Le regole condivise scavalcano
tutte le barriere
Enrico Bellone con Fabio Fantoni
Il
pluralismo delle visioni del mondo
Il gusto della libertà e dell’avventura
I diversi copioni del futuro
Le regole condivise scavalcano tutte
le barriere
La mappa del pensiero no-global
Segnalazione/Essere o non essere
globali?
Questo articolo è apparso sul numero di giugno-luglio 2001 di "Spoletoscienza
Magazine" in occasione del convegno "La nuova Odissea"
in corso a Spoleto dal 4 luglio e che si concluderà domenica 15. Le
registrazioni delle conferenze al convegno saranno disponibili al sito
della Fondazione Sigma
Tau dal 19 luglio.
Paura della scienza. Perché?
Gli storici della scienza hanno appurato che la diffidenza nei
confronti delle innovazioni scientifiche e tecnologiche ha un
andamento ciclico, con punte interessanti come ad esempio all’inizio
del 1600. Nei due secoli precedenti, erano emerse forme di conoscenza
considerate abbastanza “scomode” nei circoli universitari, nelle
accademie e tra gli intellettuali più influenti: erano le forme di
conoscenza che attualmente compongono quello che viene definito “mondo
delle tecniche”. La metallurgia, la prospettiva, l’alchimia, nuove
scoperte in medicina e la stessa anatomia, venivano considerate dall’intellettuale
più raffinato come espressioni culturalmente inferiori rispetto alla
cultura vera e propria. Ciò è dimostrato anche dal fatto che proprio
in quest’epoca in Inghilterra, per esempio, vengono pubblicati dei
testi illustrati con bellissime incisioni che descrivono il sistema
tolemaico.

Queste incisioni mostrano la Terra al centro
circondata da varie sfere simboleggianti i vari pianeti. Al di sopra
dell’ultima sfera sono raffigurati Dio e gli Arcangeli. In questo
modo si ha una visione del mondo molto ordinata. Altri libri mostrano
un mondo altrettanto ordinato: la società, dove al posto dei pianeti
abbiamo le Virtù e, al di sopra di questo mondo sferico delle virtù
civili e politiche, non troviamo più Dio e gli Arcangeli ma la regina
Elisabetta e i Lords. Da ciò apprendiamo che la cultura diffusa alla
fine del 1500 non può non considerare il Rinascimento altro che come
un tentativo di mandare in frantumi l’ordine ereditato dal Medioevo.
E il tramite della rivolta contro questo mondo è proprio il mondo
delle tecniche, quello di Galileo.
Lei quindi sostiene che la paura nei confronti della scienza è
sempre legata alla forza rivoluzionaria che essa porta necessariamente
con sé?
Esatto, la scienza manda in frantumi mondi tranquillizzanti ed in
sostanza statici. A scuola ci insegnano che il Rinascimento è un
periodo di trasformazioni positi-ve, ma all’inizio del 1600 non
veniva percepito proprio in questo modo. La gran parte della società
civile e dei suoi rappresentanti lo considerava un periodo di
turbamento che mandava in frantumi l’ordine delle cose naturali e l’ordine
della società civile. Questo spiega perché negli stessi mesi in cui
si lanciano le nuove scoperte in astronomia grazie all’ausilio del
telescopio, grandi poeti come John Donne scrivono che il mondo sta
andando in rovina.
Come è possibile che questa forza rivoluzionaria intrinseca alla
scienza poi non venga compresa da quelle che si considerano le frange
rivoluzionarie della società? Il riferimento va a quel grande
movimento chiamato “popolo di Seattle” che si batte contro il WTO
- World Trade Organization.
Coloro che fanno parte di questi movimenti si considerano veramente
rivoluzionari e credo che siano largamente in buona fede. Questi sono
però movimenti che sostanzialmente si basano su un atteggiamento di
rigetto della scienza; la scienza e la tecnologia ai loro occhi sono
simili alle imprese multinazionali proprio a causa del carattere
internazionale della ricerca, non esistendo una scienza identificabile
con un luogo geografico.
Si tratta della famosa globalizzazione.
La globalizzazione nel campo scientifico è certamente una grande
scoperta risalente al 1800 ed è inarrestabile. In campo scientifico,
una teoria sul campo gravitazionale è uguale a Parigi e a Pechino e
ciò può allarmare chi è contrario alle forme di globalizzazione.
Questo atteggiamento è abbastanza nuovo rispetto a ciò che accadeva
in passato, ma non è qualitativamente diverso. Pensi ad un fatto:
quando alla metà del 1800 diventa evidente a molti che la teoria dell’evoluzione
biologica ha una portata generale, la reazione che ne derivò fu di
accusare Darwin di essere contro la reli-gione. Non solo bollarono la
teoria come errata, ma soprattutto le lanciarono contro un’accusa di
tipo politico; la stessa cosa accadde a Galileo.
