds. È questa
una esigenza espressa in tutte e tre le mozioni: ma occorre adesso
che essa si traduca in precise posizioni politiche le quali
garantiscano una caratterizzazione stabile e percepibile: e pongano
vincoli di comportamento nelle scelte di ogni giorno, riducendo
così la ampiezza della delega necessariamente affidata al nuovo
gruppo dirigente.
Il nostro contributo si rivolge perciò a tre punti che sono a
nostro avviso quelli, nell’interlocuzione con voi, politicamente
più pregnanti e decisivi.
- I -
Il primo di questi punti è quello del rapporto tra il Partito e l’Ulivo,
su cui è bene il Congresso esca dalle formulazioni vaghe che in
materia circolano. Ed è giusto che, come avviene per ogni nuova
stagione politica, una posizione su questo problema sia il frutto
non di una esigenza tattica o di una ambizione di governo, ma
possieda lo spessore ben più convincente del riferimento alla
storia politica del paese. Sotto questo profilo è insufficiente
richiamare il modello rappresentato dalla esperienza, per tanti
altri versi fondamentale, dei maggiori partiti socialdemocratici
europei. A differenza dell’Italia, essi sono stati sempre nella
storia dei loro paesi rappresentando la sinistra tutta intera;
laddove da noi le sinistre sono state molte e confliggenti e il
modello socialdemocratico, come quello liberaldemocratico, sono
stati sempre o misconosciuti o vilipesi, anche nell’epoca dei loro
maggiori successi.

Da noi in effetti si sono scontrati, perché la
vicenda peculiare del nostro paese così esigeva, sinistre
riformiste, sinistre socialiste e sinistre comuniste. E tra le
sinistre riformiste vi è stato inoltre per lungo tempo un confronto
o uno scontro tra la sinistra democratica di ispirazione cristiana e
la sinistra democratica di ispirazione laica. Mentre il processo
acceleratosi drammaticamente negli anni 80 e 90 del Novecento ha poi
condotto la sinistra socialista e comunista ad assumere con maggiore
o minore chiarezza fattezze riformistiche assonanti con le
socialdemocrazie classiche.
E’ questo insieme di riformismi che oggi convivono e sono alla
base dell’Ulivo. E uno degli elementi rilevanti di unità dell’Ulivo
è la laicità dei rapporti nel senso di non pregiudiziali che
consentano la convivenza di principi non compromissibili come
prevede lo stato di diritto. La questione strategica che si pone ai
Ds è dunque questa: per poter rappresentare una credibile
alternativa di governo alla destra nel sistema bipolare italiano, i
riformisti italiani debbono essere uniti o divisi? Debbono fondarsi
su un unico indirizzo programmatico o su indirizzi differenti?
Debbono raggrupparsi in una formazione di sinistra e in una
formazione di centro-sinistra o in una formazione unitaria, che
valga anche ad attenuare gli inevitabili interessi particolari di
singoli gruppi?
L’iniziativa politica dei Ds deve dunque rivolgersi alla
costituente della sinistra o alla costituente di tutti i riformisti?
E i loro fondamentali indirizzi programmatici e politici debbono
tendere a rappresentare un momento identitario della sinistra,
diverso dal momento identitario della formazione di centro-sinistra,
o debbono rappresentare il fondamento di un’identità comune del
riformismo italiano? Come non vedere che è credibile non una somma
di piattaforme differenti ma una piattaforma culturalmente omogenea
che si applichi insieme, ed appunto armonicamente, al disagio
sociale, alla questione salariale, allo sviluppo economico e civile,
come ai gruppi sociali più legati alle trasformazioni in atto? E
come non vedere che la stessa richiesta della premiership avrebbe
forti ostacoli se derivasse dalla gamba di sinistra di una
coalizione variegata, contrapposta alla gamba moderata dell’Ulivo;
e ne avrebbe tutta un’altra, ben più convincente, se derivasse
dal fatto di costituire l’avanguardia più efficace del processo
di rinnovamento della sinistra, del centro-sinistra e del paese?
