Il pluralismo delle visioni del mondo
Sebastiano Maffettone
Il
pluralismo delle visioni del mondo
Il gusto della libertà e dell’avventura
I diversi copioni del futuro
Le regole condivise scavalcano tutte
le barriere
La mappa del pensiero no-global
Segnalazione/Essere o non essere
globali?
Questo articolo è apparso sul numero di giugno-luglio 2001 di "Spoletoscienza
Magazine" in occasione del convegno "La nuova Odissea"
in corso a Spoleto dal 4 luglio e che si concluderà domenica 15. Le
registrazioni delle conferenze al convegno saranno disponibili al sito
della Fondazione Sigma
Tau dal 19 luglio.
La prima cosa che mi viene in mente quando vedo coloro i quali
hanno paura della scienza, o coloro che la pensano in maniera
esattamente opposta, credendo che la scienza possa risolvere tutti i
problemi umani (per esempio: “C’è una pillola per tutto, compresa
la felicità!”) è che si comportano come fanno i tifosi con una
squadra di calcio: o a favore o contro. Per puro pregiudizio.
Scambiano cioè un rapporto che, ragionevolmente, deve fondarsi sulla
riflessione con uno, invece, interamente vissuto sul piano dell’emotività.
Dal punto di vista di chi, a vario titolo, si occupa di scienza, da
scienziato, intellettuale o comunicatore, il primo dovere consiste, a
mio avviso, nel cercare di ribaltare questo atteggiamento diffuso e
perverso. Intendo ribaltarlo in senso critico per poi diffondere i
risultati di questo lavoro. Promuovere, bisogna, prima un
atteggiamento di riflessione davanti alla scienza per poi “lavorare”
sulla comunicazione della riflessione stessa.
La Fondazione Sigma-Tau si è sempre fatta carico in modo intelligente
e proficuo di questo problema che riguarda la scienza, dal punto di
vista delle reazioni che provoca e della comunicazione di un
atteggiamento proficuo in proposito. Ma suppongo che da me si richieda
qualcosa di più specifico. Se così vogliamo andare più a fondo e
cercare le ragioni filosofiche di quest’atteggiamento di “paura”,
almeno in Italia, le si potrebbero individuare, in primo luogo, in un
retroterra fideista, metafisico in senso ingenuo e quasi religioso,
assai diffuso nella cultura pubblica del paese.

Sostanzialmente, questo atteggiamento fideista - nel
suo complesso retaggio della cultura legata alla Chiesa Cattolica -
sostiene che esiste un ordine naturale: turbarlo è di per sé una
colpa. Ma c’è probabilmente qualcosa di più ancestrale in questa
concezione comune, qualcosa di legato alle nostre reazioni
psicologiche elementari verso il cambiamento, per cui l’ordine del
cosmo è creato da forze che non siamo in grado di controllare e per
questo non vanno modificate. In questo senso, la paura nei confronti
della scienza trova una sua ratio molto precisa: la scienza e le sue
applicazioni tecniche, pur distinte fra loro, ovviamente turbano l’ordine
esistente nell’universo e quindi implicano il timore panico, in
senso atavico.
Contrapposto a questo atteggiamento che abbiamo descritto, ce n’è
un secondo dominato da un pervasivo laissez faire intellettuale
sostanzialmente nichilista. Le cose accadono e non c’è nulla da
discutere in un universo dove l’ordine precostituito non esiste - e
il pluralismo contemporaneo delle visioni del mondo lo dimostrerebbe -
anzi, non c’è alcun ordine di nessun genere e noi, da poveri
mortali quali siamo, non possia-mo fare altro che prendere atto dei
cambiamenti che continuamente accadono e registrarli. Ogni nostro
intervento teso a controllare ciò che accade è pura-mente vano. In
breve, in questa seconda prospettiva anything goes, e qualsiasi
tentativo di capire quel che accade - la riflessione critica di cui si
diceva prima - è inutile.
Questi due atteggiamenti sono due visioni del mondo contrapposte e
molto forti: il nostro Paese è diviso, da questo punto di vista, in
quelle che potremmo chiamare due fazioni, i metafisici ingenui di
stampo religioso e nichilisti post-moderni. In realtà, entrambe le
fazioni sostengono in fondo la stessa cosa, e cioè che, per quanto
riguarda il progresso scientifico, non c’è niente da capire. Per
gli uni, non c’è nulla da capire perché tutto è stato già dato
dall’inizio, per così dire, per gli altri, perché non siamo in
grado di farlo dato che tutto cambia sempre. C’è infine un terzo
atteggiamento, ancorché minoritario, pure a mio avviso sbagliato,
atteggiamento che io chiamerei scientista, ed è quello secondo il
quale la scienza da sola deve badare ad auto-controllarsi, a
riflettere su se stessa.
La mia tesi, invece, immodestamente e contromoda sostiene: la scienza
è una cosa troppo seria per farla fare solo agli scienziati. Proprio
perché la scienza è il “motore “, la forza produttiva più
importante del nostro tempo, la forma più sofisticata di conoscenza
che noi abbiamo, non è un patrimonio esclusivo dei profes-sionisti
della ricerca ma un patrimonio della società, di tutti noi.