Il rigetto della scienza quindi ha sempre una valenza politica e
filosofica e in certi momenti ciò è molto diffuso, come sta
accadendo oggi nel caso delle biotecnologie. Il processo di crescita
di certe conoscenze tende a sfuggire alle regole che i filosofi, i
religiosi e i politici ritengono loro appannaggio. Al contrario, la
scienza possiede uno strano carattere non ancora ben capito: è
autocorrettiva al proprio interno, quindi non può accettare norme che
vengono dall’esterno. Le può discutere, e le può accettare solo in
parte, a causa del fatto che gli scienziati hanno bisogno di fondi per
poter fare il loro lavoro.
Il contrasto appare tuttavia inevitabile perché ci sono sì regole
etiche, politiche o religiose, ma rimane comunque difficile imporre
censure a una forza che è di per sé crescente e autocorrettiva, con
regole sue proprie. Se un matematico va alla lavagna e suggerisce la
dimostrazione di un teorema, nessuno gli chiederebbe mai di dire per
chi vota o se crede in Manitù. Ciò mostra che ci sono delle regole
condivise che scavalcano il mondo della falsa coscienza, il mondo
ideologico per eccellenza, e questo atteggiamento è molto mal visto.
Il filosofo Sebastiano Maffettone, nel suo contributo a
Spoletoscienza 2001, non crede granchè all’atteggiamento che lui
definisce scientista, secondo cui la scienza possa allo stesso tempo
badare ad autocontrollarsi e riflettere su se stessa.
Ma davvero esistono gli scientisti nel mondo della ricerca
scientifica? La figura dello scientista è molto più rara di quanto
credano coloro che vivono all’esterno dei centri di ricerca.
Allora c’è un problema di comunicazione.
Lei qui tocca il problema centrale, che è quello della comunicazione.
Oggi molti si accaniscono contro certe scoperte scientifiche, per
esempio quelle dell’ingegneria genetica, ma spesso non sanno neanche
di cosa si sta parlando; bisognerebbe essere in grado di conoscere e
capire i problemi e le soluzioni discusse quotidiana-mente nei
laboratori.
Questo significa un impegno, uno studio, cioè una fatica.
A mio avviso ciò che è pericoloso è che il divario tra cultura
diffusa e cultura scientifica sta crescendo in modo esponenziale.
Quanti cittadini oggi in Italia sarebbero in grado di affrontare una
discussione sui fondamenti della relatività generale o della biologia
molecolare? Certamente una minuscola minoranza. Il pericolo è che in
situazioni di questo tipo prevalgano ragioni diverse rispetto a quelle
scientifiche, e le si imponga con il codice penale.
Ma lei si immagina cosa succederebbe in un mondo in cui le leggi di
natura vengano decise in Parlamento e applicate nei tribunali? E’
già successo. La fisica di Einstein fu giudicata giudaico-bolscevica
dai nazisti e quindi vietata. In Unione Sovietica, Stalin definì la
genetica come una scienza borghese e milioni di persone morirono di
fame. Il grano non cresce con la genetica proletaria ma con la
genetica vera.
Si pensi alla produzione di farmaci. Certo, si sa che ci sono
interessi economici enormi, ma non si dovrebbe passare oggi attraverso
lo spegnimento di certe linee di ricerca fondamentale e finanziare
esclusivamente la ricerca utile. Mi chiedo se esista una ricerca non
utile. La ricerca in certi settori della matematica per esempio, a che
cosa serve se non alla conoscenza della matematica stessa? Allora che
si fa? Non la finanziamo? A cosa serve la ricerca sui Quasar?
Certamente non a migliorare l’andamento della borsa di New York. E
allora? Se si ragiona seguendo solo criteri utilitaristici allora è
la fine della ricerca fondamentale e quindi della scienza.
Tornando alla paura della scienza, Daniel Kevles, che parteciperà
a Spoletoscienza 2001, si chiede se sia sufficiente avere fiducia
nella Storia per far sì che le novità della scienza con tutta la
loro forza rivoluzionaria vengano poi accettate.