Occorre fissare con chiarezza che l’obiettivo, e il punto di
arrivo del processo di evoluzione della sinistra, è la nascita di
un nuovo partito del riformismo italiano, la Casa di tutti i
riformisti. Per raggiungere questo traguardo è necessario che i Ds
sì assumano questo obiettivo, che identifica la sinistra di governo
col riformismo e con il socialismo di taglio europeo, senza
indulgenza e nostalgia per una sinistra che appartiene ad un altro
periodo storico. Ed è necessario che i Ds, nella prospettiva della
costituente dei riformisti e per prepararla, rilancino nel frattempo
il partito dando vita ad un gruppo dirigente che creda in questo
obiettivo, con una chiara distinzione tra chi condivide questa
linea, che ci auguriamo riporti ad un’ampia maggioranza al
Congresso, e chi al Congresso si schiererà con posizioni
incompatibili con questo disegno.
E’ questa una scelta di fondo su cui è legittimo chiedere che sia
le mozioni congressuali sia il congresso si esprimano
esplicitamente. Il lavoro di revisione ideologica e programmatica
che si intravede nelle mozioni acquista in questo senso un duplice
significato: serve alla sinistra per uscire dalla sua crisi, ma
serve soprattutto all’Ulivo per dare ad esso la convincente base
della alternativa di governo. L’idea, variamente espressa nelle
mozioni, di un partito che non sia il vecchio partito del novecento,
ma un partito adeguato alle straordinarie novità del nuovo secolo
non solo corrisponde a una domanda diffusa ormai in tutto l’Occidente,
ma è l’unica via per superare con consapevolezza culturale le
tradizionali divisioni in cui si è persa l’efficacia della spinta
riformatrice in Italia.
Muoversi su questa linea può avere i passaggi resi necessari dalla
complessità della nostra storia politica: ma proprio perciò esige
a monte una scelta strategica non equivoca ed una iniziativa
politica stabile e rigorosamente coerente. Non saranno né le due
gambe dell’Ulivo né le forme federative di transizione della
sinistra, cui taluno accenna, che mobiliteranno le energie disperse
e frustrate che esistono nella nostra società. È perciò la
costituente dei riformisti per la Casa dei riformisti il punto di
arrivo su cui le mozioni congressuali e il congresso debbono dire
esplicitamente: si o no.
-II-
Il secondo punto su cui a nostro avviso è importante il Congresso
faccia chiarezza è quello della mondializzazione dei fenomeni. Non
è più dubbio quasi per nessuno, ormai, che essa costituisca un
vincolo per le politiche nazionali e di area sopranazionale; che non
rappresenti né una panacea né un fatto neutro; che la
consapevolezza degli squilibri e delle ingiustizie presenti nel
mondo, e in gran parte derivanti dai caratteri dell’età della
industrializzazione, costituisca un elemento imprescindibile nella
vita contemporanea; e che tutto ciò abbia bisogno di essere
governato attraverso un nuovo tipo di ordinamenti, di istituzioni e
di politiche. Ma da queste visioni di ordine generale scaturiscono
concreti problemi politici che esigono posizioni nette, poiché è
su esse che si costruisce in concreto l’identità della sinistra.
Il riferimento all’Unione Europea, come quadro e strumento della
politica nel Continente è certo fondamentale da ogni punto di vista
proprio come prima sperimentazione pratica e giuridica della
possibilità di governo contro le derive deterministiche della
mondializzazione finanziaria e sociale. Ma la questione che si pone
non è tanto la sua ulteriore evoluzione, sulla quale c’è larga
convergenza, quanto la sua iniziativa diretta alla creazione di un
tessuto di aree integrate ultranazionali - e di un coordinamento tra
grandi organismi di raggio mondiale - che allarghi la nozione di G7
e G8 su cui si è finora fondato l’esame dei grandi problemi
mondiali.
L’Onu, come è evidente, ha funzioni e responsabilità che non
vanno diminuite ma realisticamente accentuate. Ma la politica del
prossimo decennio, nel quale si giocherà la possibilità di
costruzione di un mondo diverso, dipende strettamente dal processo
di affermazione delle strutture di area sub-mondiale: che
rappresentano gli strumenti effettivi del reinquadramento politico
della economia di mercato globalizzata che superano la dimensione
dello Stato nazionale. La scelta fra questo tipo di visione politica
e la concezione dell’Onu come sede di soluzione dei problemi è in
realtà la scelta fra la capacità di direzione politica dei
fenomeni ed il rifugio utopico in soluzioni prive di reale incidenza
politica sui fenomeni economici e sociali.
