I diversi copioni del futuro
Paolo Fabbri con Fabio Fantoni
Il
pluralismo delle visioni del mondo
Il gusto della libertà e dell’avventura
I diversi copioni del futuro
Le regole condivise scavalcano tutte
le barriere
La mappa del pensiero no-global
Segnalazione/Essere o non essere
globali?
Questo articolo è apparso sul numero di giugno-luglio 2001 di "Spoletoscienza
Magazine" in occasione del convegno "La nuova Odissea"
in corso a Spoleto dal 4 luglio e che si concluderà domenica 15. Le
registrazioni delle conferenze al convegno saranno disponibili al sito
della Fondazione Sigma
Tau dal 19 luglio.
Professor Fabbri, nell’articolo “Scienza, tecnologia e
troppa retorica” pubblicato il 20 settem-bre scorso su La
Repubblica, Aldo Schiavone indi-vidua nelle biotecnologie e nel-l’intelligenza
artificiale - oltre che nella comunicazione globale - le forme del
nostro futuro dove l’intreccio tra scienze e tecnolo-gie si fa
determinante. Che cosa ne pensa in proposito?
Io credo che al centro di tutto vi sia il problema della gestione
sociale della tecnologia, ed è importante che lo si consideri fuori
dai falsi profetismi e dalle dis-topie. La tecnologia ci pone oggi
questioni di natura filosofica, precisando beninteso che oggi pensare
filosoficamente escluden-do la tecnologia è fare dell’ideolo-gia.
Tengo a precisare però che questo quadro è quello di un semiologo,
attento ai problemi di comunicazione e signficazione, piuttosto che di
un filosofo. Non ho invece l’intenzione di tornare sulle questioni
della rete. Oggi Internet non è un problema da definire: è un
ambiente in cui viviamo.

Quali sono allora i problemi che Lei ritiene
ancora da definire?
Il problema da risolvere riguarda la natura dell’uomo. Mi spiego:
abbiamo sempre operato per migliorare le specie animali e vegetali per
incroci ed innesti; ora c’è la possibilità, anzi l’imminenza di
lavorare anche sull’umano. E’ cominciata una battaglia
com-merciale non solo sul DNA ma sulle possibili varianti d’allevamento
dell’uomo. Le nuove tecnologie proposte dall’ingegneria genetica,
la clonazione, la riflessione bioetica sugli embrioni ci pongono
quindi davanti a dilemmi di antropologia filosofica.
Ad esempio?
Ad esempio, la ridefinizione dell’Umano inteso però in senso
tecnico, cioè cosa si può riprodurre e in che misura farlo evolvere.
Penso al dibattito tra Peter Sloterdijk e Jurgen Habermas in Germania,
dove si sono agitati vecchi spettri eugenetici. Qualcuno ha detto che
siamo passati dal socialismo come soviet più elettricità, al
liberalismo come platonismo più genetica! In ogni caso: dovremo
ripensare il principio della genesi dell'uomo, la sua nascita e
genealogia e riscrivere forse un codice antropo-tecnico? Non potremo
nasconderci dietro principi di precauzione formulati ad hoc, che
possono anche essere il contrario della prudenza.
Altre “novità intellettuali” per gli anni prossimi venturi?
L’altra novità sta nel fatto che siamo passati da un concetto di
sublimità naturale - la visione della natura come qualcosa di
minaccioso e violento verso cui l’uomo si poneva in un atteggiamento
di ammirazione e considerazione - ad un concetto di protezione
controllata, per evitarne la manipolazione selvaggia, se non la
distruzione. Sublime diventa l’uomo e la natura è fragile canna al
vento. A questo punto, urge una ridefinizione della condizione della
vita naturale e degli animali oltre che dell’uomo stesso. Non ci si
può permettere senza gravi conseguenze uno stallo intellettuale ed
emotivo, cioè la mancanza di coraggio nell’affrontare l’ipotesi
di un rinnovo antropologico scaturito dalla manipolazione della vita.
Non crede che sia troppo presto per tracciare i contorni di una
nuova evoluzione?
Ci troviamo davanti ad un problema che è immediatamente
speculativo e politico. Siamo passati da una fase di
depoliticizzazione ad una progressiva ripoliticizzazione provocata
dall’evoluzione tecno-scientifica. Da parte della classe politica c’è
oggi una volontà a definire i parametri entro cui si deve muovere la
scienza? In ogni caso gli scienziati e le grandi lobby industriali si
interessano di politica più del solito. E gli intellettuali?
Quando parla di riattivazione della politica si riferisce forse al
“popolo di Seattle”?
Anche il cosiddetto “popolo di Seattle” entra in questo gioco.
E’ un sintomo, quello, che non siamo in grado di costruire un
Parlamento in cui si rappresentino contemporaneamente gli uomini e le
cose. Fino ad ora infatti, abbiamo avuto una netta dicotomia: da una
parte la scienza che “rappresenta” la realtà fisica e dall’altra
i Parlamenti che “rappresentano” i soggetti politici. Come dice
Bruno Latour, a tutt’oggi non siamo riusciti ad attuare il progetto
della modernità che avrebbe dovuto compiersi con la costituzione di
un nuovo tipo di Parlamento in cui attori umani e non-umani siano
rappresentati insieme.