Certo, tutto passa. Quando nel 1800 medici e biologi scoprirono, per
esempio, le tecniche di vaccinazione, ci fu un’ondata di proteste
violentissime. Si disse che in questo modo si riduceva l’uomo allo
stato di bestia perché nel corpo umano veniva introdotto un qualcosa
proveniente dagli animali. Oggi, tutto questo ci fa sor-ridere ma
allora non faceva certo sorridere chi lavorava nei laboratori, anzi. I
ricercatori avevano una vita difficile. Per molti versi oggi non è
molto diverso: tutte queste favole secondo cui la bio-medicina e i
nuovi farmaci intaccano addirittura il segreto della vita sono
discorsi che vanno bene solo per i comizi domenicali. Ed intanto
perdiamo anni preziosi di progresso scientifico rispetto ad altri
Paesi …
Il problema, sempre sul piano della comunicazione, è che poi
queste informazioni in qualche modo “passano” tra la gente,
entrano a far parte della cultura diffusa.
Sì, queste credenze vengono utilizzate spesso in buona fede, ma è
poi spiacevole registrare il fatto - accaduto di recente - che una
persona piuttosto influente dica - e la stampa riprenda le
dichiarazioni sui giornali - che la biologia è in mano a neonazisti.
Bisogna stare attenti a fare certe affermazioni.
E’ vero, coloro che hanno a che fare con la scienza talvolta
hanno l’impressione di lottare, come nel passato, contro i mulini a
vento, oppure di lottare in trincea per difendersi da un certo
populismo. Accanto ai doveri della scuola o dell’università, oltre
che le pubblicazioni scientifiche oggi disponibili, è allora
sufficiente organizzare manifestazioni come Spoleto scienza o altre
simili, per diffondere cultura scientifica?
Nella tradizione italiana la scienza
e la tecnologia non hanno mai avuto una buona stampa né presso la
sinistra, né presso la destra, né presso il centro. La scienza è
stata vista in tutto il 1900 con un certo sospetto, soprattutto
per ciò che riguarda la scienza fondamentale. Sarebbe utile inventare
tante occasioni come Spoleto scienza e creare una mobilitazione
della comunità scientifica nel settore della comunicazione di massa.
In altre parole, gli scienziati dovrebbero impegnarsi a far conoscere
ai cittadini cosa si sta facendo di concreto.
Bisognerebbe occupare gli studi televisivi?
E perché no? Intervenire sui quotidiani, settimanali, fare opinione,
fare cultura. E’ questa una consapevolezza che da qualche tempo
sta crescendo, ci sono molti scienziati che scrivono libri divulgativi,
finalmente. Stanno accadendo sempre più spesso cose molto interessanti
che personalmente considero assai positive e ciò dimostra che non
si potrà sconfiggere mai la scienza. Anche se è ancora oggi più
tranquillizzante credere che il fulmine ed il tuono siano manifestazioni
di rabbia divina che pensare alle equazioni di Maxwell: ci si mette
meno tempo, si pensa meno.
Cosa mi dice in merito alla genetica e alla clonazione, divenute
ormai il tema centrale della paura della scienza?
La clonazione è uno degli strumenti più brillanti che la natura
applica quotidianamente. Si comincia a capire adesso come si possa
utilizzarla in modo più sicuro, e cioè in laboratorio. In natura
domina il caso, in laboratorio no: la differenza è fondamentale.
E contro una scienza medica spesso giudicata fredda, violenta
in alcune sue forme e comunque distante dal cittadino, è legittimo
girarle le spalle ed invocare la libertà di cura?
La libertà di cura va benissimo: se uno decide di morire con
l’omeopatia, lo faccia pure, ma quando poi si trova in condizioni
disperate non chieda al servizio sanitario nazionale di intervenire.
Bisognerebbe promuovere una forte campagna di discussione a favore
dei cittadini, per avvisarli che la libertà di cura è un sistema
che porta poi la collettività a sobbarcarsi di pesi economici molto
pesanti.
Enrico Bellone, (Tortona, 1938) laureatosi in Fisica nel 1962
presso l'Università di Genova, dal 1994 è docente di Storia della
Scienza presso la Facoltà di Scienze MM. FF. NN. dell’Università
di Padova. Dal 1995 è direttore della rivista Le Scienze - Scientific
American e, dal 1998, del Centro Inter dipar-timentale di Ricerca
in Storia e Filosofia delle Scienze della Università di Padova.
Tra i suoi libri, Einstein, Opere scelte Bollati Boringhieri 1988,
I nomi del tempo, Bollati Boringhieri 1989, 1999; e gli ultimi I
corpi e le cose, un modello naturalistico della conoscenza, Bruno
Mondadori Milano, 2000, e Pour une vision naturaliste de la science
et de la philosophie, in Un siècle de philosophie, Gallimard Parigi,
2000.
Il
pluralismo delle visioni del mondo
Il gusto della libertà e dell’avventura
I diversi copioni del futuro
Le regole condivise scavalcano tutte
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