Si tratta dunque di un punto fondamentale di orientamento e di
identità della sinistra di governo. Esso si sostanzia nello stabile
ancoraggio all’Unione Europa e alle alleanze internazionali dei
paesi europei nel cui quadro il processo europeo può svolgersi. Si
sostanzia altresì in grandi progetti di intervento economico e
sociale, diretti a combattere povertà, fame e sottosviluppo, che
richiedono in primo luogo non la polemica ma la collaborazione
politica e l’essenziale contributo economico dei paesi già
sviluppati. E si sostanzia infine in uno sviluppo coerente dell’organismo
di azione politica che nell’area europea rappresenta le forze
riformatrici, cioè il Pse: uno sviluppo che, per un verso, tenga
conto del deperimento del raggio di intervento degli Stati nazionali
e delle loro strutture politiche tradizionali; e per un altro verso
si allarghi a comprendere correnti culturali e politiche della
sinistra di tradizione non socialista, come è già avvenuto in
numerosi partiti socialdemocratici europei, e come in Italia deve
essere l’obiettivo dei Ds e dell’Ulivo,.
Al nostro Congresso nazionale non può dunque non essere detto che
la sinistra è di fronte ad una grande prova culturale e politica.
In effetti l’altezza della domanda mondiale in tema di lotta alla
povertà e alla disuguaglianza nelle aree deboli del globo, mette le
forze politiche occidentali, e la sinistra anzitutto, dinanzi a
problemi inediti travolgendo molti sloganismi correnti. Affrontare
in modo serio la gigantesca questione dello sviluppo mondiale
comporta un immenso costo economico e finanziario che non può non
incidere sulla condizione di ciascun paese già sviluppato.
Ne deriva il problema della modifica del modello di sviluppo che in
varie forme ha caratterizzato l’Occidente. Ne consegue la
necessità della creazione di un nuovo modello europeo, meno fondato
sul consumo individuale e più sul nuovo tipo di bisogni e consumi
sociali che sopravvengono con la modernità unendosi ai vecchi
residuati degli squilibri precedenti: il solo modello compatibile
con le politiche da porre in essere per portare vaste aree del globo
a condizioni più degne.
Ma la condizione chiave di queste politiche è uno sviluppo dell’economia
italiana ed europea fondato sulla competitività, tanto più
necessaria quanto più la sinistra mira ad eliminare ogni
protezionismo industriale e commerciale. Un elemento rilevante della
competitività, per un paese come il nostro, è oggi la ricerca in
sé, ma in specie se applicata alla innovazione tecnologica:
corrispondendo all’aumento di rilievo del capitale umano rispetto
a quello finanziario. È corretto considerare che la filiera
scuola-formazione-ricerca, e quindi l’adeguatezza dell’investimento,
sono cardini non solo della competitività ma della coesione
sociale.
Battersi contro il neo-liberismo e il corporativismo della destra
non si può se non sulla base di politiche mirate allo sviluppo
garantito dalla competitività. È solo la competitività del
sistema economico europeo che può reggere le politiche sociali e le
riforme del Welfare, entrambe necessarie per assicurare che la
flessibilità non diventi pura precarietà. Competitività e
questione sociale non sono termini alternativi ma complementari. E
finché la cultura della competitività non permei la sinistra;
finché l’economia di mercato, nel pluralismo delle sue forme
imprenditoriali comprese quelle partecipative, nel fallimento di
ogni altra esperienza economica, non venga colta senza esitazioni e
senza residui di avversione ideologica, non come uno strumento della
destra ma come l’unico strumento a disposizione della sinistra per
le sue politiche di sviluppo e di riforma, tutto il programma
economico della sinistra risulterà debole, arretrato e perdente:
privandola di quella coerente visione economico-sociale che è il
fondamento di ogni possibilità di rovesciare la destra e di tornare
a far vincere il centro-sinistra.
