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Un ricco e ragionato “Requiem”
per un partito che fu
Giancarlo Bosetti
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Per
il cosiddetto popolo della sinistra italiana, che coincide grosso
modo con l’area di quelli che gli specialisti chiamano “elettori
fedeli” (gente che ha sempre votato e ancora voterà per il
centrosinistra, un gruzzolo sempre ragguardevole di milioni voti che
influirà comunque sul futuro dei progressisti italiani), si
avvicina il momento di considerare da vicino l’ipotesi abbandonare
le vecchie etichette e superarle confluendo in una nuova formazione:
nuovo partito, nuovo gruppo dirigente, passaggio reale di poteri a
nuove mani, nella direzione indicata subito dopo le ultime elezioni
politiche da Giuliano Amato. In altri termini: fine di una gestione
e sua effettiva cessione, non fittizia, come visto altre volte in
passato (Cosa 1, Cosa2 etc.). Quanto è vicino il momento dell’addio
per il vecchio glorioso partito Ds-Pds-Pci e per i suoi dirigenti?
È il tema proposto da “Reset”, la rivista diretta da Giancarlo
Bosetti, nel suo ultimo numero attraverso un forum di specialisti
dell’opinione pubblica (Bellucci, Mannheimer, Pessato e Sani),
analisi dei ceti emergenti e del loro rapporto con la politica (Staglianò,
Ettore Colombo), ricerca sulle sorti della Terza via nel mondo (Giddens,
Etzioni, Perger, Aldobrandini, Beck) e, in particolare, un lungo,
ragionatissimo “Requiem” intonato da Salvatore Biasco,
economista, che ha vissuto la scorsa legislatura dalla presidenza
della commissione bicamerale per la riforma fiscale.
Il tema che “Reset” propone è quello dell’addio al
vecchio partito, a Ds-Pds-Pci, a tutto il cordone che scende giù
dalla lunga variegata storia (luci e ombre, come si dice, inutile
cercare di cancellare le une come le altre: ci sono tutt’e due).
Il tema è quello di un ricco e ragionato “Requiem”, per
costruire, sul congedo dal vecchio, il nuovo. Ma il congedo - si
suggerisce - non deve essere retorico. Non basta invocare la
discontinuità, bisognerebbe, questa volta, farla.
Certo, il congresso di un partito è fatto per sollecitarne le
reazioni vitali, esistenziali, per trovare le soluzioni che
consentano all’organismo chiamato a raccolta di vivere e
possibilmente di prosperare. Persino la mozione di Morando, delle
tre quella più incline a dar vita a un nuovo partito del riformismo
italiano (dunque un altro partito come proposto da GiulianoAmato),
fin nel titolo parla di “salvare” la vita ai Ds, sia pure
facendoli confluire in un altro organismo politico. Un’altra,
quella di Berlinguer, parla di “tornare” a vincere, cerca cioè
nel passato le radici per rimettersi a dar frutti, è dunque quella
meno proiettata verso il nuovo, sposta il peso a monte anziché a
valle: nello sci in questo modo di solito si cade. Con l’attenuante,
in verità che l’ultima vittoria accreditata alla sinistra
italiana è quella ottenuta con l’Ulivo del ’96: dunque si
tratterebbe di regredire solo di qualche anno, a ringiovanire la
fortunata alleanza del Pds con Prodi e i Popolari. Ma è improbabile
che questo basti.
La terza, quella di Fassino, si intitola più prudentemente “La
sinistra cambia per governare il futuro”, e in prima battuta lo
slogan centrale era “Cambiare per sopravvivere”. Il congresso,
per quanto possa essere innovativo, è dunque il momento meno
propizio per dare l’addio alla propria vecchia identità, per
seppellire il proprio essere passato e stimola se mai l’orgoglio
dell’esistere. Fa eccezione a questa regola proprio lo
scioglimento del Pci, decretato con un congresso di dieci anni fa,
che però ebbe anche alcuni vistosi difetti, come quello di dar
luogo a una scissione e di trascinarsi dietro divergenze di fondo
mai del tutto ricomposte.
Ma obiettare che un congresso stimola gli istinti di sopravvivenza,
quando è il momento di cambiar vita, significa soltanto ricordare
ai presenti che il congresso rischia di essere completamente
inutile, se non dannoso, se si limiterà a dar corda a questi
istinti. Dunque il tema rimane quello: superamento della vecchia
forma e confluenza in una nuova, nella quale i vecchi abitanti della
casa diessina avranno probabilmente un posto tanto più rilevante
quanto prima organizzeranno il trasloco. E nonostante la difficoltà
della cosa in sé, è probabile che guadagnerà in credibilità e
prestigio chi avrà il coraggio di porre con maggiore chiarezza, per
quanto spinoso, il problema indicato da “Reset”.
Sono libere opinioni naturalmente, poste a confronto con altre, come
per esempio quelle di chi vede nella crisi internazionale una
occasione per lasciar perdere e rinviare rese dei conti, peraltro
sgradevoli a vedersi: maiora premunt. Ebbene, confessiamo
platealmente che la crisi potrebbe essere persino peggiore di quello
che è (che Dio non voglia!) eppure non si vede come i conflitti
internazionali possano esentare la sinistra di uno dei maggiori
paesi del mondo dal dotarsi di una forma e di un gruppo dirigente e
dal dare alla sua azione politica di opposizione una forma meno
precaria.