Questo mio atteggiamento, che io chiamo dell’etica pubblica, è un
atteggiamento che consente di riflettere sulla scienza poiché si pone
a distanza notevole dagli altri due - quello metafisico-religioso e
quello nichilista - e si contrappone allo scientismo che ne è il
residuo abituale. In Italia, dunque, ci dobbiamo abituare a pensare
che - come la guerra è una cosa troppo seria per poterla lasciare ai
soli generali, o la politica ai soli partiti - anche la scienza è
così importante da non poterne solo prendere atto passi-vamente senza
impegnarci a sapere cosa accade nel suo mondo. Secondo me, dunque,
ogni persona ragionevole dovrebbe “sposare” questo quarto
atteggiamento basato sull’etica pubblica.
Questo non significa negare che, a volte, la scienza possa avere
risultati che superano la nostra immaginazione, la nostra fantasia e
turbano il nostro inconscio, ma significa che con questi risultati
dobbiamo giungere ad una mediazione fondata sul tipo di atteggiamento
che io propongo.
Chi dovrebbe farsi carico di questa mediazione? Facciamo l’esempio
della genetica: essa ha l’appoggio delle tre forze più importanti
del nostro tempo, la scienza stessa, i governi e l’industria. Chi c’è
da banda opposta in questa situazione? Il cosiddetto popolo di
Seattle, e cioè gruppi di protesta dove l’emotività antagonistica
sembra di gran lunga superiore alle capacità critiche. La mia tesi è
quella di costituire una dialettica che non sia solo “contro”
pregiudizialmente, ma che invece ci faccia riflettere su quel dominio
assoluto della scienza secondo il quale “tutto quel che si può fare
si deve anche fare”.

Sostanzialmente, io sostengo la necessità di una
cultura del limite, che non significa censurare la scienza - tra l’altro,
non sarebbe possibile - ma più sem-plicemente significa pensare a
quel che si sta facendo mentre lo si fa e possibilmente anche un po’
prima. E’ un’impresa complicata ma non impossibile.
La genetica ha molto a che fare con la struttu-ra intima dell’uomo.
La clonazio-ne, ad esempio: se essa sia a fini riproduttivi o solo
terapeutici è in ogni caso qualcosa che riguarda la nostra essenza
umana in maniera radicale. Il non pensarci affatto, in una prospettiva
anche culturale ed etica intendo, è, a mio avviso, del tutto
irresponsabile.
Quali soggetti - istituzionali e non - debbono poi pensarci?
Sicuramente, tutti coloro che hanno anche minime pretese
intellettuali: tutti gli studiosi, senza limitarsi ai soli scienziati,
genetisti o meno che siano. Anche coloro che si occupano di
comunicazione? Da questo punto di vista, io ho sempre notato, nella
comunicazione italiana abituale, un difetto fondamentale e cioè
concepire, da un lato, scienza e tecnologia e dall’altro le
humanities.
E’ vero che oggi sapere di scienza è complicato a causa del
complesso bagaglio tec-nico e spesso matematico che molte discipline
adoperano per esprimersi, ma è altrettanto vero che sapere oggi
qualcosa di relatività generale o di genetica deve considerarsi un
elemento di una necessaria cultura generale, più o meno come sapere
qualcosa di Orazio o di Dante. Questo lo si deve capire, fino in
fondo, tutti e, in particolare, lo devono capire coloro che si
occupano di comunicazione.
Da questo punto di vista, io credo che Spoleto scienza sia un’esperienza
assai significativa perché sempre ha predicato la contaminazione tra
“scienze dure” e “scienze umane”. Ho sempre creduto in questo,
tanto da condurre una personale e silenziosa e ostinata, battaglia con
i direttori dei giornali e quest’anno, il 2001, avrò la
possibilità di far presentare il mio libro Etica pubblica a
Spoletoscienza da Ferruccio De Bortoli, direttore del Corriere della
Sera così da sottolineare l’importanza di questa contaminazione.
Come estendere la strategia del consenso intorno a questi temi? E’
sicuramente difficile. In sintesi, possiamo registrare due movimenti
paralleli: da un lato, ovvia-mente, le persone che per inclinazione o
professione fanno ricerca hanno, secondo me, un obbligo morale di
divulgare il senso profondo di quello che stanno facendo e ciò che
loro capiscono di quello che fanno; dall’altro, la nostra cultura è
una cultura profondamente liberal-democratica perché i grandi
problemi non sono problemi di elite ma sono problemi di popolo.
Questo è un punto difficile da far comprendere: è certo difficile,
per non dire impossibile, far comprendere a tutti le fondamenta della
relatività generale o i fondamenti della genetica, ma noi dobbiamo
operare come se ciò fosse possibile e questo significa diffondere la
cultura del consenso intorno all’impresa scientifica. Tutto quello
che noi intellettuali possiamo fare in proposito è cercare di
diffondere il desiderio di non schierarsi in modo emotivo, di non “tifare”,
-come è invece accaduto per il caso Di Bella - togliere di mezzo il
pro e il contro preconcetti e cercare piuttosto di far argomentare le
persone intorno alle ragioni della scienza.
Sebastiano Maffettone è professore di Filosofia politica presso la
facoltà di scienze politiche LUISS “Guido Carli” di Roma ed è
uno dei più noti teorici italiani del pensiero liberale. Ha al suo
attivo numerosi saggi, fra cui Utilitarismo e teoria della giustizia
(1983), Verso un’etica pubblica (1984), Filosofia, politica,
società (1995 con Salvatore Veca), I fondamenti del liberalismo (1996
con Ronald Dworkin), Il valore della vita (1998). Per i tipi del
Saggiatore, ha pubblicato Valori comuni (1989) e Le ragioni degli
altri (1992). E' appena uscito per Il Saggiatore Etica pubblica.
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Il gusto della libertà e dell’avventura
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Le regole condivise scavalcano tutte
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