È in questo quadro così ampio che il congresso è anche di fronte
al problema del movimento anti-global. Esso è giunto in Italia ad
essere percepito sull’onda emotiva dei fatti di Genova, delle
violenze dei black-bloc e di certe reazioni inammissibili di alcun
settori delle forze dell’ordine. Si tratta in realtà di un
movimento largamente colto dalla cultura politica occidentale. Da
anni essa ha in effetti analizzato il carattere della
globalizzazione e le spinte che essa imprime a mobilitarsi non più
sui vecchi ma sui nuovi oggetti e problemi della politica. La
questione cui è di fonte la sinistra è perciò quella della
risposta a questa condizione inedita, che rischia di travolgere le
strutture politiche ancorate a vecchi modelli ed esige partiti di
tipo nuovo. E la risposta della sinistra democratica non può che
essere nel senso coerente alla sua storia. Come essa è riuscita nel
secolo scorso a inquadrare politicamente lo sviluppo dell’economia
di mercato in ambito nazionale attraverso gli strumenti della
democrazia e delle politiche di Welfare, così oggi si pone lo
stesso problema di fronte ai problemi dell’economia di mercato
globalizzata, che esigono nuovi ordinamenti, nuove istituzioni, e
nuovi approcci economici, sociali e politici.
La sinistra ha in questo senso un solo modo di far fronte al
movimento che si autodefinisce anti-global: che non è quello di
corteggiarlo ma di intervenire su esso attivamente sia sul piano
culturale sia su quello politico. Essa ha il compito di dare
risposte creative in una logica di soluzione dei problemi, non
quello di coinvolgersi emotivamente nella contestazione e nel
rifiuto. Una scelta di questo genere, che piccole frange della
sinistra in Occidente ancora perseguono sull’onda di miti
tramontati, può avere solo esiti doppiamente pericolosi: la
sconfitta politica della sinistra di governo e il rischio della
degenerazione terroristica della parte culturalmente ed emotivamente
più debole del movimento: nella stessa deriva fanatizzante che
conduce oggi settori antiglobal a dichiarare razzista lo stato di
Israele, provocando di fatto anche un indebolimento dell’autorevolezza
dell’Onu. Ed è legittima la domanda di quale utilità possa
essere un dialogo sui contenuti con un partito come Rifondazione
comunista: teso ad erigere una posizione politica non sulla riforma
degli elementi negativi della mondializzazione ma sulla
contestazione globale di un fenomeno storico irreversibile
considerato come un male assoluto.
-III-
La ricostruzione del rapporto tra la politica e la popolazione è il
terzo problema su cui pare a noi il Congresso debba segnare un punto
chiaro. L’aspetto più immediato di questo problema è la ripresa
del credito che i partiti politici in passato hanno avuto e che oggi
sembra largamente perso. Esso chiama in causa la questione della
cultura organizzativa del partito, dei suoi assetti dei suoi codici
di comportamento rispetto all’esercizio del potere.
In tutte le mozioni si dichiara la necessità di un partito “aperto”.
Ma quali sono gli impedimenti in atto che fanno percepire i Ds come
un partito “non aperto”? Un primo estremo sembra costituito dal
fatto che il partito a livello territoriale vive molto della
presenza nelle istituzioni: e ciò incide molto, di conseguenza,
sulla conduzione del partito riducendone la capacità di
proposizione e di sintesi dei problemi della società, che non
possano esaurirsi nell’opera delle istituzioni locali. Un secondo
elemento è rappresentato dalla residua struttura funzionariale: che
era un tempo elemento di rilievo nella elaborazione e nella
conduzione operativa del partito, ma che oggi ha difficoltà a
correlarsi con l’imponente evoluzione dei temi della politica e
che finisce col correlarsi, invece, al personale del partito nelle
istituzioni. Si crea così un circuito “centralistico” che è di
ostacolo all’affluire di nuovi temi e di nuove energie: e non si
alimenta una autonoma progettualità politica del partito legata
alla società.

Per venirne a capo occorre, anzitutto, che la vita
del partito si esprima mediante il confronto aperto di posizioni
politiche distinte. Occorre che esse non siano riassorbite dal
circuito centralistico di governo del partito, come è avvenuto nel
recente passato. E occorre che esse siano tutelate come elementi
essenziali di presenza del partito nella società. Un partito che
non si apre esplicitamente al dibattito politico, tecnico,
scientifico, sociale, morale, non entra nella società; e la
società si chiude rispetto ad esso contribuendo ad isolarlo.