Che la navigazione della sinistra italiana sia dunque incerta e
perigliosa è fuor di dubbio, talmente perigliosa da non escludere
un naufragio, eppure la situazione offre comunque alcune certezze,
alcuni “punti cospicui” inconfondibili per il cartografo anche
con il mare in tempesta. Per “Reset” ce ne sono almeno quattro,
quattro scelte obbligate:
1) non c’è alternativa a una politica di “terza via”;
depurata dal suo coniugio con il modello anglo-americano e con il
suo bagaglio di pesanti ineguaglianze, la rotta di “terza via”,
cioè di modernizzazione con equità, è comunque inevitabile;
2) non c’è alternativa alla costruzione e al rafforzamento di una
coalizione di centrosinistra, l’Ulivo, insieme alla Margherita di
Rutelli. L’area elettorale da presidiare e conquistare è così
vasta e composita che è impensabile radunarla tutta quanta sotto
una sola delle bandiere dei partiti vecchi e nuovi;
3) non c’è alternativa a una opposizione netta e ben spiegata
agli italiani contro un governo e una maggioranza, quelli di
Berlusconi, che sono pieni di magagne dal punto di vista della
qualità democratica e carichi di istinti vendicativi: falso in
bilancio, aggressione alle cooperative, nulla di fatto sul conflitto
di interesse, mani sulla tv, tentazione di abbandonare la
concertazione sociale;
4) non c’è alternativa a un rapporto problematico della politica
con la globalizzazione. Il rapporto tra mercato e democrazia - lo
spiega bene Robert Dahl e la crisi attuale lo conferma in forme
parossistiche -, specie sul piano internazionale, non è quello di
una “coppia felice”, è un rapporto continuamente in
discussione, anche se senza alternative.
E accanto ai “punti cospicui” c’è anche un altro scoglio
molto pericoloso, così insidioso da far sembrare la missione della
rigenerazione della sinistra italiana quasi impossibile. Ci
ragionano sopra, su “Reset” alcuni studiosi del voto come
Bellucci, Mannheimer, Pessato e Sani. Risultato: la missione è
così difficile perché “biforcuta”. Per vincere, in certo
senso, la sinistra deve saper convincere in due direzioni
divaricate, verso il centro, l’area moderata, la capacità di
governo, lo spirito di compromesso da una parte, ma anche verso il
nucleo del suo elettorato tradizionale, i “fedeli”, i militanti.
Chi non capisce questa divaricazione ne sarà fatalmente macinato:
da una parte pragmatismo, innovazione, spregiudicatezza, competenza
di governo, dall’altra sobrietà di stile, solidità di principi,
credibilità, un po’ di coerenza.
Eh già, una sinistra più affascinante su entrambi i lati! Per
tutti. Compito di immane difficoltà. Ma la virtù del politico non
sta proprio nella capacità di “trasformare le preferenze”? E
quando mai ti applaudiranno se accorci la cassa integrazione, se
aumenti il ticket e parli di riforma delle pensioni? Si capisce che
le politiche di “terza via” hanno un costo in impopolarità; la
difficoltà di governarle è tutta lì, nella gestione di questo
malcontento “organico” (si vedano le sofferenze di Schroeder). E’
in questo che si misura la virtù dei leader, quelli che ce la
fanno. Ecco perché sarebbe un errore interpretare la prospettiva
dello scioglimento e della confluenza in un nuovo partito riformista
come una idea interessante solo per la parte più “spregiudicata”
della sinistra.
Oggi una parola decisiva su questo tema tocca, forse più ancora che
a Fassino, proprio a Sergio Cofferati e a Giovanni Berlinguer, cioè
all’ala che ha assunto sulle sue spalle il problema cruciale della
“popolarità” delle politiche di governo, e che mette il dito su
un punto doloroso, sottovalutato dal centrosinistra negli anni di
governo. Se ne sono capaci, tocca loro scavare nelle riserve di
consenso “di sinistra” necessarie per aprire la strada al nuovo.
Il successo elettorale del futuro riformismo italiano dipenderà
dall’ampiezza della partecipazione al processo di trasformazione.
Il meditato Requiem di Biasco parla di un partito, ancora tutto
governato e "tutorato" dall'ex Fgci, un partito inaridito
che mortifica le sue potenzialità: “Logiche perverse che, per
quanto ben note a tutti (anche nelle conseguenze esterne),
ineluttabilmente si perpetuano con una fatalità sconcertante.
Ognuno mette del proprio: la sinistra interna è un partito nel
partito, con una forte prevalenza della cultura dell'opposizione; le
donne sono poco rappresentate, ma se avessero più spazio questo
sarebbe occupato da un gruppo che residua da un movimento che fu,
ormai divenuto largamente autoreferenziale e chiuso”, che funge
più da barriera che da stimolo. E ancora “non è un buon
indicatore che gruppi dirigenti (da sempre) di città
importantissime dove il consenso al partito si è ridotto a zero,
siano premiati in blocco e quindi consolidati; prevalgono le cordate
e le fedeltà personali più che le connessioni ideali o le
capacità analitiche o le qualità personali”.
Molti sono in sostanza gli ospiti che questo partito negli anni si
è dimostrato capace di accogliere, ma quello che non cambia sono i
padroni di casa; quelli che hanno le chiavi sono sempre gli stessi,
anche se le loro prestazioni non sono più all’altezza dei loro
antenati, i quali per capacità di analizzare la società e di
trarne consensi erano piuttosto bravi, non è vero?, cari Tortorella,
Reichlin, Macaluso. Metter fine a questa cooptazione nella
continuità dinastica è a questo punto anche la condizione per
rinnovare la cultura dei dirigenti della sinistra italiana. La
confluenza in un’altra formazione politica è inevitabile. Il
margine della scelta, secondo Biasco, riguarda se farlo
deliberatamente, adesso, come “scelta di prospettiva” cercando
di avervi parte attiva, o se subirla come “scelta d'emergenza”,
con tutte le conseguenze del caso: forte il rischio di finire nell’arroccamento
conservatore e custode del passato, ancora più forte il rischio
dell’irrilevanza..
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