A me pare che tutto quello che sta succedendo oggi nella biologia e
nell’ambiente - il fenomeno della mucca pazza, l'effetto serra, gli
organismi geneticamente modificati, l’elettrosmog ecc. - indichi la
necessità di eleggere in futuro un Parlamento integrato, capace di
una nuova politica. Sappiamo quanto sia vana l’ipotesi di risolvere
i problemi politici delegando gli esperti, sempre già politica-mente
coinvolti e sempre in conflitto.
Ci sono altre direzioni verso cui bisognerebbe muoversi?
Per tornare ai contenuti dell’articolo di Schiavone, un altro
problema che si pone è che non ci si può fidare ciecamente dell’intelligenza
artificiale e del suo sviluppo. Ne è prova la difficoltà che abbiamo
nel rappresentare le componenti emotive. E’ necessario affrontare la
costruzione articolata del senso, cioè del significato nella
relazione tra mente e corpo, tra sema e soma. Per esempio, nonostante
il progetto antibabelico dell’intelligenza artificiale, esiste a
tutt’oggi una diversificazione prodigiosa fra le lingue. (A
proposito l’inglese non prevarrà in futuro!). Una delle grandi
questioni del futuro saranno le lingue e le traduzioni tra lingue, che
inevitabilmente trasformeranno le assegnazioni di senso e valore.
Compreso il senso e valore del Tempo e quindi del Futuro.
Alcuni vedono il futuro come profezia di valore, altri pensano che il
futuro in realtà sia qualcosa di già prescritto - mi riferisco ai
fondamentalismi religiosi - altri ancora pensano che il futuro sia
implicito nella tecnologia stessa. Certo lo sviluppo delle tecnologie
include il futuro come una sua normale prospettiva di evolu-zione.
Ritengo invece che ci sia un aspetto politico altamente costruttivo
che implica scelte radicali da compiere. Basti pensare alla
sostituibilità prevedibile di alcune parti del corpo umano con organi
animali o col silicone o addirittura la sostituzione del corpo intero
con oggetti di nanotecnologia.
(Ricordo in proposito il dibattito intorno alla relazione di Bill Joy
che ha avuto luogo l’anno scorso a Spoletoscienza). A questo punto
è importante chiedersi quale ruolo assegnare all’unicità dell’esperienza.
Prendere decisioni sul fatto che l’uomo oggi possa selezionarsi come
specie rimane un problema di costruzione di senso. Altrimenti il
futuro sarà chiuso all’interno di un processo evolutivo di nuove
tecnologie, un processo impensato.

Si deve allora pensare ad una pluralità di
futuri e non ad un solo futuro?
E’ chiaro, abbiamo a che fare con diversi copioni, sceneggiature
plurali di un futuro diversamente modalizzato. Vorrei allora chiudere
con un’osservazione linguistica. Il futuro nelle lingue latine è
diverso da quello delle lingue Sassoni. In queste ultime il futuro si
costruisce con il verbo “volere”, ad es. “I will do”, il
nostro futuro invece si forma con il verbo “dovere”. La forma
latina in -bo è stata sostituita dalla forma attualerò per l’influenza
della modalità del dover essere. Modalità che viene dal ruolo del
futuro profetico nella cultura cristiana: “ciò che ha da essere”.
Insomma da una parte, il volere fare una cosa, dall’altra la
necessità che essa accada: ecco due modelli di futuro. Ce ne saranno
altri certo - per esempio, la self-fulfilling prophecy - ma è
necessario che questi futuri vengano dibattuti all’interno, se non
di un progetto, almeno di una previsione, o di un ripensamento
antropologico radicale.L’aspetto costruttivo non si limita ad
accompagnare la combinatoria delle mani invisibili della
globalizzazione, ma richiede il prospettivismo sui valori.
Paolo Fabbri (Rimini, 1939) è docente di Semiotica dell’Arte alla
Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Bologna. Ha
insegnato a Firenze, Urbino, Palermo e all’Ecole des Hautes Etudes
en Sciences Sociales di Parigi. Ha fondato il Centro di Semiotica di
Urbino e rappresenta l’Italia all’International Association of
Semiotic Studies. Dirige la rivista Mezzavoce, edita dal Ministero
italiano degli Affari esteri e dal Ministere de la Culture francese.
Dal 1995 dirige il Mystfest - Festival del cinema del mistero e del
giallo a Cattolica. Dal 1992 al 1996 ha diretto l’Istituto italiano
di Cultura a Parigi. Di recente ha pubblicato La svolta semiotica,
Collana Lezioni Italiane Editori Laterza Bari-Roma 1998, mentre il suo
ultimo libro è Elogio di Babele, Edizioni Meltemi, Roma 2000
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