Un terzo elemento della chiusura percepita dal paese è l’uso
strumentale delle nomine in incarichi pubblici a fini di controllo
del partito. Le nomine partitiche nelle strutture pubbliche non
elettive avevano un tempo una giustificazione democratica
irrecusabile. La democratizzazione assicurata dalle nomine aveva
dietro di sé la necessità di una risposta corretta degli apparati
pubblici, storicamente connotati in senso non democratico, agli
impulsi della volontà popolare espressa dai partiti. Ma oggi lo
Stato dei partiti è finito.
Un più accentuato carattere democratico dello Stato e l’influenza
stessa dei partiti nei differenti comparti della società non
dipendono affatto dalla presenza dei partiti nelle strutture
pubbliche. Dipendono piuttosto dalla capacità delle strutture di
dare risposte efficaci e trasparenti a questioni che, rispetto al
passato, sono divenute sempre più complesse e interdisciplinari,
tecnicamente più ardue, indirizzate dalla scienza, raramente di
carattere solo locale, spesso di natura nazionale o ultranazionale.
Sono cioè questioni che non consentono né gli stravolgimenti
tecnici né i ritardi legati, come l’esperienza dimostra, all’intervento
diretto dei partiti. Il prolungare un metodo storicamente datato
finisce così per isolare ulteriormente il partito dalla società, e
il comportamento del partito viene dalla società inteso come
comportamento possessivo, non ispirato al governo effettivo dei
problemi né al rispetto della autonomia della rappresentanza
sociale.
Per venirne a capo, occorre mettere in atto procedure di nomina in
cui la proposta sia avvalorata da una pubblica motivazione coerente
alla natura dell’incarico; soggetta quindi a pubbliche
osservazioni; e resa definitiva da istituzioni che ne assumano la
pubblica responsabilità, sottoponendosi così a giudizio pubblico.
Questa innovazione non deve valutarsi come una concessione strappata
da un’opinione pubblica stanca della politica: ma al contrario
bisogna valutarla come uno degli elementi fisiologici per la
ricostruzione di un rapporto positivo tra la politica e la società.
E il Congresso deve, a nostro avviso, impegnare il partito a una
autentica battaglia politica su questo punto.
Più in generale, la ricostruzione di un positivo rapporto tra
società e politica passa attraverso la percezione della volontà
del partito di realizzare uno scatto nell’etica pubblica. Rispetto
della norma; esemplarità di comportamento e di costume; rottura
della riservatezza nell’esercizio del potere; coerenza di
atteggiamenti nelle realtà locali; tutela di interessi generali:
questi sono tutti elementi indispensabili perché la popolazione
restituisca ai partiti, e al nostro per quanto ci riguarda, la
fiducia nella loro funzione di orientamento e di guida rispetto al
futuro. Noi crediamo perciò che il congresso debba esprimersi
esplicitamente su questo complesso di problemi; e debba impegnare la
nuova dirigenza a pretendere da tutte le organizzazioni del partito
il rispetto dell’orientamento fissato.
Un’ultima considerazione, trasversale a tutte le altre, è che, in
questo grave momento del paese, con una destra che continua nel
governo la campagna elettorale con altri mezzi, avvilendo qualsiasi
autonomia istituzionale del governo, ogni impostazione
personalistica, diretta o indiretta, del confronto congressuale è
da respingere come contraria agli interessi della nostra democrazia.
Questa ha bisogno oggi di tutti i suoi uomini. Nessuno può esser
esonerato, nessuno può sottrarsi da questa decisiva lotta
democratica.
°°°
Cari amici e compagni,
i temi del dibattito congressuale non sono certo esauriti, dai tre
punti che abbiano sottolineato con questa lettera pubblica. Vi
saremo molto grati, tuttavia, se vorrete esprimerci la vostra
valutazione su essi: sembrando a noi importante che il dibattito
congressuale sia alimentato anche dal confronto esplicito su
questioni probabilmente decisive per il destino dei Ds.
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